La solitudine aiuta a crescere nella misura in cui consente il confronto con l’altro. Essere soli implica acquisire consapevolezza di sé stessi, dell’autenticità dei propri desideri e delle proprie aspirazioni, indipendentemente dai condizionamenti dall’altro. Impresa non semplice e, anzi, piuttosto coraggiosa, dal momento che l’omologazione dei bisogni e delle vocazioni rappresenta una norma universale che schiaccia le singolarità soggettive.
In tal senso, la solitudine, nel suo significato più autentico, rappresenta un’opportunità maturativa ed evolutiva. Il bambino sperimenta la separazione dai genitori e dopo una fase iniziale di smarrimento e solitudine, imparerà a costruire e a realizzare delle rappresentazioni che gli permetteranno di simbolizzare l’assenza delle figure genitoriali [1]. La solitudine dunque rappresenta un’opportunità unica di crescita. I bambini che non sperimentano mai la solitudine, ma sono costantemente immersi se non invasi dall’altro faranno maggiore fatica a trovare la propria possibilità di sviluppare autonomamente la propria modalità di relazionarsi.
La logica “autistica” del legame sociale
Parallelamente alla solitudine come opportunità, esiste una altra versione della solitudine che consiste nella frammentazione dei legami sociali. La frammentazione dei legami sociali è una conseguenza della perdita di fattori di aggregazione sociale, da quelli religiosi, a quelli culturali, a quelli politici. La cosiddetta società di massa così come si era delineata nel ventesimo secolo consentiva la possibilità di raggruppamenti di tipo collettivo in grado di coinvolgere milioni di persone all’interno di un orizzonte di senso comune. Ad esempio, gli ideali politici non rispondevano soltanto a delle strategie di ricerca del benessere ma si inserivano in una lettura globale della società secondo delle istanze di radice etica. Il bene comune, l’uguaglianza, la ricerca della giustizia sociale rappresentavano ideali che mossi da una spinta propulsiva di natura etica permettevano di rispondere a una domanda di senso per ciascun soggetto [2].
Il discorso capitalista sfalda i legami attraverso il sistema della rincorsa al successo lavorativo, sfida solitaria e narcisistica.
Oggi questa dimensione collettiva della ricerca del bene comune e del senso soggettivo si è smarrita completamente. L’avanzamento del discorso capitalista ha imposto una logica “autistica” sganciata dal legame sociale. In primis la ricerca dell’oggetto di consumo, godimento solitario e idiota, nel senso dell’autocompiacimento narcisistico dell’io. La ricerca dell’oggetto non fa legame ma si configura come un imperativo categorico universale che spinge al meglio, al più moderno e tecnologico, in una corsa affannosa che non si soddisfa mai nel completamento di sé tramite l’oggetto che manca e che non verrà mai pienamente raggiunto.
È la logica con la quale l’acquisto di un oggetto automaticamente predispone alla sua sostituzione in una corsa infinita che ricorda il mito della tartaruga e di Achille. Noi consumatori come moderni Achille siamo sempre sul punto di raggiungere la tartaruga, ma lo spazio di separazione tra questi due è potenzialmente infinito e permarrà sempre uno iato strutturale, incolmabile, fonte di insoddisfazione ma anche di rincorsa continua individualistica alla felicità intesa come primato soggettivo.
Il discorso capitalista sfalda i legami attraverso il sistema della rincorsa al successo lavorativo, sfida solitaria e narcisistica. Non ci sono più traguardi collettivi, sociali, da raggiungere; bensì ciascuno è ingaggiato in un processo selettivo parzialmente giustificato dal principio del merito. Naturalmente lo sfaldamento del legame sociale affiora in misura maggiore nelle aree urbane periferiche, dove la povertà economica, la disoccupazione, le disuguaglianze in termini educativi e formativi hanno contribuito alla frammentazione del tessuto sociale.
Ormai assistiamo ad una solitudine diffusa in una società iperconnessa dove la superficialità dell’immagine dello schermo ha soppiantato la vicinanza reale del contatto che passa per il corpo.
La solitudine nelle periferie
Questo dato è emerso in misura maggiore durante la pandemia legata al coronavirus. Non ci sono dubbi che le periferie e in generale le persone con livello socio economico più basso hanno avuto minori forme di tutela e protezione e sono state maggiormente esposte alle conseguenze sociali economiche e lavorative della pandemia. Sappiamo inoltre che il contagio è stato maggiore nelle aree urbane con maggiore densità abitativa e minore livello di ricchezza individuale [3]. Le norme di distanziamento sociale e le misure di lockdown hanno favorito la possibilità di un rifugio nel virtuale, nelle connessioni online mediante i social network e le varie piattaforme esistenti nella società attuale.
Sebbene sia difficile misurare il livello di solitudine soggettiva, la cosiddetta “loneliness”, ci sono studi che hanno evidenziato una correlazione inversa tra la presenza sui social network e la solitudine: maggiore è il numero di contatti sui social, maggiore è la percezione di solitudine [4,5]. Questo dato testimonia l’impossibilità di sostituire tramite il virtuale l’esperienza dell’intimità che può avvenire solo nel reale. Non solo, ma ormai assistiamo a una solitudine diffusa in una società iperconnessa dove la superficialità dell’immagine dello schermo ha soppiantato la vicinanza reale del contatto che passa per il corpo.
I sistemi sanitari e i dipartimenti di salute mentale dovranno tenere sempre più in considerazione questi profondi cambiamenti che stanno avvenendo nella società e considerare la solitudine come un indice preclinico in grado di predire il livello di salute mentale delle fasce sociali più vulnerabili.
Michele Ribolsi Servizio di Psichiatria Fondazione Policlinico universitario Campus Bio-Medico
Bibliografia
Freud S. Il gioco del fort-da. Tratto da “Al di là del principio di piacere, 1920.
Zizek S. L’incontinenza del vuoto. Milano: Ponte alle Grazie, 2019.