“Siamo in guerra “contro “un nemico invisibile”, come “soldati in prima linea”, “siamo in trincea” e combattiamo “una battaglia” chiusi nella nostra “zona rossa” perché vogliamo “sconfiggere la pandemia”. Le metafore belliche si sono sprecate in tempore pestis perché guerra, peste e carestia sono topoi collettivi, archetipi della nostra coscienza.
In sequenza apocalittica dopo la pandemia è scoppiata la guerra. Quando cessa la pace, che è precondizione per la salute, minacciata da ogni conflitto che non è fattore di rischio ma concreta causa di sofferenza, di malattia, di morte, allora dalla retorica si trascorre alla cruda realtà e i medici non rappresentano la guerra come metafora ma, come ogni cittadino, ne sono toccati, ne sono partecipi.
Ilpunto.it ha già dedicato ampio spazio a un primo aspetto della complessa questione, la collaborazione con ricercatori che operano per “il nemico” oppure per lo Stato che infrange il diritto internazionale aggredendo un altro Stato, concludendo che la scienza si fonda sul libero scambio di conoscenze e che lo scienziato è anche responsabile delle applicazioni delle sue scoperte ma non fino al punto di affermare una falsa neutralità della scienza.
La medicina ha bisogno di pace se vuol progredire nella lotta alle malattie.
In apparenza la questione è semplice: la medicina rifiuta ogni violenza, non può far alcuna differenza tra persone, amici o nemici, civili o militari, considera la pace un prerequisito per la tutela della salute, è consapevole che la guerra contribuisce alla distruzione dell’ambiente accentuando il rischio antropogenico. La storia dei servizi sanitari universalistici e ugualitari testimonia che la salute fiorisce dove esiste libertà e uguaglianza. La medicina ha bisogno di pace se vuol progredire nella lotta alle malattie.
Questo è il succo che si trae dalle norme del vigente Codice deontologico. Nel quale, all’articolo 77, si affronta il problema del medico militare con molte aporie e qualche contraddizione, in particolare quando obbliga il medico militare a segnalare all’autorità abusi e torture, a quella stessa autorità militare che spesso ne è causa.
Ma permangono alcune domande cui non è semplice rispondere. Il medico può partecipare alla guerra? Sì, se è giusta, lo dicono anche le religioni. Ma chi decide che quella guerra è giusta? E se si cade nel genocidio? E come si distingue tra danni ai civili o collaterali? E quando l’offesa non è diretta ma affidata a un drone teleguidato?
Nel fallimento delle corti internazionali, la kantiana pace perpetua è un’utopia perché non si può raddrizzare il legno storto dell’umanità. Altresì la deontologia non predica un astratto pacifismo, ma un interventismo attivo contro ogni forma di violenza. Mi sembra che questo punto sia dirimente: prendere armi contro un mare di guai. Questa dovrebbe essere l’occasione di formulare dichiarazioni delle associazioni professionali contro la guerra e per un impegno attivo in tal senso.
Nel fallimento delle corti internazionali, la kantiana pace perpetua è un’utopia perché non si può raddrizzare il legno storto dell’umanità. Forse ciò che dobbiamo chiarire è la gerarchia delle fonti.
Forse ciò che dobbiamo chiarire è la gerarchia delle fonti. Il medico giura sul Codice deontologico ma prima è un cittadino e, come tale, deriva i suoi doveri dalla Costituzione. Che prevede la tutela della salute come diritto “dell’individuo”, non solo “del cittadino”, mentre il Codice deontologico ha sostituito “paziente” con “persona”. Se le parole hanno un senso, in questo cambiamento lessicale sono ricompresi i doveri verso l’umanità e quelli verso la propria comunità.
Il medico giura sul Codice deontologico, ma prima è un cittadino e, come tale, deriva i suoi doveri dalla Costituzione.
La guerra, o qualsivoglia conflitto, pone al medico una questione lasciata irrisolta nel Codice deontologico. Il medico per la deontologia resta tale ovunque operi, sotto qualsiasi regime politico o contrattuale, ed è sempre soggetto alle norme del proprio Codice. Ma questa è un’astrazione: intanto perché non vi è un’unica procedura disciplinare e il giudizio degli Ordini è episodico, poi perché il medico è un cittadino del proprio Paese. Se in qualche modo si può riuscire, sia pur con difficoltà, a far coincidere gli scopi della medicina con quelli del servizio sanitario, quando questo si fonda su valori di universalità e uguaglianza, più arduo e far coincidere i valori dello Stato sia pur democratico con l’etica medica.
È quasi come se volessimo riaprire una antica discussione sulla religio medici. Sono convinto che, per quanto abbia origini sacrali, la medicina è una professione, nel senso più alto ed etico del termine, non una sorta di sacerdozio laico.
Per quanto abbia origini sacrali, la medicina è una professione, nel senso più alto ed etico del termine, non una sorta di sacerdozio laico.
Antonio Panti Medico di medicina generale Commissione deontologica nazionale della FNOMCeO Comitato regionale di bioetica della Toscana