Il termine “triage” deriva dal francese trier, che significa “ordinare, selezionare”. Sebbene avesse in origine una connotazione neutra (era utilizzato in ambito commerciale in relazione alla classificazione dei cereali o del caffe), il termine assunse un significato diverso nel momento in cui venne riferito alle vittime sul campo di battaglia. Il primo utilizzo in questo ambito risale all’epoca napoleonica, diventando poi la pratica più codificata in occasione delle due guerre mondiali.
Inizialmente la classificazione delle vittime consisteva in tre gruppi: feriti troppo lievi, quindi in grado di attendere; feriti gravi, a cui veniva assegnata priorità nell’evacuazione e nel trattamento; feriti troppo gravi per essere salvati, che non venivano quindi presi in cura.
Il triage funziona lungo un continuum decrescente nel rapporto risorse/pazienti: quando non possono essere soddisfatte tutte le esigenze di cura, l’attenzione si sposta da una prospettiva individuale a una di gruppo.
Anche al di fuori di un contesto di medicina di guerra, gli elementi di questa classificazione iniziale rimangono in alcuni sistemi di triage, ad esempio nelle cure extra-ospedaliere. Se siamo gli unici soccorritori sulla scena di un incidente stradale e ci troviamo di fronte due vittime, la prima con una frattura a una gamba e la seconda in arresto cardiaco, presteremo immediatamente le cure al secondo paziente, a elevatissimo rischio di vita, in quanto il primo può aspettare. In uno scenario in cui ci trovassimo invece anche una terza vittima, cosciente ma con insufficienza respiratoria grave per un trauma toracico, questa dovrebbe avere la priorità: infatti, se prestassimo le cure al paziente più grave (quello in arresto cardiaco), avremmo pochissime probabilità di rianimarlo con successo e nel frattempo il paziente con l’insufficienza respiratoria potrebbe morire. Avremmo con molta probabilità due morti invece di uno soltanto.
Il triage mira quindi in genere a massimizzare il numero di vite salvate e a dare priorità alle probabilità di sopravvivenza. Esso funziona lungo un continuum decrescente nel rapporto risorse/pazienti: quando non possono essere soddisfatte tutte le esigenze di cura, l’attenzione si sposta da una prospettiva individuale a una di gruppo.
L’American college of emergency physicians (Acep) definisce le catastrofi come situazioni in cui “la capacita di una data area o comunità di soddisfare i bisogni di assistenza sanitaria viene sopraffatta dagli effetti distruttivi di eventi naturali o artificiali” [1].
L’onere e la responsabilità delle decisioni possono essere di competenza dei clinici che hanno in carico i pazienti, oppure di un livello più alto nell’organizzazione sanitaria, prevedendo ad esempio dei comitati ad hoc.
Il triage, inteso come un processo strutturato di assegnazione di priorità in ambito medico, e utilizzato anche in condizioni ordinarie, nella relativa abbondanza di risorse di un moderno ospedale. Il triage ordinario stabilisce l’ordine in cui i pazienti verranno trattati in base all’urgenza dei loro bisogni e persegue la massimizzazione dei benefici per ogni singolo paziente. L’accesso dei pazienti ai dipartimenti di emergenza e accettazione e regolato con codici di priorità: un paziente con infarto miocardico acuto avrà priorità su un paziente con una lussazione di spalla. Anche la chirurgia elettiva (programmata) rispetta criteri codificati: la chirurgia oncologica ha precedenza sulle altre, in quanto il tempo di attesa può incidere sulla prognosi. La chirurgia urgente (potenzialmente salvavita) ha precedenza sulla chirurgia elettiva. Le lista di attesa per ricevere un trapianto di organo solido hanno criteri di priorità ben definiti e trasparenti. Non esiste un metodo universalmente corretto di praticare il triage o di giustificarne le scelte.
Spesso le decisioni di triage sono in contrasto con il modello ippocratico, che prevede come unico dovere del medico quello di promuovere il benessere del singolo paziente e di non arrecargli danno.
Dal punto di vista etico il triage (nonostante originariamente nei contesti militari – basandosi sulla necessità e non sul rango – contenesse al suo interno il seme di un’etica egualitaria) è supportato in genere da principi utilitaristi.
La maggior parte dei sistemi di triage è progettata per tutelare la vita umana, la salute, l’uso efficiente delle risorse e la giustizia, ma generalmente ignora altri principi importanti dell’etica medica, inclusi il rispetto per l’autonomia e il rapporto fiduciario tra medico e paziente.
Spesso le decisioni di triage sono in contrasto con il modello ippocratico, che prevede come unico dovere del medico quello di promuovere il benessere del singolo paziente e di non arrecargli danno. Non è previsto che possano essere compiute scelte sulla base di ragioni esterne. Si tratta quindi di un potenziale conflitto tra un’etica clinica individuale e un’etica pubblica, di comunità: il perseguimento di un bene comune limita di fatto la libertà, l’autonomia e la tutela dei diritti individuali.
La pandemia da sars-cov-2 ha sottoposto a pressione altissima molti sistemi sanitari, creando, per la prima volta su larga scala nella storia recente dei Paesi occidentali, condizioni di squilibrio tra domanda di assistenza sanitaria e risorse disponibili e richiedendo l’elaborazione di modelli di triage. A livello internazionale è scaturito un intenso dibattito in merito ai criteri di triage (clinici ed extra-clinici) e ai principi alla base delle scelte di allocazione delle risorse.
Marco Vergano Anestesista rianimatore Ospedale San Giovanni Bosco di Torino
Bibliografia
American college of emergency physicians (Acep). Policy compendium. Disaster medical services. Dallas: Acep, 2018; 196.
Questo testo è tratto dal libroLe parole della bioeticaa cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021). Per gentile concessione dell’editore.