Stella Maris: una stella polare mancata?
Dal dialogo terapeutico a quello platonico: l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy

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Dal dialogo terapeutico a quello platonico: l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy
È stato rilevato il paradosso per cui proprio oggi, dopo una pandemia dalla quale a stento ci stiamo risollevando grazie agli straordinari, rapidi progressi dei vaccini e delle norme igieniche e di profilassi, si fa più pressante ed endemica la sfiducia nei confronti della scienza. Si direbbe frutto, più in generale, di una diffusa diffidenza nella razionalità. Nei tempi di crisi, spetterebbe innanzitutto agli intellettuali risvegliare la capacità di affermarne le ragioni. Per esempio, gli operatori sanitari potrebbero essere chiamati a svolgere il ruolo prezioso di “traduttori di fiducia” tra scienza e opinione pubblica (vedi il recente editoriale di Guido Giustetto), magari affiancati da mass media consapevoli, in grado di riprendere la lezione di chi, nel recente passato, si è assunto il compito di divulgare le scienze rispettandone lo spirito e la complessità, come David Attenborough o Piero Angela.
Nei tempi di crisi, spetterebbe innanzitutto agli intellettuali risvegliare la capacità di affermare le ragioni della fiducia nei confronti della scienza.
Torna a pulsare insomma l’annosa, e irrisolta, questione della responsabilità dei chierici. E viene da chiedersi quale compito elettivo, se mai ve ne fosse uno, spetterebbe agli altri rappresentanti dell’intellettualità, come per esempio i grandi letterati, in grado di incidere su un vasto pubblico internazionale di lettori. Scrittori affermati, capaci di trascinarci nell’al di là della narrativa, trattando nei loro romanzi la questione climatica, vecchie e nuove pandemie, le nuove forme di disagio psichico – come Michel Houellebecq, Orhan Pamuk, Emanuel Carrère, il nostro Paolo Veronesi o Cormac McCarthy – possono coltivare e diffondere speranze, ma hanno anche il diritto soggettivo di lasciarsi sprofondare nel disincanto. Noi, loro pubblico, continuiamo però a chiederci se possano permettersi oggi un cuore di polvere. La domanda ritorna ora che è stata appena pubblicata Stella Maris, l’ultima opera di uno dei grandi scrittori statunitensi contemporanei, Cormac McCarthy. Difficile vincere l’impressione che chi ha dedicato la propria carriera a fissare il vuoto, ora non ne sia a sua volta fissato.
Aprendo il romanzo, un medico prova una subitanea familiarità, perché la prima pagina contiene uno spezzone della cartella clinica che racconta l’arrivo della protagonista, Alicia.
Stella Maris. Per una volta non è il nome di uno stabilimento balneare, ma di un ospedale psichiatrico nel Wisconsin, primi anni Settanta. Aprendo il romanzo, un medico prova una subitanea familiarità, perché la prima pagina contiene uno spezzone della cartella clinica che racconta l’arrivo della protagonista, Alicia: “La paziente è una donna ebrea/caucasica di 20 anni. Attraente, forse anoressica. È arrivata in questa struttura sei giorni fa apparentemente in autobus e senza bagagli”. La ragazza ha chiesto di essere accolta lì dove già era stata ricoverata. Bellissima, molto intelligente, suonatrice di violino di livello internazionale, ex studentessa-prodigio e dottoranda in matematica all’Università di Chicago. Ma è sola e inquieta, insidiata da pensieri suicidi e visitata da entità allucinatorie fantasmatiche (“Ho conversazioni clandestine con personaggi presumibilmente inesistenti”). Oltretutto, è innamorata del fratello maggiore Robert, in coma in Europa a seguito di un incidente automobilistico. Alicia è la protagonista di uno dei due corni dell’opera più recente di Cormac McCarthy, insieme a The Passenger, uscito in contemporanea. Quest’ultimo è centrato sul fratello Robert, Stella Maris è invece l’austera trascrizione delle sedute di Alicia con il suo psichiatra, il dottor Cohen. Un operatore sanitario noterà subito che la conversazione ha poco di realistico: somiglia più a un colloquio tra un candidato a una borsa di studio post-dottorato e un intervistatore non molto competente. Tuttavia, i motivi d’interesse permangono.
Per questo dittico, sedici anni dopo il precedente romanzo, la prosa del novantenne McCarthy, sempre più appassionato di fisica quantistica, si è fatta ancora più scabra. Aggettivazione quasi azzerata, nessun segno d’interpunzione nel dialogo, le affermazioni della ragazza e del medico si susseguono senza incastri e sovrapposizioni. Lui pone domande, Alicia risponde, lasciando trasparire una sofferenza profonda, acuita dalla consapevolezza della diagnosi di schizofrenia paranoide con la quale è stata presa in carico. Già nelle prime battute del dialogo, Alicia se ne esce con un’osservazione quasi lacaniana, riferita a sé stessa: «Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo, allora non sei così pazzo come chi pensa di essere sano di mente» (p. 15). Nel parlare della propria passione per la matematica (“l’intelligenza è numeri, non parole”, p. 19) e per la musica (“la musica non è un linguaggio. Non si riferisce a null’altro che a sé stessa”, p. 38), la giovane sembra voler indulgere sui bordi, insistere sui confini più che incerti tra normalità e disagio, anche se lei stessa sembra un nodo gordiano di patologie: sinestetica, schizofrenica, autistica, anoressica, incestuosa e con pronunciate tendenze suicide. Ma soprattutto, donna. E le donne, avverte, “«”conoscono un’altra storia della follia. Dalla stregoneria all’isteria, siamo solo una minaccia” (p. 137). Alicia non sembra certo porsi a distanza di sicurezza dal proprio nichilismo epistemologico: “Vita. Che dire? Non è per tutti”, dichiara agli inizi di The Passenger. Non a caso studia topologia, quella branca della matematica moderna che analizza le proprietà delle figure che non cambiano se vengono deformate senza “strappi”: degli oggetti sono detti topologicamente equivalenti (cioè omeomorfi) quando possono essere deformati l’uno nell’altro senza ricorrere ad alcuna incollatura, strappo o sovrapposizione. Un mondo in trasformazione, mutante, la cui unica legge sembra però destinarlo comunque alla fine: “Il mondo non ha creato alcun essere vivente che non intenda distruggere” (p. 24).
Secondo il critico di The Guardian, Stella Maris – privo com’è di ogni prospettiva di speranza – non sarebbe quindi che l’equivalente letterario di uno snuff movie, una sorta di analisi al rallentatore dell’annientamento generale verso il quale – secondo McCarthy – l’umanità sta procedendo.
Pur in questa cornice nichilista, il mondo interno di Alicia sembra segnato da confini labili, cangianti se solo si modifica la prospettiva con la quale li si guarda. Ed è così che la prima, “classica” – nella sua sciatteria – distinzione tra una condizione mentale normale e una patologica scivola felicemente nell’indistinto: tutto è complicato, non c’è spazio – com’è giusto – per semplificazioni e cortocircuiti. Alicia tende a ritenere che perfino il legame di sangue tra fratello e sorella possa essere riconsiderato e che anche il confine che segna il tabù dell’incesto possa essere valicato. Ciò nonostante, per quanto sdrucciolevole sia la prospettiva dalla quale guarda alla realtà, Alicia tende ad affrontare col proprio terapeuta argomenti di grande rilevanza teorica e pratica, rendendo il confronto a tratti combattivo e cerebrale. Alicia indulge a richiamare le voci che avverte più affini (di fisici e matematici come Cantor, Feynman e Gödel, ma anche di filosofi come Kant, Husserl, l’amato Quine e Wittgenstein). Alla fine, è stato notato, più che un dialogo terapeutico, il loro somiglia a un dialogo platonico. Nella realtà dei fatti, non sempre la relazione tra i curanti e la persona malata può essere così approfondita. Anche se il setting psichiatrico dovrebbe prestarsi particolarmente al confronto. In ogni caso, oltre quello della scrittura polita e tersa, McCarthy ha il merito di far discutere una ragazza provata dalla vita, anche se giovanissima, e uno psichiatra del Midwest su domande fondamentali, senza che stonino e sembrino incongrue: l’io personale è un’illusione? La realtà è qualcosa di più di un’intuizione collettiva? Gli oggetti matematici e la musica esistono indipendentemente dal pensiero umano?
Nel dialogo terapeutico di oggi c’è spazio per le grandi questioni?
Davvero si esprimevano così, come Alicia, gli schizofrenici paranoidi negli anni Settanta? C’è chi dubita che l’autore sia mai stato in analisi o abbia fatto una seduta di psicoterapia: il racconto tratta di una ragazza geniale ed eccentrica interrogata sul suo sviluppo intellettuale, sulle sue teorie della realtà, sulla sua corrispondenza con matematici famosi, sui suoi scambi con personaggi presumibilmente inesistenti, e sulle implicazioni che tutto questo finisce con l’avere sulla sua vita psichica. Ed è già molto e dà da pensare.
Piuttosto, quest’ultima, densa scrittura dell’autore di La strada chiama altre domande: nel dialogo terapeutico di oggi c’è spazio per le grandi questioni? Ascoltare Bach è la cosa che più avvicina Alicia alla felicità: e allora, per esempio, si riesce ogni tanto a parlare con la persona malata dei suoi gusti musicali?
Sarebbe il caso che la nostra intellettualità migliore, e non solo gli operatori sanitari, si ponesse di tanto in tanto anche quelle domande sfondate, se ancora si vuol provare a reagire ad un’attualità sconfitta dalla violenza e dalla guerra, per la quale non troviamo soluzioni. Dalla conversazione, sofferta e civile, tra Alicia e il dottor Cohen si ricava nettamente l’impressione che esistono dei rimedi, ma che alla vita non c’è rimedio. Sembrano questioni astruse, e non lo sono. Hanno a che fare col disturbo mentale? Non necessariamente: sono di tutti noi, ma possono essere pensate e discusse anche da chi vive un disagio più profondo. Da chi alla domanda: ‒ Credi in un’altra vita?, risponde: ‒ Non credo in questa.
Luciano De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
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A cura di Carlo Flamigni
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