Stare bene: ma che vuol dire?
Riflessioni etiche dalla lettura del libro di Elisabetta Lalumera

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Riflessioni etiche dalla lettura del libro di Elisabetta Lalumera
Cosa intendiamo, quando parliamo di stare bene? Si può rispondere in due modi. Nel merito, e allora le risposte possibili saranno molto numerose, a seconda degli scopi soggettivi o sociali perseguiti. O metodologicamente, cioè definendo innanzitutto cosa s’intende per “stare bene”. Il secondo è un approccio meno consueto, basato sull’analisi concettuale. Ma è quello proposto da un recente, interessante libro di Elisabetta Lalumera – Stare bene. Un’analisi filosofica – nel suo excursus programmaticamente filosofico-storico della questione dal quale trarre spunto per qualche considerazione [1].
Sì, perché di salute e di star bene non discutono solo gli operatori sanitari, gli psicologi e i politici alle prese con le istituzioni sanitarie: l’analisi, la scelta e l’eventuale riforma dei concetti dello stare bene è materia dei filosofi. Io direi invero: anche dei filosofi. E non perché i medici e gli scienziati della salute non siano consapevoli dell’importanza pratica dello scegliere i concetti e di lavorare sulle definizioni: prova ne è il dibattito acceso, anche sulle migliori riviste mediche, proprio sui diversi concetti di salute (come assenza di malattia, come dispiegamento delle capacità, come equilibrio e altro ancora), di benessere e di qualità della vita. Discussione che attesta quanto rilevanti siano le conseguenze comportate dalla scelta dell’uno o dell’altro concetto per la salute pubblica, l’organizzazione sanitaria e la stessa ricerca. Tanto più la discussione è importante in quanto, da qualche decennio ormai, la medicina pare quasi aver rinunciato a essere scienza della malattia, divenendo scienza delle malattie. Sembra quasi aver abbandonato il progetto di spiegare la malattia in generale, occupandosi – con molto profitto, peraltro – dei singoli processi patologici e delle loro relazioni. Perché? Si sarebbe tentati di rispondere: perché è meno complesso, la complessità allarma. Salute, benessere e qualità della vita sono meno “osservabili” e sulla loro definizione e interpretazione ci si può dividere assai più che non su un caso di Covid-19, un epatocarcinoma o un’infezione polmonare.
Per chi ha fatto studi umanistici, l’analisi concettuale richiama alla memoria la oxfordiana filosofia del linguaggio degli anni Cinquanta, caduta nel dimenticatoio – soprattutto nell’Europa continentale – da qualche decennio. Lalumera riprende invece l’analisi ma attualizzandola, indagando i concetti di salute in uso nelle diverse comunità scientifiche, valutandoli rispetto ai loro fini. Così, per esempio, il concetto di salute come assenza di malattia (forse il più scarno, ma non il più triviale) è ritenuto adeguato innanzitutto da chi si prefigge il fine di difendere la possibilità di un sistema sanitario universalistico come il nostro, con la salute come diritto di tutti garantito dallo Stato e pagato dalla fiscalità generale.
Per una medicina divenuta sempre più autoriflessiva, si tratterebbe dunque di un approccio promettente, in grado di gettar luce su concetti fondanti come salute, malattia, cura. Specie se dialoga e si interseca con le scienze del benessere, alle prese anche quelle con la definizione del well-being in psicologia, in economia e in politica. Se l’analisi delle concezioni dello stare bene è il primo obiettivo del libro, in modo da chiarire le diverse accezioni di salute, benessere, qualità della vita, il secondo – non meno rilevante – è una riflessione dei concetti rispetto ai loro scopi. La principale valutazione, secondo Lalumera, è questa: come abbiamo visto, il concetto di salute come assenza di malattia è il più adatto a un sistema sanitario improntato sulla solidarietà e la cura per tutti, ma sembra anche essere il più consono a limitare la medicalizzazione impropria, cioè la tendenza a considerare ogni problema della vita come un problema medico-sanitario, risolvibile farmacologicamente o con una presa in carico come pazienti. Aggiungo: sembra anche fungere da antidoto ad una concezione della medicina come elisir per una vita potenzialmente eterna, in barba ad ogni limite e ad ogni ragionamento sulle risorse e sulla sostenibilità e in ossequio invece alla egolatria imperante.
Com’è noto, secondo la “meravigliosa e solenne” (così la definisce Lalumera) definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la salute è la condizione di completo benessere fisico, mentale e – addirittura – sociale, nonché – con l’aggiunta del 1986 – spirituale. In altri termini, salute è tutto ciò e non l’assenza di malattie e infermità [2]. Ebbene, per quanto sia difficile percepirla come controversa (anche se, a esser sinceri, fissa uno standard irraggiungibile per la salute) [3] Lalumera sostiene invece che salute e benessere vadano tenuti distinti. I costi dell’identificare la salute con il benessere sembrano maggiori dei vantaggi, per quanto possa essere motivante la definizione Oms. Non foss’altro perché di fronte alla pluralità di definizioni possibili dello stare-bene (nel loro doppio aspetto: descrittivo e valutativo) si pone un problema notevole di scelta e di responsabilità, questione di cui deve farsi carico evidentemente la politica. Eppure, negli ultimi anni abbiamo assistito a una svolta verso il benessere in medicina, approfondendo le analisi volte a valutare – tenendo sempre più da conto l’opinione della persona malata – sostenibilità ed efficacia degli interventi. Oggi nei trial clinici c’è sempre più spazio per i Patient reported outcomes. Per essere approvato dalle autorità regolatorie, sempre più spesso un farmaco deve rispondere a domande come: quanti anni (o mesi, più di frequente, purtroppo) di benessere in assenza di malattia assicura a chi lo assume? E quanto costa questo “beneficio” (al singolo e/o alla comunità)?
Una salute distinta dal benessere consente invece l’apparentamento concettuale con criteri morali-politici come il “giusto”. Mentre sarebbe oggettivamente complesso stabilire un “benessere minimale”, non è altrettanto complicato definire una “salute minimale”, quella che appare giusto assicurare a tutti da parte delle istituzioni e che il cittadino può legittimamente esigere: un dovere per Stato e Regioni, un diritto per i singoli. E oltretutto stabilire una soglia minima consente di cogliere, ove presenti, le disuguaglianze di salute e di misurarle[4], cosa preclusa a chi – per esempio – si attenesse rigidamente alla definizione dell’Oms. Le misurazioni della salute sono molto importanti sia per comprendere l’efficacia degli interventi, e quindi per la loro valutazione in termini di costo-efficacia, sia per fornire criteri oggettivi alla soggettività della persona malata per esprimere la valutazione dei propri outcome di salute e di cura.
Ma che cosa comprende questo diritto minimale alla salute, e che cosa esclude? Secondo il filosofo della politica Norman Daniels, la salute minimale coincide con i cosiddetti “bisogni di salute”, «la classe più ristretta dei bisogni di assistenza sanitaria, ciò che ci serve per mantenere il normale funzionamento – ovvero la salute – nel corso della nostra vita» [5]. Le scienze biomediche sarebbero in grado di chiarire con una certa precisione ciò di cui abbiamo bisogno per “funzionare” normalmente. Perché è giusto assicurare a ciascuno questo bisogni minimali di salute? La premessa è fondamentale e dirimente: il discorso fila se si accetta che la salute sia un diritto umano fondamentale. Se si tiene questo caposaldo, allora Daniels sostiene che una soglia minimale di salute sia funzionale alla giustizia, il criterio morale che regge tutto il ragionamento. In altri termini, stare in salute – nei termini che si è detto – è condizione necessaria perché le persone abbiano eque opportunità rispetto ai beni e agli obiettivi che si propongono.
L’idea della giustizia come equa distribuzione delle risorse deriva evidentemente da John Rawls, classico ormai del neo-contrattualismo, con un’avvertenza che sarebbe stata condivisa da don Lorenzo Milani: eque non significa uguali, perché nasciamo e cresciamo diversi, con differenti capacità e risorse, e di questo gap iscritto nelle posizioni di ciascuno occorre tener conto. Altrimenti, come diceva il priore di Barbiana, non c’è ingiustizia maggiore che fare parti uguali tra disuguali.
Legare salute giusta e salute minimale fa sì che nel diritto alla salute non rientri ogni desiderio legato al well-being. Anche perché i (pochi) sistemi sanitari universalistici e solidaristi come il nostro non sopravvivrebbero all’impatto di ogni possibile richiesta di prestazione di salute, per una semplice ragione di sostenibilità [6]. In ogni caso, è la società con le sue istituzioni (meglio se democraticamente) a dover fissare gli standard di salute e dove e come fissare la soglia del benessere di tutti: si tratta di un concetto eticamente spesso (thick concepts, in gergo filosofico-tecnico). In altre parole, si tratta di scelte eminentemente politiche.
Un secondo concetto di salute la equipara al poter fare: si sarebbe sani se e quando avremmo le capacità di raggiungere i nostri obiettivi vitali, cioè quelli che vengono da noi valutati come buoni (non vale prefiggersi, per dire, di sballarsi tutte le sere). A differenza dell’accezione di salute come assenza di malattia, questo secondo risuona come un concetto positivo: essere in salute equivarrebbe ad avere qualcosa (le capacità) e non a essere privati di qualcosa (come accade nelle condizioni patologiche). È una concezione – nota Lalumera – che funziona bene se si vuole soprattutto porre l’accento sulla guarigione e il recupero, elementi che ci mettono nuovamente in grado di fare, appunto. In questa concezione c’è però, strisciante, un certo qual rischio di medicalizzazione, dal momento che sono troppe le condizioni che possiamo – soggettivamente – avvertire come un ostacolo al raggiungimento di quel benessere (del tutto soggettivo) che ci prefiggiamo, mancando i criteri per delimitare le condizioni pertinenti alla salute.
In un certo senso, questa seconda accezione di salute eudemonistica è molto ambiziosa: se stare in salute coincide con la capacità di raggiungere i propri obiettivi vitali, il suo ripristino significherebbe poter fare, più o meno, quel che si faceva prima. Tutto si gioca su quel più o meno. Appare sensato valutare non solo lo stato di partenza, ma anche l’entità dell’insulto che si è ricevuto, la propria età e le risorse sociali e personali di cui si è potuto disporre. Esempio: se mi rompo i legamenti di un ginocchio a 80 anni, è ragionevole ritenere che non potrò recuperare del tutto la funzionalità dell’articolazione e – poniamo conto – tornare a sciare.
Guarire comporta molti fattori e allarga le considerazioni terminologiche: l’oncologo e ricercatore Vinay Prasad faceva notare in una rassegna che, dal momento che guarire dal cancro e curare il cancro sono questioni rilevanti, sarebbe auspicabile – sin dai titoli dei lavori scientifici che vi si dedicano – un uso chiaro e circostanziato dei due termini: un conto è curare, un altro è guarire [7]. Lo sanno perfettamente i malati. Pensare alla salute come capacità mette in primo piano il paziente rispetto al medico: e se questa scelta concettuale non nascondesse in ciò un valore etico?
Dice molto bene Lalumera, ricapitolando le considerazioni sulla salute come capacità: è una concezione che libera le persone dalla medicina come normalizzazione dei corpi (giacché tutti i corpi sono e si sentono diversi), ma d’altro canto rischia di consegnarsi alla medicina della performance, dove ogni problema vien visto come un problema medico e ogni debolezza percepita rispetto all’ideale personale e sociale esigerebbe una diagnosi di validazione.
Una terza concezione è parente della seconda: la persona nell’ambiente è in salute quando è in grado di adattarsi e mantenersi in equilibrio anche in presenza di situazioni nuove o avverse, come le malattie. Per cui la persona in salute è quella in grado di adattarsi a circostanze mutevoli, dominando l’ambiente, invece che subirlo. Il padre nobile si questa concezione della salute come adattamento sarebbe Georges Canguilhem che già nel 1943 criticava l’idea di salute come normalità fisiologica [8]. Perché? Ma perché siamo tutti diversi, la variazione e l’anomalia sono parte della realtà biologica e non c’è statistica che aiuti a dirimere tra normale e patologico. Solo nel relazionarsi all’ambiente e a livello del singolo individuo ha senso la distinzione salute-malattia. La salute come adattamento alle circostanze endogene calza piuttosto bene quando si tratti di salute mentale. Infatti un famoso psichiatra – Norman Sartorius – ha ripreso e sostenuto questa tesi: ormai da tempo in psichiatria si tende a considerare la “guarigione” più che altro come guadagnare un nuovo equilibrio in malattia, abbandonando l’idea di normalizzazione, poco utile in questo contesto.
È una concezione che spinge a gente ad adottare stili di vita sani, valorizzando le responsabilità individuali, ma che propugna anche una migliore sostenibilità dei sistemi sanitari. Il problema è che potersi adattare dipende molto, di nuovo, dalle condizioni socio-economiche in cui ci si trova. È noto che stili di vita sani son o fortemente correlati con la health literacy, prerogativa dei soggetti socio-economicamente avvantaggiati. Inoltre, chi non adotta questi modelli salubri di vita è esposto al cosiddetto victim blaming, cioè alla colpevolizzazione sociale: hai fumato tutta la vita e adesso hai il cancro? Te la sei cercata. A questo proposito, Lalumera scrive proprio da filosofa, quando sostiene che la stigmatizzazione – processo che induce stereotipi negativi nei confronti di qualcuno o di un gruppo [9] è un portato della moralizzazione della salute, cosa che la società non dovrebbe mai incentivare e permettere, perché porta a colpevolizzare la persona malata. Adattamento e ambiente potrebbero forse più produttivamente esser considerati quindi come determinanti e fattori influenti del concetto di salute come equilibrio, piuttosto che come sue componenti.
In conclusione, un domani che è già (quasi) oggi potremo costruirci una salute personale, magari con il sussidio dell’intelligenza artificiale, immaginandoci di fiorire a ogni stagione della nostra vita, a patto però che lo si intoni al fiorire di tutti, e senza dimenticare che alla vita appartiene anche l’appassire e lo svanire. Parleremo sempre di più del nostro personale benessere, certo individuale, certo ritagliato sul nostro profilo genetico e sulla nostra capacità di risposta immunitaria, nonché sul nostro sentire. Collocando però questa visione del nostro benessere personalizzato in mezzo agli altri, nell’ambito di quel più vasto mondo che legittimamente aspira ad una salute giusta.
Luciano De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
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