Specialisti o generalisti: chi nasce prima?
La moltiplicazione delle specializzazioni rischia di far perdere di vista la complessità del malato, spiega Carlo Saitto: la soluzione può essere nel formare “specialisti del paziente”.

Ops! Per usare il Centro di Lettura devi prima effettuare il log in!
Password dimenticata?Non hai un account? Registrati
Hai già un account? Log in
La moltiplicazione delle specializzazioni rischia di far perdere di vista la complessità del malato, spiega Carlo Saitto: la soluzione può essere nel formare “specialisti del paziente”.
Avendo completato nel 1763 i suoi studi di medicina a Edimburgo ed essendosi guadagnato l’ammissione al Reale collegio medico di Londra ed Edimburgo e all’Accademia reale di chirurgia di Parigi, John Morgan era tornato a casa in Pennsylvania e, all’età di 30 anni alla fine di maggio del 1765, pronunciava un lungo discorso all’inaugurazione dell’anno accademico del College di Philadelphia finalizzato a perorare la causa dell’istituzione negli Stati Uniti di scuole di medicina sul modello europeo.
Nel trapianto di questa esperienza sul suolo statunitense c’era però una novità che non trovava riscontro in un’Europa ancora fortemente condizionata dalla storia delle sue corporazioni di arti e mestieri: il superamento di ogni netta distinzione tra medici e chirurghi, la possibilità che all’interno di un’unica disciplina, e quindi con pari dignità professionale, fosse ammessa una diversità di conoscenze e di competenze. Superata l’antica gerarchia, tra “fisici” e “pratici”, tra chi pensa e comprende e chi si limita a operare, la pratica medica si poteva fondare su un sapere condiviso che, rendendo giustizia alla propria complessità, poteva includere non più solo due ma una molteplicità di specializzazioni. La nuova unità della medicina sembrava consentire la sua frammentazione rendendola in una certa misura inevitabile.
Dichiarava infatti Morgan nella sua prolusione: “In ciascuno di questi mestieri (artigiani) è coinvolta una varietà di artisti diversi, ognuno di loro si limita a curare gli aspetti del lavoro che conosce meglio, con il risultato che l’opera è realizzata più rapidamente ed è perfetta nei particolari. È sorprendente dove possa giungere l’abilità dell’uomo quando si impegna con dedizione a un compito. Per quale ragione nel praticare la difficile arte della cura dovremmo allora continuare a svolgere da soli tutte le attività necessarie affollandole confusamente insieme?” [1].
L’intenzione principale di John Morgan quando, insieme a William Shippen, nell’autunno del 1765 fondò presso il College di Philadelphia la prima scuola di medicina degli Stati Uniti, era probabilmente quella di assimilare la pratica europea adattandola al profilo professionale più fluido dei medici americani mentre era allora imprevedibile l’esplosione delle specializzazioni che – con qualche forzatura – viene considerata una sorta di vaticinio preternaturale di Morgan.
L’esplosione delle specializzazioni | Oggi in tutti i Paesi sviluppati le specializzazioni mediche si sono moltiplicate: negli Stati Uniti, tra specializzazioni e sotto-specializzazioni riconosciute dal sistema di certificazione, se ne contano ormai più di 150. In Italia circa 50, in Gran Bretagna 60. Questa tendenza riguarda anche le altre professioni sanitarie seppure in forme meno estreme. Negli Stati Uniti, per esempio, si rintracciano per gli infermieri, con livelli e modalità diverse di riconoscimento, circa 90 specializzazioni e per i tecnici della sanità, da quelli di laboratorio a quelli della prevenzione, le specialità sono quasi 50. La situazione in Europa non appare così frammentata ma la tendenza, seppure non altrettanto formalizzata, è presente anche qui.
A quale pratica della medicina corrisponde questa deflagrazione nel numero delle specializzazioni e davvero corrisponde, come sembrava auspicare Morgan nel 1765, a un’arte della cura più rapida e perfetta nei particolari? Se si considerano le dimensioni raggiunte da questo fenomeno, appare sorprendente che sia stato oggetto di un’attenzione così intermittente e distratta. Come osservava George Weisz nel 2003 “la principale trattazione sistematica di questo argomento è vecchia di quasi 60 anni. Esistono ottimi studi su alcuni aspetti di questo tema in diversi Paesi come la Germania, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ma anche in questi casi sono studi che risalgono a circa 30 anni orsono” [2]. Gli interventi sporadici degli ultimi anni non rendono meno attuale questa considerazione: al contrario, dedicandosi a delineare gli sviluppi di questa o quella specialità, confermano il modesto interesse a definire la logica e le caratteristiche di un modello ormai consolidato di organizzazione della medicina.
La necessità delle specializzazioni sembra così indiscutibile da non avere bisogno di spiegazioni. Non c’è dubbio infatti che lo sviluppo scientifico della medicina abbia raggiunto un tale livello di complessità da rendere impossibile anche al professionista più informato e più preparato di possedere le competenze necessarie per affrontare tutte le situazioni cliniche che possono giungere alla sua osservazione. In una nosologia di dettaglio crescente, patologie che una volta erano considerate unitarie appaiono ormai frammentate e suggeriscono terapie diversificate fino alla personalizzazione. Il rapporto sempre più stretto tra la pratica medica e le conoscenze sul comportamento dei sistemi biologici, sulla loro variabilità, sulle loro alterazioni, sulle indicazioni e sulle soglie di trattamento, sui meccanismi e sui limiti di efficacia delle terapie rende inoltre sempre più ampio il bagaglio di evidenze scientifiche necessarie. Nello stesso tempo la varietà delle tecniche diagnostiche e terapeutiche messe a disposizione dalla tecnologia confonde il confine tra specializzazioni mediche e chirurgiche; inoltre richiede abilità professionali dedicate alla esecuzione di specifiche procedure, abilità che solo forme di addestramento specifico, continuità nella effettuazione e larghi volumi di casi trattati possono garantire.
D’altra parte, tutte le società occidentali si sono sviluppate in direzione di una crescente divisione del lavoro e di una crescente specializzazione. Sarebbe davvero curioso se un settore così aperto all’innovazione scientifica e tecnica come la sanità si fosse comportato in modo differente.
La specializzazione genera la frammentazione e la frammentazione è tanto più rischiosa quanto più i pazienti sono complessi per la gravità o per la varietà del quadro clinico che li caratterizza.
Ci sono dunque buone ragioni per considerare pregiudizialmente con favore questo cambiamento: il buon senso suggerisce che fare una cosa di frequente aiuti a farla meglio e numerose evidenze empiriche sembrano in effetti confermare che, almeno per alcune discipline, gli esiti dei pazienti assistiti nelle unità specialistiche siano più favorevoli. Ma non saremo andati troppo lontano? Non corriamo il rischio di inseguire la complessità dell’organo o dell’apparato e di perdere di vista la complessità del paziente, di non avere orecchio per la sua voce? La specializzazione genera la frammentazione e la frammentazione è tanto più rischiosa quanto più i pazienti sono complessi per la gravità o per la varietà del quadro clinico che li caratterizza.
In queste situazioni, una discussione tra specialisti può diventare sbilanciata, una somma di opinioni senza una sintesi che rischia di perdere la chiave di un’evoluzione inaspettata o di un aggravamento. Per limitare questo rischio è sempre più necessaria, in tutte le fasi della malattia, qualsiasi sia il livello di intensità delle cure e qualunque sia il loro luogo, la presenza di uno “specialista” che sia lo specialista del paziente e non quello del suo organo malato, c’è bisogno insomma di un “generalista”.
Per un verso questa esigenza di un approccio unitario recupera una dimensione originale della professione: il rapporto del medico con la persona con il suo contesto di relazioni e di vita, con i fattori di rischio ai quali è esposta, con la malattia che teme, dalla quale può essere affetta o dalla quale è colpita.
In questo senso il compito originale del “generalista”, la sua ragion d’essere, rimane la negoziazione: negoziazione tra il bisogno e la sua percezione, tra il bisogno e la domanda espressa, tra il paziente e le sue abitudini e le sue aspettative, tra il paziente e quelli che più da vicino lo circondano. Negoziazione – infine – con l’incertezza, che connota la relazione di ciascuno con il suo corpo e con i segnali che continuamente gli invia, ma anche l’incertezza delle terapie e l’incertezza più o meno ampia sugli esiti. Nel passato questa negoziazione era semplificata da un paternalismo condiscendente che si avvaleva dell’autorità automaticamente attribuita al ruolo, l’autorità di chi sa e decide. Oggi questa funzione antica richiede la trasparenza del dubbio, un esercizio molto più complesso di mediazione, la consapevolezza da parte del “generalista” di una cacofonia di voci sulle quali prevalere e alle quali comunque rispondere senza presunzione di superiorità.
Emerge la necessità di un medico generalista che sia in grado di assicurare la regia dei processi di cura del singolo e di assumere responsabilità per la comunità e per il sistema nel suo complesso.
Se il compito originale del generalista si esercita dunque in uno scenario così radicalmente mutato di relazioni e di informazioni, sono però i cambiamenti sanitari e socioculturali ad assegnarli nuovi compiti e nuove responsabilità:
Da questi cambiamenti emerge la necessità di un medico generalista che sia in grado di assicurare la regia dei processi di cura del singolo e di assumere responsabilità per la comunità e per il sistema nel suo complesso. Se si riconoscono questi obbiettivi, è su di essi che si deve costruire un sistema di formazione specifico orientato a raggiungerli e un sistema di valutazione adeguato a misurarne il raggiungimento.
Il generalista nelle cure primarie | A differenza di quanto capita in ospedale, sul territorio il generalista c’è (o dovrebbe esserci) da quando furono sciolte le mutue e istituito il servizio sanitario nazionale. E la sua funzione è proprio essere lo “specialista del paziente” richiamato nel titolo. Questo ruolo è definito anche in documenti ufficiali, come l’accordo collettivo nazionale con i medici di medicina generale, dove all’art. 43 viene loro attribuito “il governo del processo assistenziale relativo a ciascun assistito” e la funzione di “parte attiva della continuità dell’assistenza per gli assistiti nell’ambito dell’organizzazione prevista dalla Regione” (scarica qui il documento dell’accordo).
Nel documento “Definizione europea della medicina generale / medicina di famiglia” l’Organizzazione mondiale dei medici di famiglia (Wonca) inserisce tra le caratteristiche della disciplina l’uso efficiente delle risorse sanitarie coordinando le cure, lavorando con altri professionisti nel contesto tipico delle cure primarie e gestendo l’interazione con altre specialità anche assumendo, quando necessario, il ruolo di difensore dell’interesse dei pazienti.
Questo ruolo di coordinamento è la caratteristica chiave del rapporto costo-efficacia della medicina delle cure primarie di buona qualità poiché assicura che il paziente venga visitato dal professionista sanitario più adatto per il suo specifico problema. Una sintesi tra i diversi fornitori di cure, una appropriata distribuzione dell’informazione e l’organizzazione della prescrizione dei trattamenti sono possibili solo in presenza di una unità di coordinamento. L’obiettivo del coordinamento e della continuità delle cure ha molto rilievo anche nella definizione di “cure primarie” dall’Unione europea (vedi pag. 14-16 di questo documento).
L’Ocse, in un documento del 2020 sulle potenzialità delle cure primarie, ne sottolinea un aspetto peculiare: “aiutano gli individui a muoversi tra i diversi livelli del sistema sanitario” (vedi in particolare il punto 3.2.3).
Certamente regia dei processi di cura, negoziazione, sintesi, mediazione sono compiti non facili, per assumere i quali è necessaria una formazione specifica, e il ruolo dei generalisti in questo campo va sicuramente rafforzato. Sarà interessante osservare come si costruirà il rapporto tra generalista del territorio e dell’ospedale.
Guido Giustetto
Presidente OMCeO Torino
Il modello attuale di formazione del medico si è consolidato nel tempo intorno a un approccio rigido che cresce per addizione di conoscenze e di specialità, ma che non si è mai posto quegli obiettivi e che non sembra in generale incline a verificare l’efficacia delle sue scelte. Sulla base di questo modello, si cerca di fornire al futuro medico una vasta comprensione di tutte le discipline senza la pretesa che questa conoscenza diffusa, per quanto bene acquisita, lo metta in grado di lavorare da subito in modo indipendente. Dopo la laurea, proprio accettando il paradigma che la qualificazione corrisponda alla specializzazione, la maggior parte dei giovani medici si dedicherà a un’area professionale più circoscritta spesso restringendo nel tempo il proprio orizzonte a una serie limitata di condizioni o di procedure.
Ma come inserire in questo modello il medico generalista e, per guardare al problema dalla direzione opposta, è davvero necessaria una formazione così generale per uno specialista?
La risposta più radicale a questi dilemmi la fornisce forse Sam Leinster, professore emerito di medical education all’università dell’East Anglia, in un articolo del 2014 [3]. Leinster sostiene che “operatori provenienti da una varietà di professioni sanitarie svolgono oggi, a regola d’arte, compiti che si consideravano un tempo di stretta pertinenza dei medici. Un addestramento specifico a quei compiti consente loro di svolgerli con sicurezza e con efficacia ed è perciò possibile immaginare un percorso di formazione completamente differente”. In questo nuovo modello, continua Leinster, “uno studente verrebbe in primo luogo addestrato a svolgere una funzione specifica all’interno di uno specifico team sanitario. Potrebbe essere la responsabilità di alcune procedure o si potrebbe trattare della gestione di uno specifico quadro clinico come l’asma o il diabete. In questo apprendimento, che nasce dal particolare, l’addestramento si concentrerebbe su quelle conoscenze e quelle competenze (comprese le consulenze e la comunicazione) che si considerano necessarie per occupare quello specifico ruolo. Una formazione così focalizzata potrebbe fare raggiungere un livello di competenze più elevato per quel ruolo, in un tempo più breve dell’attuale percorso formativo. I singoli potrebbero scegliere di rimanere confinati all’interno della specializzazione acquisita per tutta la loro carriera. Altri potrebbero praticare la loro specialità per un certo periodo e poi affrontare un percorso formativo ulteriore. Uno specialista delle procedure potrebbe ampliare i suoi obiettivi professionali per includere nuove procedure o decidere di occuparsi in modo prevalente di ricerca e percorsi diagnostici senza concentrarsi in modo esclusivo sui trattamenti. In modo analogo, lo specialista di asma può affrontare un addestramento aggiuntivo per gestire pazienti con altre condizioni respiratorie come la malattia polmonare ostruttiva cronica”.
“Questo processo di acquisizione dell’esperienza e dell’addestramento aggiuntivo – prosegue Leinster – potrebbe continuare in modo incrementale fino a raggiungere un livello di competenza equivalente a quello che oggi associamo alla nostra definizione di ‘specialista’ facendo rientrare in questo ambito anche un approccio alla salute che sia finalmente olistico. Alcuni degli specialisti – al raggiungimento di un’esperienza adeguata – potrebbero affrontare un’ulteriore fase di formazione per diventare generalisti. Questi generalisti diventerebbero responsabili del coordinamento delle cure per i pazienti con un’anamnesi complessa e del coinvolgimento dei singoli specialisti che di volta in volta si rendessero necessari. Generalisti di questo tipo userebbero le proprie competenze per indirizzare l’assistenza e i trattamenti e per analizzare situazioni complesse e incerte.”
Davvero un rivoluzione copernicana che potrebbe apparire fantasiosa se non fosse nella sostanza così ragionevole e così vicina all’esperienza di apprendimento che il medico sperimenta nella propria vita professionale: impadronirsi di un problema, estenderne le applicazioni verificarne le conseguenze, ricavarne dei criteri generali, riproporli non più sulla singola malattia ma sul paziente finalmente considerato nella sua complessità individuale e nel suo sistema di relazioni familiari e sociali.
In un sistema coordinato dai generalisti sul territorio e negli ospedali, il numero delle specializzazioni e il fiorire delle sottospecializzazioni non determinerebbe più la frammentazione delle cure ma – come diceva John Morgan – “ognuno si limita a curare gli aspetti del lavoro che conosce meglio, con il risultato che l’opera è realizzata più rapidamente ed è perfetta nei particolari.”
Carlo Saitto
Medico di sanità pubblica
Già direttore generale di un’azienda sanitaria della Regione Lazio
Bibliografia
1. Morgan J. A discourse upon the institution of medical schools in America. Philadelphia 30 maggio 1765, pp 40-41.
2. Weisz G. The emergence of medical specialization in the nineteenth century. Bull Hist Med 2003: 77: 536-75.
3. Leinster S. Training medical practitioners: which comes first, the generalist or the specialist? J R Soc Med 2014; 107: 99-102.
Dalla definizione del problema alla ricerca di soluzioni per il bene dei pazienti. Di Camilla Alderighi e Raffaele Rasoini
A cura di Elena Nave
La capacità di comprendere gli altri che nasce dall’esperienza della relazione tra individui.
"Non è sempre quello che pensi", scrive John Mandrola riflettendo sulla lezione più importante da trarre dal caso clinico...