La residenza per anziani come laboratorio della vita condivisa
Le Rsa devono diventare luoghi di vita, di relazioni e di socialità.: le riflessioni di Antonio Censi

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Le Rsa devono diventare luoghi di vita, di relazioni e di socialità.: le riflessioni di Antonio Censi
Per la persona anziana non autosufficiente l’aspetto più problematico della sua condizione non consiste tanto nella perdita della salute fisica e dell’autonomia funzionale, quanto nel vedersi negato il diritto ad essere riconosciuto nella pluralità delle sue componenti identitarie e a ricevere gli aiuti necessari a dare esecutività alle sue decisioni nell’ambito della vita quotidiana. Benché questi diritti siano formalmente riconosciuti universalmente faticano a tutt’oggi ad essere garantiti. Ciò produce una profonda divaricazione tra la percezione della non autosufficienza che hanno i soggetti cui è assegnato il difficile compito di pianificare e gestire il sistema servizi, preoccupati principalmente dalla sua sostenibilità finanziaria, e la percezione dei destinatari di questi servizi, i quali, anche nei casi in cui fruiscano di prestazioni sanitarie e assistenziali di qualità accettabile, si sentono del tutto abbandonati nella lotta che stanno conducendo per non “finire così degradati, prostrati o sottomessi da non aver più un legame con ciò che sono stati o con ciò che vogliono essere” [1].
Nelle residenze per anziani se si vuole rispondere a questa più che legittima aspettativa dei residenti di restare persone e continuare a vivere come hanno sempre vissuto è necessario mettere in discussione la logica aziendalistica che, negli ultimi decenni, le ha di fatto trasformate in luoghi destinati alla produzione di prestazioni medico-assistenziali erogate secondo logiche standardizzate e spersonalizzanti.
All’interno di queste istituzioni l’attenzione esclusiva alle terapie mediche e riabilitative individuali conduce inevitabilmente a una frattura tra il mondo di chi assiste e il mondo di chi è assistito. Laddove l’ambiente istituzionale assume una forte connotazione sanitaria non solo si sottrae ai residenti la possibilità di controllarlo, ma si rinvia loro un’immagine deficitaria e riduttiva di sé. La persona non autosufficiente prova così la sensazione di vivere in un mondo separato, all’interno del quale le relazioni e le attività che scandivano la sua vita quotidiana sono state definitivamente sostituite dalle pratiche di cura che ruotano intorno al suo corpo difettoso o malato [2].
La ricerca di una organizzazione più adeguata alle reali aspettative delle persone ricoverate implica l’esercizio di quella capacità creativa senza la quale è impossibile padroneggiare la complessità della non autosufficienza e della cronicità. Per sostenere il benessere psicologico e il desiderio di vivere in coloro che si affidano alle loro cure, gli operatori non possono limitarsi ad erogare prestazioni assistenziali ad elevato contenuto tecnico, ma devono incrementare le loro capacità relazionali, prestando la massima attenzione al loro modo di ascoltare, osservare, comunicare, toccare, la persona cui prestano cure e assistenza. Solo attraverso l’uso consapevole di strumenti umani gli operatori possono offrire gli stimoli vitalizzanti necessari a tutelare il loro sentimento di autostima e la loro identità sociale.
I residenti devono trovare nell’istituzione un luogo all’interno del quale la loro vita quotidiana si possa intrecciare con quella delle persone che si prendono cura di loro. Operatori e residenti dovrebbero sentirsi parte di un’unica comunità.
Per sviluppare queste attitudini chi governa una residenza per anziani deve dotarsi di un sistema organizzativo finalizzato a sfruttare le capacità relazionali di tutti coloro che ne fanno parte.
Per conservare la sensazione di continuare a vivere in un mondo condiviso con gli altri i residenti devono trovare nell’istituzione un luogo all’interno del quale la loro vita quotidiana si possa intrecciare con quella delle persone che si prendono cura di loro. Operatori e residenti dovrebbero sentirsi parte di un’unica comunità che, per coltivare e sostenere la disposizione all’incontro, deve prevedere momenti di riflessione collegiale intorno alle dinamiche relazionali che si sviluppano quotidianamente nella vita istituzionale, cercando di riconoscere gli ostacoli che possono limitarne l’autenticità e la reciprocità.
In questa prospettiva le residenze per anziani potrebbero connotarsi comelaboratori permanenti della vita condivisa, all’interno dei quali uomini e donne con capacità differenti, sperimentando la possibilità di vivere felici insieme attraverso pratiche di rispetto e di riconoscimento reciproco declinano, rigenerandoli, i valori costituzionali necessari a rilanciare una visione del welfare come base del legame fra i cittadini.
Volendo usare una suggestiva visione di Moyra Jones una residenza per anziani dovrebbe essere concepita come un grande scenario di vita quotidiana all’interno del quale i residenti, il personale e i volontari mettono in scena e interpretano ogni giorno un testo diverso.
Dice Moyra Jones:
Vedo le persone anziane come gli attori dell’opera. Vedo il direttore dell’unità, il coordinatore dell’assistenza o il sovrintendente come il direttore dell’opera. Vale a dire, come la persona che riunisce insieme tutte le parti per mantenere lo slancio. Vedo le persone che svolgono le attività occupazionali, il personale di guardia e i volontari come attori che preparano la scena e il palcoscenico dove si svolge la rappresentazione. Vedo gli operatori sociosanitari e gli altri responsabili dell’assistenza diretta come suggeritori. Immagino che ogni persona anziana abbia un suo suggeritore, un assistente, un caregiver familiare, un volontario o qualcuno del personale di sostegno. Il suggeritore è lì per mantenere gli attori sulla strada giusta, dando loro suggerimenti ricordando loro la parte e fornendo loro le informazioni di cui hanno bisogno per svolgere la loro rappresentazione quotidiana. L’opera si snoda durante tutte le ore di lavoro. Ogni persona della residenza – medico, personale di manutenzione o di pulizia, visitatore, infermiera, assistente sanitaria o componente del personale di riabilitazione – deve essere al corrente dell’opera che viene rappresentata ogni giorno [3].
Più che un insieme di corpi biologici inutili e costosi i residenti andrebbero considerati annunciatori di un mondo nuovo, testimoni privilegiati di umanità, soggetti politici di un umanesimo da reinventare. Imparando ad accoglierli, ognuno può progressivamente accedere ad un mondo più solidale e condiviso, liberandosi dal bisogno di fare grandi cose e dalla smania di competere con gli altri. Rispettando, ascoltando e cercando di aiutare la persona anziana non autosufficiente a mantenere il proprio posto nel mondo è possibile aprire la strada verso una società più umana.
L’uso dell’espressione “vivere felici insieme” in una Rsa potrebbe suonare velleitario dato lo stato di cronica fragilità organizzativa in cui versa la maggioranza di queste strutture. Un incremento del tasso di felicità di residenti e operatori può essere realizzato soltanto puntando su modelli organizzativi ispirati al modello comunità, piuttosto che a quello aziendalistico ospedaliero oggi dominante ma che, come sottolineato, andrebbe messo in discussione.
L’anziano non autosufficiente ci costringe a misurarci con i limiti dell’essere vivente, con la paura del deficit che evoca la morte fisica o psichica. Come abbiamo potuto constatare nel corso della pandemia, già oggi molti degli operatori dei servizi per persone non autosufficienti dimostrano la capacità di coesistere con il limite e con l’impossibile attraverso il sentimento di vicinanza che manifestano agli assistiti. Anche solo limitarsi ad esserci, stare accanto a persone che la nostra società rifiuta rappresenta un lavoro di immenso valore che gli stessi operatori faticano talvolta a riconoscere e a valorizzare. Le possibilità di rivalutare il lavoro all’interno di questi servizi sono legate alla capacità di riconoscere che questi incontri umani non rappresentano un tempo sottratto alle attività di cura e di assistenza ma vanno considerati un indicatore della produttività sociale dell’istituzione.
Le Rsa andrebbero considerate a tutti gli effetti luoghi della vita pubblica dove uomini e donne con capacità differenti cercano di vivere felici insieme e riconoscere la loro comune umanità.
Per conservare la sensazione di continuare a vivere in un mondo condiviso con gli altri i residenti devono trovare nella Rsa un luogo all’interno del quale la loro vita quotidiana si possa intrecciare con quella di coloro che si prendono cura di loro. Operatori e residenti dovrebbero sentirsi membri di un’unica comunità fondata sulla costante sollecitazione all’incontro tra i sui membri.
Le Rsa andrebbero considerate a tutti gli effetti luoghi della vita pubblica dove uomini e donne con capacità differenti cercano di vivere felici insieme e riconoscere la loro comune umanità[4].
Antonio Censi
Sociologo
Già dirigente di Residenza Sanitaria Assistenziale
Vivere felici insieme | Il benessere degli anziani che vivono nelle Rsa è correlato con il benessere degli operatori e anche dei familiari e caregiver. Alcuni esempi di come avvicinarsi alla condizione auspicata dal sociologo Antonio Censi di condivisione della felicità tra gli umani che vivono e lavorano nelle Rsa, li troviamo nel suo libro Vita da vecchi (Torino: Edizioni Gruppo Abele, 2021).
Documentazione sanitaria narrativa. Con l’aziendalizzazione dei servizi sociosanitari e l’introduzione dei sistemi informatici è aumentato, spiega Censi, “il ricorso ad artefatti tecnologici per rilevare i bisogni degli utenti dei servizi. (…) Attraverso gli artefatti i residenti vengono trasformati in soggetti senza volto, senza storia, senza luogo. Se vogliamo restituire loro un volto, una storia e un luogo dobbiamo dotarsi di strumenti di documentazione diversi, poiché è solo attraverso una documentazione visiva e narrativa che è possibile conoscere la persona anziana nella sua situazione di vita”. Un esempio di documentazione visiva è il Life Book, il libro della vita, proposta dal neurologo Peter Whitehouse che ha sperimentato nella sua clinica: un album di scritti e di immagini per aiutare i pazienti a riflettere sul fine vita.
La documentazione asettica delle classiche cartelle cliniche e di strumenti di valutazione standardizzati dovrebbe essere integrata da una documentazione narrativa che riassume il profilo biografico del paziente anziano e da cui trarre informazioni utili a facilitare l’integrazione dell’anziano nella struttura e a predisporre un piano di accompagnamento. Il report narrativo potrebbe essere redatto da un qualsiasi membro dell’équipe di assistenza e funzionare come cartella parallela aggiornandola con le narrazioni del paziente raccolte con il dialogo e l’ascolto del paziente. “Indipendentemente dalla loro lunghezza, qualità e completezza, le narrazioni di sé dei residenti dovrebbero confluire, alla stressa stregua dei dati sanitari, nel loro fascicolo personale”.
Laboratori di comprensione umana. Per Celsi, serve anche un ripensamento delle nozioni di fragilità e di non autosufficienza a partire delle quali si misurano i livelli della attività quotidiane necessari per pianificare le cure e l’assistenza. Ma da un punto di vista sociale, la distinzione tra fragilità e non autosufficienza nell’anziano non ha alcun valore in quanto entrambe queste condizioni sono comuni a tutti gli esseri umani e di tutte le generazioni, e si radicalizzano con la vecchiaia: “La nostra società non si è ancora dotata di un’adeguata cultura dell’invecchiamento”, scrive Celsi proponendo una diversa concezione delle Rsa come ambienti discorsivi costruiti intorno all’attività sociale della narrazione di sé e del mondo come pratica di reciproco riconoscimento tra pazienti e operatori. Questa condizione se attuata permetterebbe di costruire una relazione di cura e di assistenza come un’occasione di scambio di storie che accomunano gli umani che vivono e lavorano in questi luoghi, a prescindere al loro ruolo, e di una “felicità condivisa”.
Bibliografia
1. Gawande A. Essere mortale. Torino: Einaudi, 2016.
2. Good B. Narrare la malattia. Milano: Edizioni di Comunità,1999.
3. Gentlecare JM. Un modello positivo di assistenza per l’alzheimer. Roma: Carocci, 2005.
4. Kristeva J, Vanier J. Il loro sguardo buca le nostre ombre. Roma: Donzelli Editore, 2011.
A cura di Mario Bo
L’insieme di stereotipi, pregiudizi e atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone anziane.
Accessibilità, diagnosi precoce, etica della ricerca: la nota di Andrea Capocci
Ragionando sulla approvazione dell’anticorpo monoclonale che rallenta la malattia di alzheimer: Andrea Capocci