Nel corso della giornata 4Words23 – evento annuale del progetto Forward del Dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio – due interventi in particolare hanno colpito il bersaglio grosso. Non che gli altri – dedicati a parole chiave come clima, invisibilità e competenze – non fossero stimolanti e ben argomentati, ma il ragionare su ripresa e resilienza ha richiamato l’attenzione sulla questione di fondo su cui si gioca il futuro della sanità italiana.
Il saluto ai partecipanti di Sir Michael Marmot [1] è stato infatti contrassegnato dall’urgenza di operare una scelta politica e sociale di fondo, non circoscritta al pur fondamentale ambito della salute, insistendo sulla necessità di puntare di nuovo sull’intervento pubblico, valutando ormai esaurita l’ondata neoliberista che, nata col reaganismo, è durata fino a oggi, smantellando quasi tutti i servizi e i diritti acquisiti nel corso della stagione delle riforme. A dire il vero, l’invito è parso ai più in controtendenza, dal momento che l’attuale allargarsi del privato è un tratto distintivo anche della sanità nel nostro Paese, come peraltro un po’ dappertutto. Tuttavia, il monito del famoso epidemiologo britannico non tendeva soltanto a spezzare una lancia a favore del pubblico nella diatriba col privato. E lo ha spiegato molto argutamente un altro relatore, Rodolfo Saracci, ex-presidente della International epidemiological association.
Tra bene pubblico e bene individuale
All’invito di Marmot – “It’s time to rediscover the public good” – ha risposto infatti l’epidemiologo, ma con un’integrazione fondamentale: non è più tempo, ha sostenuto, per organicismi costruiti esclusivamente sul primato del pubblico, anche da chi pure disponesse di una solida maggioranza che lo legittimasse. Per una ragione tanto fondamentale e strategica quanto l’universalismo invocato da Marmot: la coscienza soggettiva che ormai alberga in ognuno come principio inalienabile, la cui egemonia è stata per così dire definitivamente ripristinata, e sdogata in politica dopo che da sempre trionfava nei mercati, da quella Margareth Thatcher il cui motto non a caso era “non esiste la società, esistono solo gli individui”.
La querelle fondamentale potrebbe non essere quella tra pubblico e privato, ma tra comunità e individuo, tra bene pubblico e bene del singolo.
L’intervento di Saracci ha perfettamente integrato le parole di Marmot non perché la Thatcher avesse ragione nella sua ordalìa nei confronti degli aspetti comunitari del vivere, ma perché la riflessione novecentesca non ha mai smesso di riproporre l’esigenza di ridare pieno senso all’individualità, mortificata dalle grandi essenze collettive che avevano dominato il passaggio di secolo e contrassegnato la prima metà del Novecento. La classe, la razza, il partito erano i serbatoi nei quali si erano disciolte – più o meno volontariamente – le singolarità, serbatoi ormai bucati dalla perspicacia di autori come Sartre, Husserl e Freud, che avevano ripreso e difeso l’irriducibilità della singola persona [2].
La querelle fondamentale potrebbe non esser quindi quella, certo interessante sul piano socio-politico, tra pubblico e privato, ma quella tra comunità e individuo, tra bene pubblico e bene del singolo. A dire il vero, il problema non è di oggi e già allo scopo si sono applicate molte intelligenze anche in anni recenti. Tendenzialmente, le soluzioni proposte non abbandonano però l’alveo del modello di sviluppo vincente e dominante alla fine della Storia, quello capitalista. Saracci non a caso ha ricordato le tesi dell’economista ed esperto internazionale di disuguaglianze Branko Milanovic, [3] che pur riconoscendo la vittoria su scala globale del capitalismo, non disconosce però le ineguaglianze e le contraddizioni che lo caratterizzano; al punto da continuare a chiedersi, ora che pare esser l’unico sistema di governo, quali sono le prospettive concrete che garantiscono all’umanità più equità e una crescita sostenibile per il pianeta.
Pur riconoscendo – come ha invitato a fare l’epidemiologo ambientale Paolo Vineis [4] – il darsi di capitalismi, al plurale, anche molto diversi tra loro, il ventaglio delle varianti tende a privilegiare il riconoscimento dell’irriducibile singolarità delle volontà, a meno che queste non si alienino intenzionalmente riconoscendosi in un’istanza ultra individuale, magari populista. Se si volesse tener conto di entrambe le esigenze, si tratterebbe invece di cercare un punto di equilibrio tra il bene pubblico (“the public good”, per dirla con Marmot) e il rispetto integrale dei diritti della persona, intesa come imprescindibile centro di interessi e sentimenti, evitando ogni contrapposizione “ideologica”.
Forse la strada consiste nel non sottrarsi a una continua opera di mediazione tra le nostre aspettative e quelle degli altri, apprendendo via via dall’esperienza e sempre rilanciando il confronto, a partire dalla centralità della persona.
Il senso della mediazione
Sembrerebbe dunque che il destino di chi accetta di fare i conti con una realtà difficile e complessa come quella democratica, costituita da individui ognuno con i propri bisogni e desideri, spesso diversi e collidenti, sia di venir continuamente chiamato a quell’esame di realtà al quale, dopo Freud, tutti dovremmo sottoporci: “Se si vuole che nel proprio orizzonte entrino altri esseri, come soggetti a lui pari e non come oggetti da divorare, occorre attutire la propria onnipotenza, accettando di essere limitati. La possibilità di intrecciare rapporti sarà poi un compenso per l’accettazione dei limiti” [5]. Forse la strada consiste nel non sottrarsi a una continua opera di mediazione tra le nostre aspettative e quelle degli altri, apprendendo via via dall’esperienza e sempre rilanciando il confronto, a partire dalla centralità della persona.
Chi persegue il cambiamento, chi sarebbe favorevole a che il “public good” riacquistasse una qualche precedenza sul bene individuale, preservando però quest’ultimo, non può volerlo che in questo modo, attraverso passi concreti che avvicinino le posizioni divaricate e a volte collidenti. Una politica radicalmente riformista non dovrebbe aver paura della mediazione né considerarla un ripiego. Il rischio, altrimenti, è che gli identitarismi continuino a prevalere, relegando chi desidera allargare la funzione del pubblico in una posizione minoritaria e perdente. Forse, un mondo più accogliente e rispettoso non potrà che essere costituito sì da una società, ma di individui.
Luciano De Fiore Il Pensiero Scientifico Editore
Note e bibliografia
Sir Michael Marmot è direttore dell’Institute of health equity dell’University college London dove insegna Epidemiology and public health. Il suo lavoro presso l’Organizzazione mondiale della sanità come presidente della Commissione sui determinanti sociali della salute e sul rapporto Closing the gap in a generation ha portato i decisori sanitari in Inghilterra a chiedergli di applicare questi risultati al proprio Paese. Il risultato è stato il rapporto Marmot Review pubblicato nel 2010 che individua sei obiettivi di politica sanitaria per raggiungere l’equità nella salute. Diverse nazioni e amministrazioni di grandi città di tutto il mondo hanno adottato le sue raccomandazioni. Nel 2020 Sir Marmot ha completato una revisione retrospettiva sui progressi compiuti in Inghilterra riguardo gli obiettivi prefissati: Health equity in England: the Marmot review 10 years on. È autore di La salute diseguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore 2016.
Basti ricordare il Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’io: “Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in questa accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale”. Freud S, Opere. A cura di C. Musatti. Torino: Bollati Boringhieri 1996: vol. IX, p. 261.
Milanovic B. Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro. Laterza: Bari/Roma 2022.
Carra L, Vineis P. Il capitale biologico. Le conseguenze sulla salute delle diseguaglianze sociali. Torino: Codice edizioni, 2022.
D’Abbiero M. Affetti privati, pubbliche virtù. La psiche come fattore politico. Roma: Castelvecchi editore 2020: p. 42.