Nel novembre 2021, un editoriale del Lancet utilizzava il termine “promessa” in riferimento alle tecnologie digitali, spiegando come queste potrebbero migliorare la salute in diversi modi [1]. Gli esempi spaziano dalle cartelle cliniche elettroniche, che possono supportare pratica clinica e studi clinici, alla genomica, che durante le fasi più critiche della pandemia ha aiutato a comprendere la trasmissione e l’evoluzione del virus.
Tuttavia, prima di cedere a facili entusiasmi è bene considerare anche tutti gli aspetti critici che questo grande cambiamento sta portando con sé. Uno dei più importanti riguarda la possibilità di accedere alle tecnologie. Un dato significativo a questo proposito è che, secondo il rapporto “Digital 2021” a cura di We are Social, in Italia solo circa 50 milioni di persone (su 60 milioni di abitanti totali) utilizzano abitualmente internet. Oggi chi resta escluso dal digitale può vedere compromesso l’accesso a servizi essenziali, come l’istruzione, ma anche alle informazioni sanitarie. Ecco perché l’accesso a internet e alle tecnologie, insieme alla sua qualità, potrebbe essere visto come un determinante chiave della salute. L’accesso alla rete dovrebbe essereun diritto fondamentale dell’uomo oltre che un valore per la collettività.
L’ingresso del digitale in sanità
Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli Odontoiatri, sull’ultimo numero della rivista Monitor di Agenas, ha riflettuto proprio su questa criticità: “L’impegno ad una trasformazione della sanità che abbia nel digitale uno dei propri punti di forza non può prescindere dal prestare la massima attenzione alla necessità che questo cambiamento interessi l’intero Paese, non lasciando indietro nessun gruppo sociale, famiglia o persona” [2]. La pandemia ha contribuito ad accelerare l’adozione della telemedicina e la digitalizzazione dell’assistenza sanitaria; tuttavia, secondo Anelli, resta ancora molto lavoro da fare per poter essere certi che questi cambiamenti porteranno un beneficio per la salute di tutti.
“Una governance debole delle tecnologie digitali porterebbe con sé dei pericoli, che vanno oltre il legittimo timore legato al possibile spreco di risorse.”
Filippo Anelli
Ci troviamo in un momento di grandi promesse, alcune già mantenute: le ricette ormai sono digitali, così come gli elettrocardiogrammi e altri dati cardiologici, mentre il teleconsulto promette diversi vantaggi, come l’alleggerimento delle liste di attesa e una maggior semplicità nel gestire il follow up del paziente. Si tratta di innegabili vantaggi, ma la strada da fare prima di poter dichiarare conclusa una riorganizzazione dei servizi sanitari in chiave tecnologica è ancora lunga. Basti pensare, per esempio, al fatto che non esiste un formato standard per le cartelle cliniche, oppure ai nodi da sciogliere in merito alla privacy e alla sicurezza dei dati dei pazienti.
Anche Daniele Coen, già direttore del Dipartimento di emergenza urgenza dell’Ospedale Ca’ Granda Niguarda di Milano, affronta il tema del digitale in modo critico sulla stessa rivista [3]. Lo fa prendendo come filo conduttore la questione dell’incertezza, presente da sempre nella professione medica e non certo diminuita negli ultimi anni. Secondo un articolo pubblicato su BMJ Evidence-based medicine [4], nel 2017 solo il 17 per cento delle decisioni di un medico di medicina generale si basava su evidenze di qualità, nonostante la grande quantità di studi che vengono pubblicati ogni giorno e dati che scaturiscono dalle strumentazioni sempre più sofisticate. Questo succede perché non sempre questa mole di dati ha poi una rilevanza clinica, né è esente da altri livelli di incertezza, come quella dovuta alla variabilità delle competenze degli operatori che li interpretano.
Quale sarà, dunque, la sfida dei prossimi anni? Più che sugli strumenti, propone Coen, dovremmo concentrarci sugli obiettivi per i quali le nuove tecnologie saranno utilizzate, sui risultati che sapranno darci in termini di qualità della vita, sul ruolo che giocheranno nel processo diagnostico o terapeutico, e più in generale sull’organizzazione della sanità pubblica. Prendiamo il caso della telemedicina: mentre la trasmissione di immagini e la consulenza a distanza tra professionisti sembrano funzionare molto bene, il contatto a distanza con i pazienti può destare qualche perplessità sul rapporto fiduciario con il medico curante.
“Resta l’incognita dei pazienti. Forzati a decidere se essere vittima di un errore da parte di un medico o di un computer, sceglieranno il computer?”
Daniele Coen
Tutelare il paziente
La frontiera della medicina digitale è rappresentata dall’intelligenza artificiale. Grazie alla sua natura, che la rende in grado di imparare dalla “lettura” di un grande numero di dati per poi focalizzarsi sul singolo caso clinico, sembra aprire molte opportunità. Ma è una straordinaria innovazione che nasconde dei rischi. Il primo riguarda la qualità dei dati che si usano per allenare l’algoritmo: se un software impara a prescrivere terapie attingendo a cartelle cliniche con dati errati o incompleti sarà più incline a compiere errori. Un altro punto riguarda l’impossibilità per l’utilizzatore finale di conoscere il ragionamento che compiono questi algoritmi per prendere decisioni. Gli esperti parlano anche di black box [5], termine che rende molto bene l’idea di quanto spesso sia poco chiara la struttura che si cela dietro ai nuovi cervelli elettronici, a volte persino per gli stessi creatori dei software.
Per questo sarebbe importante, prima di prevedere un uso esteso di questi strumenti nella medicina del territorio, valutare attentamente in quali campi specifici l’intelligenza artificiale possa realmente rappresentare un valore aggiunto e in quali ambiti invece convenga ritardare il suo utilizzo, per evitare lo spreco di risorse, minimizzare i rischi e, ultimo ma non certo meno importante, tutelare il paziente.