Relazione tra scienza e politica nel contesto ambiente e salute
Le scelte che tutelano la salute dei cittadini nei riguardi dei rischi ambientali sono difficili per le pressioni del contesto economico, spiegano Fabrizio Bianchi e Liliana Cori

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Le scelte che tutelano la salute dei cittadini nei riguardi dei rischi ambientali sono difficili per le pressioni del contesto economico, spiegano Fabrizio Bianchi e Liliana Cori
Foto di Mike Seager Thomas / CC BY
Le discipline scientifiche che studiano la relazione tra ambiente e salute hanno carattere multi e interdisciplinare e una stringente necessità di confrontarsi con le scelte politiche, con l’obiettivo di influenzare le decisioni che riguardano la salute pubblica. Nell’accezione di salute unica o One health, la qualità dell’ambiente incide sulla salute degli esseri viventi e dipende da azioni orientate ad attenuare gli impatti negativi e irrobustire quelli positivi. Succede però che spesso i risultati scientifici non vengano considerati o lo siano in modo inadeguato o insufficiente.
Questi elementi si ritrovano in molti ambiti scientifici e nel caso delle relazioni tra ambiente e salute presentano tratti molto caratteristici, soprattutto per la vicinanza tra gli obiettivi della ricerca scientifica e quelli della prevenzione. Infatti, nel campo ambiente e salute è largamente condiviso l’obiettivo generale della rimozione di fattori di rischio o la riduzione dell’esposizione a rischio di persone e gruppi.
Queste opzioni sono non solo ben radicate tra gli scienziati ma sono ormai da tempo presenti nei documenti programmatici e strategici comunitari e nazionali, quali ad esempio i piani europei per l’ambiente (siamo arrivati all’ottavo), i piani di azione per l’ambiente e la salute (più o meno aggiornati secondo la nazione) e i piani nazionali di prevenzione del Ministero della salute (in vigore quello 2020-2025) [1] che le Regioni mettono in pratica.
La varietà dei determinanti di salute – che hanno origine ambientale, sociale, individuale e che sono interconnessi tra loro – rende complesso il campo di studio e anche il trasferimento dei risultati in politiche di prevenzione. La sfida principale per le politiche in ambiente e salute è la necessità di essere intersettoriali, con i connessi rischi di conflittualità con altre politiche.
Piani e programmi finalizzati al miglioramento dell’ambiente e della salute devono essere calati nella realtà socio-economica e qui aumenta la complessità e la responsabilità sia di chi è chiamato a prendere decisioni sia dei ricercatori, che devono realizzare studi all’altezza della sfida, cioè in grado di considerare e valutare i principali determinanti di salute e fattori di rischio, le loro interrelazioni e le conseguenze delle azioni.
Si tratta quindi di una ricerca finalizzata allo sviluppo di azioni di prevenzione di provata efficacia. Più facile a dirsi che a farsi, ma questa è la sfida affinché le decisioni di sanità pubblica siano basate su evidenze scientifiche rigorose, capaci di affrontare le posizioni dubbiose o l’opposizione che può venire da una parte dei portatori di interesse in campo.
La notizia buona è che negli ultimi decenni la ricerca scientifica in campo ambiente e salute ha fatto passi da gigante e sono innumerevoli gli argomenti su cui le conoscenze sono consolidate e sufficienti per orientare scelte politiche. Un esempio forte e chiaro è quello delle conoscenze sulla relazione causale tra inquinamento atmosferico e salute, che permetterebbe scelte politiche chiaramente orientate a proteggere la salute della popolazione, decisioni che nella pratica si rivelano più difficili da prendere di quanto le evidenze scientifiche suggerirebbero. Un esempio emblematico è rappresentato dalle nuove linee guida sui livelli di qualità dell’aria per proteggere la salute, pubblicate nel 2021 dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) rappresentano una pietra miliare per la presa di decisioni [2].
Il rapporto dell’Oms fissa livelli di concentrazione dei principali macro inquinanti molto inferiori a quelli europei e della normativa vigente in Italia (D.Lvo 155/2010), già non rispettati in ampie parti del territorio e che segnalano una sovra esposizione a rischio di ampi strati di popolazione, o di tutta, come nelle aree più inquinate come la Pianura padana. Sono ampiamente conosciuti anche i principali rischi individuali che influiscono sulle tante malattie sensibili a inquinamento dell’aria, così come sono noti i benefici sia sanitari che economici ottenibili da politiche di risanamento, nonché i co-benefici sul piano della crisi climatica [3].
Ma, come verifichiamo ogni giorno, quanto e come i risultati degli studi di epidemiologia ambientale vengano “raccolti” dalla politica e trasformati in decisioni è argomento molto più complesso e meno lineare di quanto si potrebbe arguire dalla sola robustezza e maturità dei risultati scientifici. Questo, perché è una questione dipendente da molti elementi, per lo più non separati tra loro, e molto “esposti” alle priorità dell’economia capitalistica. I riscontri empirici non mancano, come la pressione forte e costante delle lobby degli industriali europei contro un possibile abbassamento dei limiti di qualità dell’aria.
Non mancano poi esempi di completo disaccoppiamento tra risultati di ricerca e decisioni politiche, come quello recente del ritorno al carbone per la produzione energetica, in chiara contrarietà con le robuste conoscenze sui danni delle combustioni di carbone su ambiente e salute. Come se non fossimo in piena crisi climatica, nonostante impegni e buoni propositi, l’uso del carbone è aumentato su scala globale: nel 2021 le emissioni di CO2 dovute all’energia hanno toccato il massimo storico di 36,3 miliardi di tonnellate, con un aumento del 6 per cento (per approfondire, vedi il rapporto IEA 2021). Il carbone ha pesato per il 40 per cento sulla crescita complessiva delle emissioni di CO2, raggiungendo il massimo storico di 15,3 miliardi di tonnellate. In Europa le emissioni di CO2 prodotte dalle centrali a carbone nel 2021 sono aumentate del 17 per cento rispetto al 2020.
Eppure si sa quanto queste combustioni contribuiscano all’inquinamento globale, mentre il rendimento elettrico lordo è più basso rispetto alle altre fonti, con un’emissione di CO2 molto elevata. Inoltre, disponiamo di conoscenze persuasive sul fatto che la combustione del carbone nelle centrali elettriche emette più ossidi di azoto, anidride solforosa, particolato e metalli pesanti per unità di energia rispetto a qualsiasi altra fonte di combustibile e compromette la salute delle popolazioni esposte.
La bussola delle scelte non si basa sulla prevalenza degli interessi collettivi, ma è spesso soggetta a deviazioni magnetiche per alleviare le quali ogni attore in campo è chiamato a fare il suo meglio: la scienza, la politica, i media. In questo scenario, niente affatto raro sul piano fattuale, il convitato di pietra è la partecipazione dei cittadini, senza la quale pare difficile garantire una piena governance del rischio orientata alla prevenzione.
Al proposito è da sottolineare che in Europa e anche nel nostro paese si sta facendo un intenso esercizio di scienza partecipata o citizen science, e sono numerose le circostanze in cui gli amministratori e gli organi di controllo si rendono conto che le politiche condivise sono più facili da applicare e il contributo attivo dei cittadini nel produrre scienza può aumentare la fiducia e combattere la diffusione di fake new e contrapposizioni ideologiche [4].
Se la forza dei risultati degli studi su ambiente e salute è un requisito centrale da garantire, non si può sottovalutare la forbice tra il punto di vista degli scienziati e quello dei decisori: spesso essa è sufficiente per i primi e insufficiente per i secondi. Sulla diversità di punto di vista del ricercatore rispetto a quello dell’amministratore, agiscono elementi di cultura, di mandato, di prospettiva.
Ma ci sono anche altri fattori che entrano in gioco, a volte prepotentemente, a mescolare le carte e confondere gli attori. Il più subdolo è l’uso dell’incertezza e della non esaustività dei risultati raggiunti. Sulla costruzione del dubbio, per discreditare o indebolire risultati conseguiti da studi indipendenti, la storia offre tanti esempi, dalla cancerogenicità del tabacco alla vicenda del glifosato [5]. Parte della comunità scientifica si presta quindi da molto tempo ad alimentare questo tipo di dubbi, perché esistono conflitti di interesse quasi sempre non dichiarati per niente, insufficientemente o in modo poco chiaro.
Un altro problema risiede nell’assenza di interfaccia adeguata tra scienza e politica, in termini tutt’altro che teorici, ma di sedi, luoghi, metodi e strumenti. Le notizie circolano e vengono moltiplicate sugli strumenti di comunicazione di massa o sui social che tipicamente operano ad un livello di ragionamento superficiale, non consentono approfondimenti, spiegazioni e articolazioni, e lasciano spazio a manipolazioni basate su preconcetti o su “agende politiche” già definite su diversi tavoli.
Su questi e molti altri temi si aprono molti interrogativi – ad esempio, come stabilire le priorità? Chi paga? Quali approcci per contrastare le ingiustizie ambientali (utilitarista, comunitarista, altri)? Interrogativi sui quali ci addentreremo nei prossimi interventi.
Liliana Cori e Fabrizio Bianchi
Unit of Environmental epidemiology and disease registries
Istituto di Fisiologia clinica Cnr, Pisa
Bibliografia
1. Ministero della salute. Piano nazionale della prevenzione 2020-2025. Ultimo accesso 4 agosto 2022.
2. World health organization. Global air quality guidelines Particulate matter (PM2.5 and PM10), ozone, nitrogen dioxide, sulfur dioxide and carbon monoxide. WHO 2021. Ultimo accesso 4 agosto 2022.
3. Vineis P, Carra L, Cingolani L. Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica. Torino: Einaudi, 2020.
4. Cori L, Re S, Bianchi F, Carra L. Comunicare ambiente e salute. Aree inquinate e cambiamenti climatici in tempi di pandemia. Pisa: Edizioni ETS, 2021.
5. Michaels D, Monforton C. Manufacturing uncertainty: contested science and the protection of the public’s health and environment. Am J Public Health 2005; 1: S39-48.
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