A cura di Carlo Flamigni La relazione che il medico stabilisce con il cittadino-paziente è volta a tutelare la salute indipendentemente da pressioni esterne.
Il primo rapporto tra un malato e un curante lo si deve riferire al cosiddetto modello ippocratico, che poneva l’enfasi soprattutto sui doveri, che riguardavano sia il medico che la persona che cercava conforto. Venne poi il modello paternalistico: il medico attribuiva solo a sé stesso la capacita di prendere decisioni nell’interesse del malato, al quale non riconosceva né autonomiané soggettività.
In epoca moderna il primo riconoscimento dei diritti dei cittadini (diritto a sapere e a decidere in modo autonomo) è identificabile nel grande rilievo che è stato concesso al consenso informato. Il cittadino non può essere indirizzato verso nessuna forma di terapia se prima non è stato informato dei motivi che hanno orientato il medico a proporla, dei costi e benefici della cura che gli è stata suggerita e delle possibili alternative, incluse quelle che il medico non approva. Il cittadino potrà dare il proprio consenso – o negarlo – ma solo dopo che il medico si sarà reso conto che le sue informazioni sono state recepite e comprese.
Questo rispetto dell’autonomia può far parte di prassi che l’etica medica e la deontologia considerano improprie, prima tra tutte quella definita “contrattuale”. Al centro di questo modello sta un contratto, prevalentemente esplicito, stabilito tra il medico e un cittadino paziente, un patto tra soggetti adulti e consenzienti che si mettono d’accordo su un certo tipo di prestazione professionale. Chi difende questa prassi ne sottolinea soprattutto l’omogeneità al linguaggio dei diritti; chi la critica, ne evidenzia l’attitudine all’esecuzione acritica dei desideri del cittadino-paziente e la ritiene in contrasto con il significato morale della professione medica. Dalla degenerazione di questo modello è nata la medicina difensiva, scelta da molti medici per difendere sé stessi di fronte alle sempre più frequenti accuse di malpractice.
Il medico è impegnato nel “prendersi cura” di colui che si trova in stato di bisogno ed è personalmente coinvolto nella realizzazione di alcuni valori.
I modelli di medicina che vengono proposti in contrapposizione con la prassi contrattuale considerano la medicina come un impegno di cura: il medico è impegnato nel “prendersi cura” di colui che si trova in stato di bisogno ed è personalmente coinvolto nella realizzazione di alcuni valori. La relazione che stabilisce con il cittadino-paziente si distingue per l’impegno di tutelare la salute indipendentemente da pressioni esterne, coinvolgendo il paziente nelle decisioni relative alla cura e coltivando quelle virtù umane e professionali che consentono un’autentica comunicazione. La fisiopatologia aveva indirizzato l’interesse prevalente del medico verso la malattia, distogliendolo dall’analisi dell’esperienza soggettiva che di essa faceva il cittadino-paziente.
La relazione deve essere dunque intesa come un rapporto basato sulla fiducia, dove prevale un sentimento di solidarietà.
L’etica della cura sposta l’attenzione verso la sua esperienza fondamentale, la sofferenza, e chiede al medico capacità di ascolto. Viene messa al centro della relazione paziente-medico la sofferenza; compare, in cima all’elenco delle responsabilità del medico, la capacità di compassione, nel senso di patirecon, di comprendere il punto di vista dell’altro, di empatia.
La relazione deve essere dunque intesa come un rapporto basato sulla fiducia, dove prevale un sentimento di solidarietà. Ne consegue la necessità che il medico coltivi alcune disposizioni interiori, vere e proprie virtù – che qualcuno ama definire “piccole virtù”, perché nessuna di esse ha carattere eroico – che debbono diventare aspetti costanti del suo comportamento: la pazienza, la prudenza, la capacita d’ascolto, la disponibilità ad affrontare le situazioni di sofferenza indipendentemente dal contesto, la sincerità e la chiarezza nella comunicazione, il rispetto delle volontà del malato e l’attenzione alla sua dignità, la comprensione dell’importanza dell’aggiornamento, del valore della cultura e delle competenze, la coscienza dell’importanza del proprio ruolo, l’umiltà.
Costruire un modello di medicina basato sull’etica delle virtù non dovrebbe essere incompatibile con orientamenti particolari; compassione e attenzione alla sofferenza si dovrebbero poter riconoscere sia in chi ritiene che la vita vada comunque e sempre protetta perché sacra, sia in chi le riconosce valore soltanto se possiede qualità.
Carlo Flamigni
Carlo Flamigni (4 febbraio 1933 – 5 luglio 2020) è stato docente in Ostetricia e ginecologia. Ha diretto il Servizio di Fisiopatologia della riproduzione e la Clinica ostetrica e ginecologica dell’Università degli studi di Bologna. Ha fatto parte del Comitato nazionale per la bioetica.
Questo testo è tratto dal libroLe parole della bioeticaa cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021). Per gentile concessione dell’editore.