Quando il paziente rifiuta l’intervento
Dalle storie di pazienti alla ricerca di una medicina che cura: Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Paola Arcadi

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Dalle storie di pazienti alla ricerca di una medicina che cura: Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Paola Arcadi
È esperienza comune che alcuni pazienti non seguano le terapie prescritte; con una brutta espressione li chiamiamo “non complianti”. Altri pazienti invece rifiutano esplicitamente un intervento che, in base alle linee guida e all’esperienza del medico, viene considerato utile o addirittura indispensabile. Una ricca letteratura scientifica attribuisce il fenomeno alle caratteristiche dei pazienti, alla complessità della terapia, agli effetti indesiderati di alcuni farmaci, all’inadeguato rapporto fiduciario con il medico, alla frettolosità della prescrizione. Cosa succede di questi pazienti?
Ci sono medici che si dedicano al paziente, alle sue sofferenze, alle sue esigenze, alle sue aspettative e li accompagnano anche nelle scelte non ortodosse, applicando quell’istinto empatico e accudente che ogni professionista sanitario dovrebbe avere nel suo dna. Talvolta invece i pazienti vengono abbandonati o ignorati dallo specialista che sembra più interessato a eseguire procedure che non a curare i pazienti affetti da una particolare patologia. Più technology oriented che patient oriented.
Leggendo e scrivendo storie si può imparare a tollerare l’ambiguità della pratica clinica. Al contempo, s’impara a conoscere sé stessi e a sviluppare l’ascolto che sta alla base della relazione di cura.
Dalla fine del 2020 il sito web di Slow Medicine (www.slowmedicine.it), nell’ambito del progetto denominato “Storie Slow”, pubblica ogni settimana [1] casi clinici descritti da medici, infermieri, professionisti sanitari, pazienti e parenti che raccontano l’efficacia di un approccio sobrio, rispettoso e giusto nelle cure (secondo i principi fondativi dell’associazione Slow Medicine). È stata scelta la formula delle storie perché la narrazione, la lettura e la scrittura aiutano i professionisti sanitari a comprendere più approfonditamente il punto di vista del paziente, a provare a mettersi nei suoi panni e quindi a sviluppare empatia e sono più incentivati a prendere in considerazione i valori e le dinamiche, che possono essere diversi dai propri. Leggendo e scrivendo storie si può imparare a tollerare l’ambiguità della pratica clinica (la parte soft della medicina, che sfugge a regole ferree e visioni assolute); al contempo, s’impara a conoscere sé stessi e a sviluppare l’ascolto che sta alla base della relazione di cura.
Dalla nascita del progetto ad oggi, sono state pubblicate nel sito di Slow Medicine 70 storie che possono essere raggruppate in cinque filoni.:
Da alcuni stralci di storie si evince il rapporto costruttivo che si è venuto a creare tra un medico e un paziente e che ha permesso di individuare un percorso clinico che tenga conto delle aspettative e i valori del paziente da una parte e le raccomandazioni della medicina basata sulle prove di efficacia dall’altra.
A Miranda “capelli d’argento con sfumature celesti, occhi piccoli e vispi, sorriso gentile” all’età di 80 anni durante un ricovero per scompenso cardiaco venne posta diagnosi di stenosi aortica severa.
All’epoca Miranda conduceva una vita attiva, nonostante i precedenti interventi di bypass coronarici e la terapia anticoagulante per la fibrillazione atriale. “Cosa succederà se non sostituisco questa valvola?” Mi aveva chiesto. Da giovane cardiologa avevo illustrato rischi e benefici, determinata a convincerla a sottoporsi all’operazione e a garantirle una vita lunga e serena. […] Qualche giorno dopo mi aveva telefonato: mi aspettavo un ringraziamento e una richiesta di incoraggiamento prima del ricovero e dell’intervento, invece Miranda, in tono quasi di scuse, mi aveva comunicato che non intendeva più sottoporsi alla sostituzione della valvola difettosa. “Non è per Lei, dottoressa - aveva tenuto a precisare - lo so che è giovane e preparata, ma io sono anziana e non me la sento di affrontare questo intervento, non se ne abbia a male”. Cosa fare? Insistere sulla necessità dell’intervento, come mi avevano insegnato alla scuola di cardiologia? O accettare il sottile equilibrio tra benessere fisico e mentale particolarmente critico nell’anziano? Cedetti al volere della paziente e negli anni successivi imparai a gestire la cronicità in tutti i suoi aspetti, a dosare il diuretico con estrema attenzione, a garantire visite più frequenti del solito e telefonate ai familiari tra una visita e l’altra per rincorrere il fragile equilibrio della valvola calcifica della fata turchina [4].
Mario è un sessantenne seguito per anni dopo un infarto miocardico. I controlli periodici cominciarono a evidenziare una stenosi aortica che fortunatamente non gli dava il minimo disturbo soggettivo. La valvulopatia gradualmente divenne severa, pur rimanendo lui sempre asintomatico.
Gli consigliai di sentire il parere di un cardiochirurgo. […] L'intervento dal punto di vista della gravità della malattia valvolare era indicato e lui l'avrebbe eseguito, ma i rischi operatori erano però discreti, correlati all'età, al pregresso infarto e alla necessità della circolazione extracorporea. Mario non sembrò turbato dalle parole del chirurgo. In cuor suo aveva già deciso. “Dottore, ad oggi non ho sintomi, faccio la mia vita tranquilla da vecchietto’. Sarò onesto con lei: preferisco non operarmi”. Accettai la sua decisione, ma dentro di me rimase il dubbio di non aver fatto il massimo per lui, di non aver esercitato tutta la mia influenza, di non averlo guidato verso ciò che la medicina “evidence based” sosteneva essere la soluzione terapeutica migliore per lui [5].
Enrico è un costruttore edile, si era fatto da solo, con determinazione, non risparmiandosi nel lavoro, e con una tenacia che non ammetteva cedimenti, né rispetto al figlio né ai dipendenti della sua azienda. Dell’origine emiliana, oltre al carattere socievole e aperto, aveva anche alcune abitudini alimentari non estranee al sovrappeso, che cercava di antagonizzare con l’attività fisica: nuoto e tennis.
Ma proprio in queste attività, che affrontava con lo stesso impegno che metteva nel lavoro, era costretto a fermarsi dal dolore al petto che gli toglieva, insieme al respiro, il piacere e il beneficio che ricercava. Al termine della valutazione Enrico, che aveva perfettamente compreso il risultato della prova, mi chiese cosa dovesse cambiare nella sua vita e mi esplicitò quello a cui non voleva rinunciare, lavoro e attività fisica, dicendosi disponibile a seguire una cura con farmaci. Non intendeva invece fare esami “invasivi” (coronarografia) e tantomeno affrontare l’intervento chirurgico, che era entrato allora nelle opzioni terapeutiche. [...] La mia decisione di seguirlo clinicamente e con terapia medica senza eseguire la coronarografia, non era un cedimento alle sue “direttive” né una posizione pregiudiziale nei confronti di un interventismo medico che, specie in campo cardiologico, mi appariva allora, ed ancor più oggi, biologicamente debole [6].
Abbiamo anche ricevuto storie che documentano un comportamento più indirizzato allo svolgimento delle procedure che all’affrontare i bisogni dei pazienti, privilegiando l’interesse sulla patologia piuttosto che sulla cura di una persona ammalata.
Giorgio è un settantenne che nell’arco di alcuni anni ha avuto tre episodi di flutter atriale, giocando a tennis, risolti con la cardioversione elettrica in pronto soccorso; prenota una visita aritmologica, consulta un amico medico e si documenta leggendo alcuni articoli scientifici. Così Giorgio scopre che il trattamento di elezione è l’ablazione in grado di risolvere il problema nel 90 per cento dei casi; ma impara che un’elevata percentuale di pazienti va incontro a fibrillazione atriale nell’arco di cinque anni.
L’aritmologo, si è informato velocemente sul mio stato di salute e mentre l’infermiera eseguiva un ecg ha letto il resoconto del Pronto Soccorso. “L’ecg è normale” – mi ha detto assentendo – “è venuto per l’ablazione?” “Beh, a dire il vero – gli rispondo – al momento sto bene, non ho avuto altri episodi e sono venuto per avere qualche informazione sui vantaggi e gli svantaggi di un eventuale trattamento”. “Guardi – mi risponde in modo gentile ma fermo – “la procedura è assolutamente sicura, i rischi di complicanze sono molto rari ed è efficace in oltre il 90 per cento dei casi” [nessun accenno al rischio di fibrillazione atriale]. “Se vuole, possiamo metterla in lista d’attesa.” “Beh – gli rispondo un po’ impacciato – da quando non gioco a tennis il problema non si è più presentato e al momento sto bene. So che l’80 per cento dei pazienti che esegue l’ablazione dopo cinque anni va in fibrillazione atriale, cosa succede se non faccio nulla?” “Caro signore, questo non glielo possiamo dire noi. Il nostro Centro segue solo i pazienti che si sottopongono alle nostre cure. Lei è libero di non fare nulla, ma è una scelta tutta sua”. A questo punto il tempo è finito e la visita si conclude [7].
Silvio è un anestesista che a 47 anni, senza precedenti malattie, inizia a riscontrare elevati valori di pressione arteriosa.
Dopo terapie antipertensive, perdurando astenia, ipertensione diastolica e ipopotassiemia, viene fatta diagnosi di ipertensione dovuta a un tumore della ghiandola surrenale. Mi viene proposto l’intervento chirurgico di asportazione della surrenale sinistra per via endoscopia, ponendosi come alternativa l’impiego di un farmaco antialdosteronico, con i relativi spiacevoli effetti collaterali, specie per gli uomini. […] Raccolgo informazioni scientifiche: basso rischio di complicanze intra e post-operatorie dell’intervento chirurgico (considerato tuttora la terapia di scelta); dopo l’intervento solo nel 50-70 per cento dei casi i valori pressori si normalizzano senza ulteriori farmaci; gli adenomi surrenalici aumentano di volume in piccola percentuale (5-20 per cento) e l’evoluzione in malignità è molto bassa (< 1/1000). Poiché non trovo prove secondo cui l’intervento chirurgico migliori la sopravvivenza e/o la qualità di vita, decido di continuare con la terapia medica. Appresa questa notizia, il medico che fino a quel momento si è occupato con molta professionalità del caso, mi augura cortesemente “Buona fortuna!” e si disinteressa del mio destino [8].
Nel suggerire un programma diagnostico o terapeutico i medici fanno riferimento a raccomandazioni individuate per “pazienti come questo” piuttosto che per “questo paziente”. I risultati dei trial clinici randomizzati esprimono il risultato medio di un gruppo composito di pazienti con la stessa malattia, ma diversi per sesso, età, comorbidità, funzione renale, polmonare e cardiaca. I pazienti reclutati differiscono anche per livello di istruzione, reddito, ambiente di vita, volontà di vivere, soddisfazione della loro vita, supporto familiare, felicità, depressione. Applicando i risultati del trial clinico randomizzato a “questo paziente” i medici si aspettano che le molteplici caratteristiche specifiche del paziente non si discostino troppo dal paziente medio che ha ottenuto risultati migliori con il trattamento A rispetto a B. Identificare la cura che si adatta ai singoli pazienti, richiede che pazienti e clinici lavorino insieme rispettando valori, attitudini, competenze e creando un programma che abbia senso per entrambi. Quando prescriviamo un trattamento a un paziente non sappiamo a priori se “questo paziente” sarà di quelli che beneficerà o di quelli che dovrà sopportare gli effetti indesiderati. A “questo paziente” l’aspirina eviterà l’ictus o faciliterà l’insorgenza di un’emorragia cerebrale? Non lo possiamo sapere prima e quindi proponiamo il trattamento mediamente migliore. Ma “questo paziente” non è mai un paziente medio. È questo paziente, appunto.
Definiamo erroneamente “irrazionali” i pazienti che non seguono i nostri consigli, senza capire che in molti casi, lui/lei è solo confuso/a dalle “complicate emozioni e storie di fondo che rendono unico ognuno di noi. E che se ricorriamo alle etichette in un momento di bisogno devastante, allora perdiamo di vista ciò che significa essere umani” [9]. Una comunicazione efficace tra medico e paziente è associata a una riduzione delle accuse di negligenza [10-13], a risultati di salute positivi [14, 15], a una migliore salute generale [16, 17], riduce i costi totali [18] e aumenta la soddisfazione del paziente in diversi modelli organizzativi di servizi sanitari primari [19, 20]. Trasmettere rispetto può anche avere effetti positivi sui risultati di salute equi, sulla soddisfazione del paziente e sulla fiducia reciproca [21].
I casi clinici non fanno casistica, non dimostrano l’efficacia di un trattamento o di una scelta terapeutica. Sono i trial clinici randomizzati e le metanalisi che devono guidare le nostre scelte. I casi personali però ci raccontano molto, ci raccontano di singole persone e non di come si sono comportanti in media centinaia o migliaia di pazienti simili a quello che devo curare. In particolare, le storie riportate in questo articolo non hanno lo scopo di spiegare il comportamento dei medici, ma di offrire esempi di comportamenti che dimostrano la positiva collaborazione tra un medico e un paziente e altri che evidenziano il disagio di pazienti che si sono sentiti abbandonati perché non sono più “casi interessanti”. Le storie non rappresentano un comportamento medio, ma esempi su cui riflettere. Potremmo infatti trovare altre cinque storie simili che hanno avuto un risultato opposto, ma questo non inficia il significato di questi racconti.
Rimettere al centro del nostro impegno quotidiano come medici “questo paziente” e la sua malattia invece di un “paziente come questo’” ci premetterà di praticare una medicina che davvero cura e non solo interviene.
Rimane da raccontare la fine delle vicende di questi pazienti. Quali conseguenze ha comportato aver accolto i desideri di pazienti o averli abbandonati al loro destino.
Miranda, la signora con la stenosi aortica.
Negli anni successivi Miranda aveva perso autonomia, sempre più stanca e acciaccata si spostava con una sedia a rotelle, ma con il conforto di una splendida famiglia attenta alle sue necessità. […] “Mia mamma è morta – mi telefona una mattina il figlio - Nonostante i suoi alti e bassi è sempre stata serena, anche perché sapeva di potere sempre contare su di Lei. Grazie di cuore, dottoressa”. Appoggio la cornetta e rimango in silenzio a pensare: Miranda con la sua caparbietà e i suoi rifiuti aveva avuto ragione.
Mario, il sessantenne con la stenosi aortica.
Non ho abbandonato Mario; ho lenito la sua sofferenza con le cure finché ho potuto, ma anche con le parole che lui voleva sentirmi dire. Se ne è andato come voleva, e io so che fino all’ultimo i suoi occhi non hanno mai pianto per la disperazione e la paura anche quando l’ho abbracciato per l’ultima volta.
Enrico, il costruttore edile con angina da sforzo.
Sentirsi protagonista della favorevole evoluzione della malattia l’aveva portato a rinunciare anche ad ogni attività lavorativa. Continuava scrupolosamente la cura del cammino e i farmaci. Più avanti negli anni mi informava delle camminate: se qualche conoscente lo avesse fermato per salutarlo, Enrico avrebbe chiuso bruscamente con un: “non posso, sto facendo la mia cura”.
Giorgio, con le crisi di flutter atriale, a cui è stata proposta l’ablazione.
Da questo colloquio sono trascorsi ormai tre anni. Ho smesso di giocare a tennis, ma per il resto la vita è come prima. È davvero inconcepibile che la medicina prenda in considerazione solo i casi che si sottopongono ai trattamenti proposti e non mostri alcun interesse a chi consapevolmente intende seguire un’altra strada. Il percorso è a senso unico. Se vuoi puoi uscirne, ma sono fatti tuoi e così si perdono informazioni preziose che potrebbero essere utili a molti altri pazienti per i quali fare di più non è sempre meglio.
Silvio, l’anestesista con il tumore surrenalico.
Dal punto di vista terapeutico, ho ridotto progressivamente e poi sospeso i farmaci; a 16 anni dalla diagnosi, sono senza terapia antipertensiva, con i livelli di potassio nella norma ed entrambi i surreni.
Rimettere al centro del nostro impegno quotidiano come medici “questo paziente” e la sua malattia invece di un “paziente come questo’” ci premetterà di praticare una medicina che davvero cura e non solo interviene.
Chi avesse seguito casi di pazienti che hanno affrontato la malattia in modo slow, può inviarci (michelachiarlo@gmail.com) il suo racconto che verrà pubblicato nel sito di Slow Medicine.
Marco Bobbio
Medico, già primario Cardiologia, Ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo
Michela Chiarlo
Medico, Reparto di Medicina d’urgenza, Ospedale San Giovanni Bosco di Torino
Paola Arcadi
Infermiera, Università degli studi di Milano
Bibliografia
A cura di Fiorello Casi
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