Se il malato vede in chi lo assiste un amico ritrova pace interiore e le spasmodiche domande di fronte agli eventi vengono mitigate. Bisogna però essere in grado di relazionarsi e fargli capire, usando bene le parole, che non sarà solo. Le parole hanno un’energia che va oltre il loro suono e un senso all’interno di un atto di cooperazione, in cui stabilire primariamente un legame. Hanno un potere enorme sullo stato d’animo di chi ascolta perché generano effetti di cui noi medici siamo responsabili. I nostri scambi verbali sono sforzi di collaborazione con due compiti: trasmettere le informazioni, e preservare e rinegoziare i legami.
Comunicare a un paziente la sua diagnosi o le cure a cui si deve sottoporre è un atto delicato. Si ha di fronte una persona, in una condizione psicologica di fragilità che pende dalle labbra del medico.
Prima di parlare bisogna ascoltare le parole dell’altro e l’ascolto deve esser un ascolto per capire. Vi deve essere una pazienza ad ascoltare, avendo una carità interpretativa che permetta di entrare in sintonia col malato per poter usare le parole giuste al momento giusto e gestire il proprio comportamento al meglio. Esiste infatti una comunicazione non verbale che può dire di più delle parole e che può essere contraddittoria rispetto a quello che diciamo. Il linguaggio del corpo, come le parole, esprime un’infinita gamma di sentimenti. Dire “Stia tranquillo” con lo sguardo verso terra non è certo un bel segnale per l’ammalato, che è molto sensibile e avverte subito se si è sinceri o meno. Comunicare a un paziente la sua diagnosi o le cure a cui si deve sottoporre è un atto delicato. Si ha di fronte una persona, in una condizione psicologica di fragilità che pende dalle labbra del medico. E questo non vale solo per i casi gravi, ma anche per gli esami più banali (si pensi come si è in ansia in attesa di un check up). Il timore che la salute possa vacillare fa paura e se le malattie sono gravi questa è ancora più forte.
Usare bene le parole significa rispettare le attese di informazione del paziente, vuol dire non prevaricarlo, lavorando per quella alleanza terapeutica di cui tanto si parla ma che spesso nella prassi viene dimenticata. La disponibilità del medico in tal senso è fondamentale e, indipendentemente dalle carenze del sistema, molto dipende da lui evitando atteggiamenti duri, asserzioni ex cathedra, silenzi destabilizzanti, supponenza verso le richieste, pronunciamenti tecnici dogmatici: essere bravi tecnici non basta per essere bravi medici. La certezza che hai fatto una buona o cattiva comunicazione te la dà il paziente con il suo sguardo e l’espressione del suo viso.
Il consolare è un’arte delicata e difficile che non dovrebbe conoscere la fretta dei nostri ambulatori in cui la persona va accolta umanamente in tutta la sua complessità.
Quindi, per il medico: occhi specchi di serenità e di speranza, mani calde rassicuranti di fronte a chi ha un percorso difficile. Voler conoscere la diagnosi, sapere se la metastasi si può curare, se un esame del sangue sballato può non voler dire nulla, se la malattia può essere cronicizzata, se quando si ricade si può ancora guarire, se si può tornare a una vita normale, sono solo alcune delle domande pressanti del malato di tumore, alle quali il medico non può sottrarsi, ritrovando in ciò il senso, anche consolatorio, della sua professione. Il consolare è un’arte delicata e difficile che non dovrebbe conoscere la fretta dei nostri ambulatori in cui la persona va accolta umanamente in tutta la sua complessità, evitando etichettature: ogni volta che la si etichetta, si attenta alla sua dignità e ai suoi valori castrando l’empatia che si deve generare. Bisogna mettersi nei suoi panni in punta di piedi cercando di percepire il suo stato d’animo.
La tecnologia e la scienza medica sono riuscite a cronicizzare il cancro e a donare lunghi percorsi di vita, ma resta spesso la incapacità a vivere come prima il lavoro, il ruolo materno, paterno, filiale, la cittadinanza, l’impegno sociale.
L’attenzione e l’ascolto sono una grande cura.
Parola consolatoria significa allora costruire una prossimità, e dentro questa far abitare il disorientamento, la sofferenza e il dolore di chi, a causa della malattia, è andato incontro a una risimbolizzazione del suo ruolo: prima comandava ora deve ubbidire, prima in famiglia era una persona che curava, ora è da curare, è diventato figlia o figlio della propria prole. Paolo VI diceva: “La parola consolatoria è un atto di carità; assistere curare, consolare quale altra attività può essere per dignità, per utilità, a fianco di quella sacerdotale? Quale altro lavoro può con un semplice atto interiore di soprannaturale intenzione, diventare carità? Cioè salire ai vertici dei valori umani, anzi inscriversi, come appunto la carità che mai morirà, tra i valori eterni?” E un grande medico, padre dell’oncologia medica moderna, Gianni Bonadonna, scriveva nel suo libro Medici umani e pazienti guerrieri: “Se faccio i conti con quello che mi è accaduto, con il risveglio dall’ictus che mi ha rubato i movimenti, la parola, la libertà, ripenso alla paura provata da tanti malati che hanno dovuto fare i conti con una diagnosi infausta. Per dare una speranza invece basta un gesto, un sorriso, la fiducia, la vicinanza di una persona cara. L’attenzione e l’ascolto sono una grande cura”.