Il nostro rapporto con il dolore ci svela in che società viviamo: questa la tesi fondamentale di uno dei filosofi più letti in Europa in questi anni, il coreano Byung-Chul Han. Le sue tesi al riguardo sono riassunte in un libro-pamphlet pubblicato anche in Italia: La società senza dolore.
Secondo Han, la società occidentale attuale rifugge dal dolore: è algofobica. Viviamo la sofferenza come la negatività per antonomasia e quindi cerchiamo di bandirla dalle nostre vite. Niente di male a cercare di soffrire il meno possibile. Non però se questa volontà diviene ideologica, a detta di Han. Un simbolo di questa ideologia del benessere permanente è rappresentato dal boom degli oppioidi sul mercato americano, dove farmaci prima impiegati per la medicina palliativa vengono massicciamente assunti anche dai sani, tra cui molti giovani e adolescenti. Eludere l’esperienza del dolore, preferendo vivere risparmiando sulle emozioni “negative”, non aiuta a superare davvero la sofferenza, sostiene Han, e ogni autentica, umana empatia con chi soffre.
Perché questa tendenza viene oggi tollerata, e anzi incentivata? Perché – risponde Han – la società palliativa coincide con la società della prestazione: il dolore altera la performance, la passività insita nella sofferenza mina l’imperativo sociale che ci spinge a fare. Nulla deve più far male. Anzi, veniamo di continuo chiamati a esprimere la nostra approvazione verso ciò che ci piace, non ciò che ci dispiace: il like è l’emblema, l’analgesico base della contemporaneità.
Ma qualcosa non torna, nota Han. Perché una salda tradizione filosofica e morale ci ha insegnato che il dolore è efficace nell’anticiparci il senso della morte, cioè la finitezza. Quando stiamo male, capiamo meglio che siamo comunque destinati, un giorno, a finire. E questa consapevolezza è preziosa, è addirittura catartica: ci aiuta a vivere meglio e a godere della vita. Infatti, il filosofo di riferimento di Han nel Novecento, Martin Heidegger, ha delineato una vera e propria ontologia del dolore, per cui questo sarebbe la tonalità fondamentale della finitezza umana: la morte in piccolo. E la morte, il dolore in grande.
Non dovremmo ridurre in dati la sofferenza e la malattia: il dolore imporrebbe piuttosto di essere narrato.
La società capitalistica della prestazione rifugge però da questa evidenza. Perché di un’evidenza si tratta, dal momento che siamo attorniati dal dolore e dal morire, specie in queste stagioni di pandemia. E invece si preferisce trasformare la sofferenza e le morti in dati, digitalizzandole: digitale significa numerico, e la morte e il dolore non rientrano nell’ordine digitale, rappresentano un disturbo. Contro il quale l’algoritmo funziona: il digitale è anestetico.
Secondo il filosofo coreano, la vita priva di dolore e protesa a una costante felicità non sarebbe più una vita umana. La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa. Nel dolore, la morte viene anticipata e chi vuole sconfiggerlo s’illude di poter abolire anche la morte. Di qui, le tesi forse meno ricevibili e più estreme dello studioso coreano. Non solo così ci si dimentica – come dicevano gli Antichi – che il dolore purifica. Ma si espone la società liberale all’ipoteca biopolitica: Han si avvicina alle posizioni meno oltranziste di chi, durante l’attuale pandemia, sostiene che staremmo marciando compatti verso un regime di sorveglianza biopolitica. A causa del dispositivo d’igiene, la nostra rischierebbe di diventare una società della sopravvivenza, obbligata a rinunciare ai principi liberali che avrebbero dunque fallito dinanzi al virus.
Lo sguardo di ogni malato esprime innanzitutto sofferenza e ci ricorda che il dolore è innanzitutto una malattia di per sé, alla quale recare sollievo.
Han ha il merito di far riflettere sul fenomeno dell’anestetizzazione delle emozioni negative nella nostra società palliativa, nella quale la salute viene elevata a nuova divinità. Non dovremmo ridurre in dati la sofferenza e la malattia: il dolore imporrebbe piuttosto di essere narrato, contro la prosa della compiacenza e del like. Tuttavia, ogni cittadino, che sia un operatore della salute o meno, sa che da qui a tessere un elogio del dolore ce ne passa: non so quanti sottoscriverebbero che “il bello è il colore complementare del dolore”, perché il dolore ha guidato la penna di Proust e le dita di Schubert. Lo sguardo di ogni malato esprime innanzitutto sofferenza e ci ricorda che il dolore è innanzitutto una malattia di per sé, alla quale recare sollievo.