Progettare gli ospedali. Scegliere nell’incertezza
Come si compiono scelte consapevoli in scenari incerti? La nota di Marco Geddes da Filicaia sugli spazi resilienti per la cura

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Come si compiono scelte consapevoli in scenari incerti? La nota di Marco Geddes da Filicaia sugli spazi resilienti per la cura
Foto di Marco Vergano
È ovvio che si sceglie in situazioni di incertezza. Se non ci fosse un margine di incertezza, rappresentato anche dalla semplice alternativa fra due opzioni possibili entrambe piacevoli (dolce o gelato?) non saremmo chiamati a fare una scelta. Il problema ha, quanto meno, un duplice aspetto: il margine di aleatorietà del risultato atteso, vale a dire quanto l’esito della (o delle) assunta sia prevedibile, ovvero quali siano i “limiti di confidenza” delle varie alternative; vi è poi un secondo elemento: in che misura la scelta può essere modificata, optando successivamente per una seconda alternativa o rimodulando, in base alle evidenze successive, quanto deciso. Il medico, in molti casi, ha la necessità e la possibilità di modulare le proprie scelte con un’azione che è possibile se vi è una continuità nella presa in carico e una capacità di monitorare – non tanto tecnicamente ma assistenzialmente – la persona che ha in cura, tenendo conto non solo delle caratteristiche biologiche individuali, ma degli stili di vita, o della interazione con altri farmaci.
Vi sono scelte che per loro natura risultano, invece, sostanzialmente immutabili, almeno nello spazio della vita professionale o biologica. Non mi riferisco ad eventi drammatici ma alle decisioni riguardanti assetti strutturali, edilizi e tecnologici, per i luoghi dove le attività di diagnosi e cura sono collocate e da tali scelte condizionate nella loro efficienza, nella loro efficacia, nella qualità della assistenza e nel benessere degli utenti e degli operatori. Vi sono edifici e ambienti la cui finalità, per la quale sono stati realizzati, può non mutare nel corso dei secoli e il cui utilizzo avviene talora senza sostanziali cambiamenti nel trascorrere degli anni. Le chiese e i teatri sono esempi evidenti di strutture utilizzate nei secoli per gli originali scopi per i quali furono realizzati. Per gli ospedali non è così; progettare un ospedale vuole dire capire (o forse meglio: intuire?) quali saranno, nei decenni successivi, le funzioni richieste alla struttura che ci proponiamo di realizzare. Funzioni di assistenza e di cura che la struttura espleta con i suoi spazi, i suoi locali, le sue tecnologie, la qualità degli ambienti, la organizzazione e l’aderenza a procedure appropriate che gli elementi strutturali consentono o, ancor meglio, favoriscono. Per fare ciò avremmo bisogno di doti oracolari o almeno di un notevole intuito come suggeriva il leggendario giocatore di hockey Wayne Gretzky affermando: “Skate to where the puck is going to be, not where it has been!”. O forse dovremmo essere dotati di una visione utopica poiché – come affermava Le Corbusier “l’utopia non è mai altro che la realtà di domani e la realtà di oggi è l’utopia di ieri”.
Progettare un ospedale vuole dire capire (o forse meglio: intuire?) quali saranno, nei decenni successivi, le funzioni richieste alla struttura che ci proponiamo di realizzare.
Tutti gli utopisti sono in qualche misura architetti e cartografi, nel senso che concepiscono luoghi o città o edifici che esplicitano la loro utopia, come peraltro tutti i progetti architettonici esprimono un’idea utopica: quale dovrà essere la realtà, l’organizzazione dei servizi, l’uso degli spazi nel futuro, cioè ambienti adeguati ad accogliere funzioni, oggetti e persone che interagiscono in modo potenzialmente diverso e mutevole rispetto a quanto esperito in passato o anche nel presente. Non a caso l’ospedale è stato oggetto e fonte della letteratura utopica che si sviluppa in particolare nel settecento e nell’ ottocento. Sébastien Mercier nel suo romanzo (L’An 2440. Rêve s’il en fut jamais, 1771) narra del suo risveglio a Parigi nell’anno 2440: i grandi ospedali, a cominciare dall’Hôtel Dieu, sono dismessi e sostituiti da venti piccoli ospedali ai margini della città.
Molti altri autori si sono confrontati con la visione utopica della città e dei suoi ospedali, fra cui Etienne Cabet (Voyage en Icarie, 1842) e Jules Verne (Les cinq cents millions de la Bégum, 1879). In quei decenni di fine Ottocento, primi Novecento, l’Utopia si era fatta – o almeno così sembrava – realtà. Rudolf Virchow individua l’elemento fondamentale di ogni essere vivente : la cellula; John Dalton il costituente della materia: l’atomo. Il microbo, origine delle malattie, è identificato, isolato e coltivato.
Anche gli ospedali sono realizzati nella certezza dei committenti e degli architetti di interpretare le esigenze sanitarie e assistenziali non-di un determinato periodo, ma di aver colto il punto di arrivo, il modello immutabile della architettura sanitaria, della evoluzione tecnologica e della “tecnica e igiene ospedaliera”. A tale convincimento corrispondono quindi strutture che si snodano fra spazi verdi; un disegno logico e leggibile che si articola con un criterio che potremmo definire gerarchico nella collocazione dei singoli padiglioni, nello stile, nei materiali utilizzati e che, tuttalpiù, necessiterà della aggiunta di ulteriori edifici. La lettura delle funzioni dei singoli fabbricati che compongono il complesso ospedaliero e dei percorsi che li connettono è così immediata e analoga da città a città. L’ingresso, monumentale, è centrale e chiude il lato di una piazza o delimita lo slargo di un viale; dall’atrio si dipartono scaloni monumentai che collegano i piani superiori dove sono collocate le sale di rappresentanza. Dall’atrio principale si snodano i percorsi verso i padiglioni: su un lato le medicine, sull’altro le chirurgie.
Queste certezze sono – come dire – evaporate di fronte alla rapida evoluzione di tecnologie, norme, bisogni, diritti e, non ultimi, andamenti demografici ed epidemiologici.
Al fine di attenuare l’aleatorietà delle nostre conoscenze rispetto al futuro facciamo spesso ricorso ad alcune formule o indicazioni progettuali racchiuse nei termini consueti: strutture resilienti, edifici flessibili. Criteri utili, importanti, ma non certo risolutivi e non facili a tradurre in realtà e compatibilità con altri elementi: umanizzazione degli ambienti, qualità architettonica, dialogo con il territorio e la città, compatibilità con le risorse disponibili, contenimento dei costi di gestione.
Possiamo invece mettere in atto – cosa che non sempre facciamo – gli strumenti per valutare le mutazioni in corso e per effettuare previsioni: gli andamenti demografici ed epidemiologici; l’evolversi dei volumi di prestazioni, i cambiamenti nelle tecnologie; la proiezione di tali mutazioni nei prossimi decenni.
L’emergenza pandemica ci ha evidenziato una realtà che può ripresentarsi e che ci pone rilevanti problematiche nella realizzazione di ospedali e di strutture sanitarie in genere: la corretta separazione di percorsi e accessi, il governo dei flussi di pazienti e visitatori riducendo e frazionando gli spazi di attesa, l’aumento degli spazi da destinare a pazienti infetti, l’utilizzo di tecnologie digitali e della telemedicina per monitorare pazienti anche al di fuori dell’ospedale.
Alcune realizzazioni o progetti tentano di interpretare questo divenire con approcci diversi: con una informatizzazione dell’insieme dell’edificio e della organizzazione, con una predisposizione della struttura per renderla flessibile a nuove esigenze o con una elevata integrazione con centri di ricerca e formazione per accelerare il trasferimento di innovazioni nella realtà assistenziale. Esempi rari, da individuare sia in Italia che di altri Paesi, in Nordamerica e Nordeuropa, dove la realizzazione di nuovi ospedali (grazie a una più ampia disponibilità di finanziamenti), e la applicazione di nuove metodologie trasferite dalle logiche industriali per governare i flussi di lavoro, risultano più utilizzate.
Riportiamo in breve due esempi: una realizzazione, in Canada, e una progettazione, in Italia.
L’Humber river hospital di Toronto è un ospedale di 688 posti letto con una rilevante attività ambulatoriale e 72.700 interventi chirurgici l’anno. In questa struttura è stata realizzata una completa digitalizzazione non solo dei dati sanitari, ma di tutte le informazioni: gestione dell’edificio, sistemi di sicurezza, localizzazione di attrezzature, localizzazione dei presidi e contatto con il personale in tempo reale. Nell’ospedale digitale che è stato così implementato le persone sono mobili e connesse, con possibilità di accedere alle informazioni ovunque e in qualsiasi momento. Questo livello di connessione riguarda anche i pazienti che controllano l’ambiente della loro camera, interagiscono con il personale, si collegano alla famiglia in videochiamata (utilissimo durante la pandemia), visualizzano la propria cartella clinica… Un centro di comando (command center), in cui lavorano medici, infermieri, ingegneri e clinici informatici, avvalendosi di un monitoraggio degli ambienti e dei pazienti, e utilizzando l’intelligenza artificiale, tiene sotto controllo i processi e flussi in ogni fase del percorso di cura con risultati rilevanti in termini di tempestività delle cure, riduzione dei tempi di attesa, ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse tecnologiche (sale operatorie, apparecchiature diagnostiche ecc.) e riduzione delle degenze.
In Italia ci si muove su più aspetti nella progettazione e realizzazione di nuovi ospedali, con vincoli derivanti dalle preesistenze e dalla disponibilità finanziaria. In Piemonte l’attuale progetto “Parco della salute, della ricerca e dell’innovazione – Psri” si orienta in una prospettiva più “macro” rispetto all’esempio canadese, prevedendo un polo ospedaliero integrato con un polo didattico, con un polo di ricerca clinica e traslazionale e con il sistema regionale della ricerca di base.
La progettazione del polo ospedaliero torinese ha assunto come termine di riferimento la flessibilità, proprio per far fronte ai cambiamenti futuri: una flessibilità strutturale, grazie a maglie strutturali in grado di soddisfare le eventuali esigenze di cambiamento funzionale e di evoluzione tecnologica; una flessibilità impiantistica al fine di poter riconfigurazione le aree degenza per eventuali cambiamenti di destinazione d’uso (aree di degenza continuativa in aree di degenza diurna o di terapia intensiva o in aree ad elevato contenuto tecnologico).
La progettazione del polo ospedaliero torinese ha assunto come termine di riferimento la flessibilità, proprio per far fronte ai cambiamenti futuri.
Si tratta, in particolare nel nostro Paese, di percorsi complessi nella ricerca di interpretare da parte del committente, del direttore sanitario, del progettista l’evolversi del bisogno di conoscenza e di assistenza e individuare modalità adeguate con fine di rispondere a tali cambiamenti. Il committente è chiamato – in ultima istanza – a dare indicazioni e assumere decisioni tenendo conto delle disponibilità e delle conseguenti scelte prioritarie da assumere in base a ponderate previsioni.
Ma, come afferma Sir David Spiegelhalter, presidente della Royal statistical society: “Predictions are difficult, especially about the future”. Resta pertanto un margine di inevitabile incertezza di cui è indispensabile essere consapevoli.
Resta un margine di inevitabile incertezza di cui è indispensabile essere consapevoli.
Marco Geddes da Flicaia
Associazione Salute Diritto Fondamentale
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