È possibile che la compilazione delle DAT sia poco diffusa per una forma di rimozione in merito a tutto ciò che concerne il fine vita.
La cultura occidentale contemporanea è caratterizzata da una forma di rifiuto nei confronti dell’idea della morte.
Per affrontare tale tipo di resistenze culturali, manca però un primo fondamentale passo, che è quello dell’informazione.
L’informazione non può essere solo passiva, ovvero un’informazione cui giunge chi di proposito va a cercarla, ma deve essere diffusa in modo attivo per ottenere il fine di un equo accesso alle risorse messe a disposizione.
In tale processo di informazione attiva un ruolo rilevante dovrebbe essere svolto dai medici.
La legge n. 219/2017, approvata dopo un iter parlamentare piuttosto complesso, è la prima legge che disciplina in Italia l’esercizio del consenso informato nella pratica clinica, fino a quel momento regolato solo dal Codice di deontologia medica e dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione. Eppure all’epoca della sua discussione in Parlamento la legge in questione è passata alla ribalta delle cronache soltanto come la legge sul “testamento biologico” o, più correttamente, sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Nonostante tanto clamore al momento della loro istituzione, di fatto ancora oggi le DAT sono poco conosciute e ancora meno utilizzate.
Per spiegare un loro impiego così ridotto non bastano solo i numerosi ostacoli materiali e organizzativi, ma vanno considerati anche aspetti di tipo culturale.
È possibile che la compilazione delle DAT sia poco diffusa per una forma di rimozione in merito a tutto ciò che concerne il fine vita: troppo lontano nel tempo per pensarci per i giovani, troppo triste per pensarci per chi è anziano o malato, come società rimandiamo o evitiamo in generale le decisioni che riguardano l’atto del morire.
La cultura occidentale contemporanea è caratterizzata da una forma di rifiuto nei confronti dell’idea della morte, un tentativo di rimozione anche fisica di quest’ultima e una sorta di vero e proprio tabù culturale. Tale processo di allontanamento della morte ha preso l’avvio all’inizio del ventesimo secolo, quando quest’ultima ha smesso di essere parte dell’esperienza di vita quotidiana e ha iniziato ad avere luogo sempre più frequentemente all’interno degli ospedali. L’allontanamento fisico della morte dalla casa agli ospedali ha così consentito una sorta di rimozione psicologica, che porta a volere tenere lontano tutto ciò che evoca la morte stessa.
La cultura occidentale contemporanea è caratterizzata da una forma di rifiuto nei confronti dell’idea della morte, un tentativo di rimozione anche fisica di quest’ultima e una sorta di vero e proprio tabù culturale.
A ciò si aggiunge il fatto che chi, già malato, dovesse scegliere di ricorrere alle DAT, potrebbe doversi confrontare con la reazione dei familiari che leggono una scelta del genere come una resa e un abbandono. Sul piano culturale infatti l’esercizio di una piena autonomia decisionale talvolta rischia di essere percepito dal contesto familiare come una sorta di individualismo troppo spinto, se non di vero e proprio egoismo. Il rifiuto di continuare a vivere a ogni costo viene quasi assimilato al suicidio, atto concepito come antisociale per eccellenza, oggetto tutt’oggi di un forte stigma.
Per affrontare tale tipo di resistenze culturali, manca però un primo fondamentale passo, che è quello dell’informazione. Come hanno dimostrato le indagini svolte ad oggi in Italia, molti medici e la maggioranza dei cittadini non conoscono le DAT. Il discorso culturale è talmente poco avanzato nel nostro Paese, che nella percezione comune e anche nella percezione del personale sanitario stesso non è ancora chiara la differenza tra interruzione dei trattamenti che mantengono in vita (ad oggi permessa in Italia in forza proprio della legge n. 219/2017) e suicidio assistito o eutanasia.
Stabilire l’esistenza di un diritto – nella fattispecie quello di redigere delle DAT – non basta, è necessaria un’informazione adeguata ai cittadini che consenta l’esercizio di quel diritto.
L’informazione non può essere solo passiva, ovvero un’informazione cui giunge chi di proposito va a cercarla, ma deve essere diffusa in modo attivo per ottenere il fine di un equo accesso alle risorse messe a disposizione. Ciò è ancor più rilevante nel caso di uno strumento come le DAT, che hanno richiesto una trasformazione della cultura e dell’etica di senso comune della nostra società: non si tratta infatti di informare il pubblico dell’esistenza di uno strumento che già conosce (non è come comunicare che è aperto un nuovo punto per l’esecuzione di tamponi gratuiti per covid o che esiste un nuovo modo per richiedere la carta di identità), ma di una fattispecie del tutto nuova, la cui nascita è stata ed è tutt’ora accompagnata da molte resistenze di tipo culturale e religioso.
Stabilire l’esistenza di un diritto – nella fattispecie quello di redigere delle DAT – non basta, è necessaria un’informazione adeguata ai cittadini che consenta l’esercizio di quel diritto.
In tale processo di informazione attiva un ruolo rilevante dovrebbe essere svolto dai medici. Eppure questi ultimi non solo conoscono poco l’argomento e non vengono adeguatamente formati, ma approcciano con difficoltà l’intero ambito del morire, che è specchio del fallimento del loro intento curativo. Un radicale cambiamento di prospettiva che porti a vedere la medicina come l’arte del prendersi cura e non solo del curare, consentirà forse di comprendere quanto rilevante sia il ruolo del medico nell’aiutare il paziente a gestire il momento del fine vita nel pieno esercizio della propria autonomia decisionale.
Lucia Craxì Bioeticista, Università degli studi di Palermo Responsabile della sezione Sicilia della Consulta di Bioetica onlus