Per una deontologia dell’incertezza
La nota di Giuseppe Parisi

Ops! Per usare il Centro di Lettura devi prima effettuare il log in!
Password dimenticata?Non hai un account? Registrati
Hai già un account? Log in
La nota di Giuseppe Parisi
Foto di paolobarzman / CC BY
La medicina è da sempre una professione che si confronta con l’incertezza – incertezza che è insita nella pratica clinica, che vi “si insinua (…) attraverso ogni suo poro” [1]. E, recentemente, la covid-19 l’ha resa più evidente [2]. Essere incerti per i medici è qualcosa di inammissibile, quasi disdicevole [3], al punto che i professionisti cadono spesso in atteggiamenti di fuga o di diniego dell’incertezza [4]. In questa nota si vuole mostrare come la consapevolezza della presenza dell’incertezza possa cambiare in meglio la pratica medica e renderla più aderente ai principi deontologici, all’interno della visione che Elisabetta Pulice ha ben illustrato nell’intervento proposto all’inizio di questa serie sulla deontologia medica oggi [5].
In un importante articolo del 2014 [6], Trisha Greenhalgh affermava che, nonostante l’applicazione della medicina basata sulle evidenze abbia contribuito al miglioramento generale della pratica e abbia cambiato il modo di pensare dei medici, spesso sono stati travisati i suoi principi: invece di utilizzare le prove di efficacia generate dalla ricerca altamente affidabile per guidare l’expertise clinica, tenendo conto dei valori del paziente, i medici preferiscono la trasposizione normativa, diretta, inflessibile e meccanica della prove di efficacia alla singola situazione. Questo utilizzo semplicistico delle prove di efficacia, da cookbook (libro di ricette), si è diffuso alle linee guida e agli strumenti di supporto alle decisioni.
Così, oltre a perdere l’atteggiamento di cura del paziente, come afferma la Greenhalgh, perdiamo anche una visione realistica del lavoro clinico cadendo in una sensazione di falsa certezza, legittimando la tendenza alla fuga o al diniego dell’incertezza. Inoltre, quel che è più grave, perdiamo l’idea della centralità del ragionamento diagnostico, il “motore clinico” [7] di cui i medici sono tanto orgogliosi, che va curato e considerato tenendo conto della sua forza e anche della sua debolezza, della fallacia che c’è sempre dietro l’angolo, della complessità che non si doma. E, in più, perdiamo altresì la libertà decisionale secondo scienza e coscienza, la presa di responsabilità sulla decisione specifica e contestuale con il singolo paziente. Così facendo il medico tende ad assimilarsi sempre più ad un rigido esecutore di linee guida ideate da qualcun altro e qualsiasi sistema di supporto decisionale computerizzato fa da padrone.
Oggi, finalmente, la comunità medica inizia a confrontarsi in modo scientifico con l’incertezza: la definisce, la concettualizza, ne studia le fonti e infine – ma principalmente – suggerisce strategie e atteggiamenti con cui affrontarla. Inoltre, se l’incertezza è costitutiva della relazione con il paziente, si pone il problema deontologico dell’onestà con cui comunicare la sua presenza al paziente.
Se l’incertezza è costitutiva della relazione con il paziente, si pone il problema deontologico dell’onestà con cui comunicare la sua presenza al paziente.
L’incertezza è stata definita come incapacità di decidere [8]. Tale incapacità di decidere può essere attribuita ai fatti e alla realtà, oppure può essere attribuita al soggetto. Di seguito, si prenderà in considerazione questa seconda accezione in cui l’incertezza è uno stato mentale della persona che, di fronte a un rischio sconosciuto, implica una consapevolezza soggettiva della propria mancanza di conoscenza (subjective perception of ignorance) senza la quale non ci si potrebbe sentire incerti. È una situazione diversa da quella del rischio conosciuto in cui si possiede la conoscenza probabilistica del verificarsi di un evento, laddove, per prendere la decisione, la logica e gli strumenti statistici sono preziosi [10, pp: 29,39,320]. Se l’incertezza attribuita al soggetto è meta-cognizione di ignoranza, essa deve essere considerata come un segnale(e non come una spiacevole sensazione da negare) di cui tenere in conto per indagare la fonte dell’incertezza stessa, in altre parole l’area in cui si situa l’assenza di conoscenza precise.
Si vuole illustrare questo processo di indagine seguendo la tassonomia concettuale di Han [9]. Il primo ordine di incertezza è quello scientifico che deriva dall’informazione con cui il professionista si confronta per prendere decisioni. L’incertezza è legata all’indeterminatezza degli eventi futuri che viene spesso espressa in termini di percentuali di probabilità, ed è quindi misurabile e utile guida al decisore ma al tempo stesso non è eliminabile, perché rimane comunque una previsione probabilistica e non deterministica [10, p. 40]. Il grado di incertezza è maggiore se queste informazioni disponibili sono ambigue, perché non sono univoche oppure perché sono inaffidabile o difficili da interpretare, e cresce ancor di più quando le informazioni sono complesse perché ci sono molteplici fattori causali, molteplici stati di eventi, molteplici esiti o interpretazioni possibili, e quando i confini tra eventi sono vaghi o essi stessi sono di difficile descrizione [9].
Un secondo ordine di incertezza è di natura pratico-organizzativo, perché qualsiasi intervento diagnostico e terapeutico non può prescindere dalla qualità del sistema sanitario in cui è inserito. E, infine, l’incertezza può derivare dalle informazioni date dal paziente stesso su sé stesso e sulla sua rete di assistenza; ciò è particolarmente rilevante nelle cure primarie, dove pressoché tutti gli interventi prendono le mosse dalla soggettività del paziente.
Le situazioni cliniche possono, quindi, essere rappresentate come costituite da un nucleo di rischio noto, aggredibile dalla conoscenza probabilistica, avvolto da una nube di incertezza [11]. Sappiamo anche che la nube di incertezza può essere, se analizzata onestamente, molto fitta o esigua, configurando situazioni molto diverse dal punto di vista clinico-pratico, in quanto se l’incertezza è alta si devono utilizzare strategie diverse, come indicato in una cospicua letteratura per la quale si rimanda ad un lavoro precedente per una trattazione completa [11].
La tassonomia dell’incertezza secondo Han |Nell’assistenza sanitaria esistono diverse forme e diversi significati di incertezza. Per avere una sorta di bussola per facilitare la gestione delle incertezze che sorgono nella pratica clinica e per valutare quanto influiscano sugli esiti, Han e colleghi propongono una tassonomia concettuale tridimensionale dell’incertezza [9].
Le tre dimensioni dell’incertezza sono:
1. la natura dell’incertezza che può essere di ordine scientifico, pratico o personale,
2. la fonte di incertezza che può essere probabilistica, oppure derivare da una condizione di ambiguità e di complessità dell’informazione,
3. il locus dell’incertezza, medico versus paziente; in ogni data circostanza clinica, l’incertezza può esistere nella mente dei pazienti, dei clinici, di entrambi o di nessuno dei due.
Si ritiene che il dovere del medico sia sempre, primariamente, esplorare il rischio noto (utilizzando anche sistemi esperti o clinical prediction rules) e valutare quanto di “certo” si ha in mano (anche se probabilistico e quindi “non certo” per il singolo paziente). Ma non ci si deve fermare qui: serve esplorare la nube di incertezza, sia per ridurla mediante ulteriori informazioni sia per tollerarla e farla tollerare al paziente in modo trasparente, utilizzando – se è la nube è fitta – strategie specifiche, nella consapevolezza dolorosa che l’incertezza è costitutiva del mondo reale.
Delle molteplici strategie per decidere nell’incertezza, qui si vogliono citare solo due strategie peculiari: il test del tempo all’interno della messa a punto di una rete protettiva [12, 13] e il processo decisionale condiviso [14]. Il test del tempo è basato sull’ipotesi che “l’attesa del verificarsi o meno di un evento possa diminuire l’incertezza esistente e portare il ragionamento del medico in un’area di maggior certezza, rendendo appropriato un invio al secondo livello di cure o l’esecuzione di ulteriori esami diagnostici” [11, p. 312]. Questo test è tipico della medicina generale in quanto setting di bassa prevalenza di malattia. È possibile effettuarlo in sicurezza se non ci sono red flag e il medico crea una buona relazione di fiducia e partenariato con il paziente, e se il medico e il suo team fanno parte di una struttura organizzata con un sistema di recezione della chiamata agile che preveda una risposta immediata e la gestione condivisa della cartella clinica.
L’altra strategia fondamentale è la condivisione del processo decisionale con il paziente [14]: nel momento in cui non esiste una opzione sicuramente migliore in cui c’è certezza di un favorevole rapporto rischi/benefici, come nelle situazioni di complessità dei pazienti anziani, le preferenze e i valori del paziente diventano criteri dirimenti l’intervento [11,15-17]. Il paziente è consulente nella decisione, e lo scopo del medico è quello di farsi aiutare dal paziente stesso, processo a ben vedere molto diverso da quello puramente informativo [18]. Qui la condivisione della decisione col paziente è non solamente un dovere etico ma anche una azione di buona metodologia clinica.
Come si può intuire da questa breve esposizione, la gestione dell’incertezza in medicina non può ridursi ad una sua ricognizione anamnestica, ma deve essere un aspetto-chiave del metodo clinico e, come tale, deve essere incorporata in tutti gli aspetti del percorso decisionale dei professionisti sanitari, elemento necessario per mettere in atto azioni appropriate. “Riconoscere l’incertezza permette, quindi, di comunicarla, di prendere decisioni più consapevoli e, in ultima analisi, di praticare una medicina più prudente e meno onnipotente” [10].
L’incertezza è costruita socialmente, esiste non solo nel medico ma anche nel paziente.
Si pongono inoltre questioni relative alla comunicazione e informazione del paziente. L’incertezza è costruita socialmente, esiste non solo nel medico ma anche nel paziente, è connessa con la capacità informativa e comunicativa del medico e sulla fiducia reciproca che si crea. Se ad esempio il medico è consapevole dell’incertezza ma non la comunica al paziente, diventa responsabile di un’azione metodologicamente errata perché il paziente non ha accesso ad un elemento di conoscenza importante per contribuite alla presa di decisione. Resta naturalmente aperta la questione se sia un’azione discutibile anche sul piano deontologico.
Le riflessioni seguenti non vogliono invadere un campo disciplinare- quello etico e deontologico- del quale non sono esperto, ma sono solo un pensiero riguardo alle conseguenze sulla pratica clinica di quanto esposto precedentemente, e gli articoli modificati del Codice Deontologico sono citati a mero titolo esemplificativo nell’intento di rendere più incisiva l’evidenza di tali conseguenze sulla pratica.
In conclusione, includere la gestione dell’incertezza nella pratica clinica in modo esplicito può cambiarla di molto e può avere delle ricadute anche sul piano deontologico. Può risultare di conseguenza corretto, dal punto di vista non solo clinico ma anche deontologico, non fare una trasposizione meccanica delle evidenze o delle linee guida o dei suggerimenti dei sistemi esperti nella situazione clinica specifica, bensì prendere in esame l’incertezza insita nella decisione e, avvalendosi del ragionamento clinico, prendere una decisione “giudiziosa” e ponderata secondo scienza e coscienza, seguendo l’articolo 13 del Codice deontologico che già considera tutto ciò e da tutto ciò ne viene corroborato. Si potrebbero anche esplicitare meglio questi aspetti, in una forma che si riporta qui a mo’ di esempio-stimolo alla riflessione (in corsivo le parole aggiunte al testo originale dell’articolo): “Il medico tiene conto delle linee guida diagnostico-terapeutiche accreditate da fonti autorevoli e indipendenti quali raccomandazioni e, senza farne una trasposizione meccanica, ne valuta il grado di incertezza e l’applicabilità al caso specifico, sempre avvalendosi del ragionamento clinico per prendere infine una decisione ponderata secondo scienza e coscienza”.
Il discorso resta comunque aperto in quanto sorgono molti interrogativi, come per esempio: in che modo comunicare l’incertezza? Quale criterio per identificare il grado di incertezza che il paziente e il medico possono sopportare? Quanto è deontologicamente corretto il grado di incertezza da sopportare e da che punto di incertezza in poi le preferenze e i valori del paziente possono diventare criteri dirimenti l’intervento medico?
A ben vedere la distinzione tra mera informazione alla persona assistita e coinvolgimento della stessa nel processo decisionale potrebbe essere un tema molto attuale nella deontologia di oggi, che porterebbe ad una maggior chiarezza di condotta nelle situazioni di alta incertezza.
Rispondere a questi interrogativi e dare una maggior attenzione a questi aspetti implica una benvenuta rivisitazione del metodo clinico e una riflessione su aspetti come l’incertezza che aprano alle questioni di relazione con il paziente ma anche interne alla professione e quindi con alta valenza deontologica.
In particolare, l’articolo 33, “Informazione e comunicazione con la persona assistita” potrebbe contenere anche un riferimento alla situazione di incertezza decisionale, e il conseguente coinvolgimento della persona assistita, nella rosa delle informazioni da comunicare. Si riporta anche in questo caso una esemplificazione di come l’articolo potrebbe apparire esplicitando questi aspetti (in corsivo le parole aggiunte al testo originale dell’articolo): “Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, sull’incertezza decisionale, se presente, nel caso in cui non esista una opzione con un migliore profilo di rapporto rischi/benefici, e il paziente abbia segnalato la sua volontà di partecipare al processo decisionale, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura”.
L’incertezza non è solo portatrice di preoccupazione ma anche di speranza.
Un’ultima osservazione: l’incertezza non è solo portatrice di preoccupazione ma anche di speranza [9]. Se è dovere del medico non “tralasciare elementi di speranza” nella comunicazione con il paziente, forse potrebbe al contempo porsi l’auspicio – a prima vista paradossale – di non tralasciare elementi di incertezza.
Giuseppe Parisi
Past president SIPeM
School of medicine and surgery
Università di Milano Bicocca
Bibliografia essenziale
Siamo arrivati al quarto numero della rivista de ilpunto.it – confronti su medicina e sanità – che oggi inviamo...
Come si compiono scelte consapevoli in scenari incerti? La nota di Marco Geddes da Filicaia sugli spazi resilienti per...
Come cambiare rotta? Al Circolo dei lettori: Roberto Mezzalama, Sandra Vernero e Paolo Vineis