Padri e figli, in guerra
Ci sono cose da dire, i padri ai figli e i figli ai padri, senza attendere domani. Di Giorgio Tamburlini, medico pediatra

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Ci sono cose da dire, i padri ai figli e i figli ai padri, senza attendere domani. Di Giorgio Tamburlini, medico pediatra
Foto di Gonzalo de Cárdenas / CC BY
Questa maledetta guerra che, a torto o a ragione, sentiamo così vicina incombe anche su queste pagine, e non potrebbe essere diversamente. Certamente, non è la prima, né la sola nel tempo presente: si combatte con ferocia in Siria, in Yemen, in Etiopia, per citare le aree di conflitto più prossime a noi. Morte, violenze di ogni tipo, distruzioni, esodi, perdita delle proprie case, famiglie, comunità. A pagare sono, sempre di più, i civili, e tra questi soprattutto gli ultimi, quelli che non hanno i mezzi per fuggire, e per sopravvivere.
Scrive Bertolt Brecht, ne La guerra che verrà: “La guerra che verrà / Non è la prima / Prima ci sono state altre guerre / Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti / Fra i vinti la povera gente faceva la fame/ Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente” [1].
Ancora più che in passato, le guerre di oggi mettono uno contro l’altro genti simili, accomunate da vicende storiche e territori di nascita. In Yemen gli sciti combattono contro i sunniti, ciascuno con una potenza alle spalle che di fatto ne fa truppe mercenarie e fratricide. In Etiopia il governo di oggi perseguita chi governava ieri, in Siria Assad ha trucidato soprattutto i suoi sudditi. Solo tre decenni fa erano gli ex-jugoslavi serbi a combattere contro ex-jugoslavi croati, bosniaci, kossovari. Gli esperti non hanno difficoltà a spiegarci le radici etniche, geopolitiche, economiche che mettono popolazioni le une contro le altre. A leggerli, pare che ci siano sempre delle ragioni storiche, che sempre si possa dire “ma certo, è per il petrolio, per l’acqua, per il controllo di questa o quell’asset strategico…”.
Ma sono in buona parte stolte razionalizzazioni di ciò che razionale non è. Senza negare le tensioni che queste competizioni per la “roba” generano, e pur nella complessità di cause e concause, il fattore decisivo, la vera radice generatrice della violenza, la pulsione che muove i cannoni appartiene, nella gran parte dei casi, a un’altra dimensione, a un’altra pulsione: la hybris piuttosto che l’avidità e il calcolo. Al sonno della ragione che si genera a poco a poco dove dominano autocrati che hanno perso il senso della realtà, che hanno cresciuto un ambiente paranoico di cui loro stessi si nutrono. E che scatenano conflitti che hanno alcune caratteristiche: quella di colpire il vicino di casa, quello con cui giocavi da piccolo, quella di ordinare violenze e distruzioni che vanno ben oltre la necessità di prevalere su un nemico, e che prima ancora che di muri e di vite vogliono distruzione di cuori. Come scrive Ungaretti in San Martino del Carso: “Nel cuore/nessuna croce manca. / È il mio cuore / il paese più straziato” [2]. Non si spiegherebbero altrimenti le atrocità a cui abbiamo assistito nella ex-Jugoslavia, in Siria, in Etiopia, ora in Ucraina, dove l’autocrate distrugge prima di tutto la terra, le genti che vuole sottomettere, ne compromette lo stesso futuro, distrugge ponti, porti, ospedali, scuole. Provoca la morte dei suoi propri sudditi, mandandoli a combattere i vicini quando non i fratelli. Anche per i sudditi dunque il nemico principale è lui, l’autocrate. Scrive ancora Brecht: “Al momento di marciare molti non sanno/che alla loro testa marcia il nemico. / La voce che li comanda / è la voce del loro nemico. / E chi parla del nemico / è lui stesso il nemico”.
Forse è questo che è cambiato, e forse è questo che si può leggere nelle guerre del nostro tempo. Se per millenni la guerra è stata il luogo dove sono stati i padri disperati a dover seppellire i figli, al contrario di quanto accade in tempo di pace (Erodoto), ora sono questi padri/padroni a uccidere su larga scala i loro propri figli, fratelli, vicini. Come nei versi di Salvatore Quasimodo in Uomo del mio tempo: “T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta / E questo sangue odora come nel giorno / quando il fratello disse all’altro fratello: / «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, / è giunta fino a te, dentro la tua giornata. / Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue/ Salite dalla terra, dimenticate i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore” [3].
Da dove nascono “la scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore”, dove si produce “quell’eco freddo, tenace”, quelle “nuvole di sangue”? Si producono in ferite antiche, in mancanze antiche – appunto, di amore – nella freddezza, nelle nuvole scure. In carezze, parole e abbracci mancati. Tra padri e figli, tra figli e padri.
Il conflitto si produce in carezze, parole e abbracci mancati tra padri e figli.
Giorgio Tamburlini
Un’ultima riflessione sulla guerra ci porta a riconsiderarne l’effetto come una forbice che si avventa improvvisamente sulla tela del tempo, sia quello passato (senza fare abbastanza…) sia quello che resta (troppo breve per fare). Seneca scriveva: “Fate presto a godere dei vostri figli e a farli godere di voi, tracannate senza indugio ogni gioia: nessuno vi assicura questa notte è un rinvio troppo lungo, nessuno quest’ora. Forse agire con chi è vicino, ma cercare di guardare lontano, per creare condizioni per la pace, come non siamo stati capace di fare abbastanza finora, è il messaggio che ci viene portato, da queste lettere e da questi versi”.
E allora si dicono le cose che non si sono mai dette, i padri ai figli e i figli ai padri. Perché non c’è più tempo per rischiare di non dirle mai [4]. Scrive Paolo Braccini, di anni 36, docente universitario, nato a Canepina (Víterbo) nel 1907, partigiano, fucilato il 5 aprile 1944 al Poligono nazionale del Martinetto in Torino, con altri sette. 3 aprile 1944:
Gianna, figlia mia adorata, è la prima ed ultima lettera che ti scrivo e scrivo a te per prima, in queste ultime ore, perché so che seguito a vivere in te. Sarò fucilato all’alba per un ideale, per una fede che tu, mia figlia, un giorno capirai appieno. Non piangere mai per la mia mancanza, come non ho mai pianto io: il tuo Babbo non morrà mai. Egli ti guarderà, ti proteggerà ugualmente: ti vorrà sempre tutto l’infinito bene che ti vuole ora e che ti ha sempre voluto fin da quando ti sentì vivere nelle viscere di tua Madre. So di non morire, anche perché la tua Mamma sarà per te anche il tuo Babbo: quel tuo Babbo al quale vuoi tanto bene, quel tuo Babbo che vuoi tutto tuo, solo per te e del quale sei tanto gelosa. Riversa su tua Madre tutto il bene che vuoi a lui: ella ti vorrà anche tutto il mio bene, ti curerà anche per me, ti coprirà dei miei baci e delle mie tenerezze. Sapessi quante cose vorrei dirti ma mentre scrivo il mio pensiero corre, galoppa nel tempo futuro che per te sarà, deve essere felice. Ma non importa che io ti dica tutto ora, te lo dirò sempre, di volta in volta, colla bocca di tua Madre nel cui cuore entrerà la mia anima intera, quando lascerà il mio cuore. Tua Madre resti sempre per te al di sopra di tutto. Vai sempre a fronte alta per la morte di tuo Padre.
Scrive Bruno Parmesan, di anni 19, meccanico tornitore, nato a Venezia nel 1925, partigiano, fucilato l’11 febbraio 1945, contro il muro di cinta del cimitero di Udine, con altri ventitré:
Caro Papà e tutti miei cari di famiglia e parenti, dalla soglia della morte vi scrivo queste mie ultime parole. Il mondo e l’intera umanità mi è stata avversa. Dio mi vuole con sé. Oggi 10 febbraio, il tribunale militare tedesco mi condanna. Strappa le mie carni di cui tu mi avevi fatto dono, perché ha sete di sangue. Muoio contento perché lassù in cielo rivedrò la mia adorata mamma. Sento che mi chiama, mi vuole vicino come una volta, per consolarmi della mia dura sorte. Non piangete per me, siate forti, ricevete con serenità queste mie parole, come io sentii la mia sentenza. Ore mi separano dalla morte, ma non ho paura perché non ho fatto del male a nessuno; la mia coscienza è tranquilla. Papà, fratelli e parenti tutti, siate orgogliosi del vostro Bruno che muore innocente per la sua terra. Vedo le mie care sorelline Ida ed Edda che leggono queste ultime mie parole: le vedo così belle come le vidi l’ultima volta, col loro dolce sorriso. Forse qualche lacrima righerà il loro volto. Dà loro coraggio, tu Guido, che sei il più vecchio. Quando finirà questa maledetta guerra che tanti lutti ha portato in tutto il mondo, se le possibilità ve lo permetteranno fate che la mia salma riposi accanto a quella della mia cara mamma. Guido abbi cura della famiglia, questo è il mio ultimo desiderio che ti chiedo sul punto di morte. Auguri a voi tutti miei cari fratelli, un buon destino e molta felicità. Perdonatemi tutti del male che ho fatto. Vi lascio mandandovi i miei più cari baci. Il vostro per sempre Bruno.
Forse ci sono cose da fare e da dire, i padri ai figli e i figli ai padri, senza attendere domani.
Giorgio Tamburlini
Medico pediatra, Centro per la salute del bambino onlus
Bibliografia
1. Le poesie di Bertolt Brecht sono pubblicate in Italia da Einaudi.
2. La poesia fa parte della raccolta Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti. Ultima edizione: Venezia, Marsilio, 1990.
3. La poesia è l’ultima della raccolta Giorno dopo giorno pubblicata per la prima volta da Mondadori nella collana “I poeti dello Specchio” nel febbraio del 1947.
4. I due testi riportati di seguito sono tratti dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. A cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli. Torino: Einaudi, 2015.
Una versione di questo post è in corso di pubblicazione sulla rivista Medico e bambino, numero 4, anno 2022.
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