A cura di Francesca Minerva
L’obiezione di coscienza in medicina è giuridicamente riconosciuta. Ma è opportuno discutere la legittimità di tale scelta morale o delle leggi che condonano tali comportamenti.
L’obiezione di coscienza e il rifiuto di obbedire a una legge che impone dei comportamenti ritenuti immorali o ingiusti da chi obietta: e quindi l’espressione di un conflitto fra norma giuridica e imperativo morale. L’origine di questo fenomeno è fatta tradizionalmente risalire ad Antigone, eroina dell’omonima tragedia sofoclea, che si rifiutò di rispettare la legge del tiranno della città Creonte, che proibiva di dare degna sepoltura a Polinice, il fratello di Antigone sconfitto in battaglia. L’espressione “obiezione di coscienza”, invece, nasce nel contesto cristiano e deriva dal latino ob-jactar, termine con cui gli scrittori del IV secolo indicavano il rifiuto dei credenti di venerare l’imperatore romano anche a costo di incorrere nelle note persecuzioni.
L’obiezione di coscienza giuridicamente riconosciuta, cioè l’obiezione secundum legem, si sostanzia in un diritto all’inosservanza di doveri giuridicamente configurati, cioè in un diritto legalmente codificato alla disobbedienza. L’obiezione di coscienza in ambito medico, come ad esempio quella dei medici all’aborto o all’eutanasia nei Paesi ove queste pratiche sono legali, e un’obiezione secundum legem.
Anche se le leggi internazionali tutelano quasi ovunque in modo più o meno ampio il diritto all’obiezione di coscienza, questo non significa che, da una prospettiva morale, non sia opportuno discutere la legittimità di tale scelta morale, o la legittimità delle leggi che condonano tali comportamenti.
La letteratura bioetica sull’argomento propone tre possibili approcci al problema, distinguendo tra:
1. un diritto assoluto all’obiezione di coscienza; 2. un diritto moderato all’obiezione di coscienza; 3. la negazione di un diritto all’obiezione di coscienza.
I sostenitori di un diritto assoluto all’obiezione di coscienza ritengono che un medico abbia il diritto di tutelare sempre e comunque la propria integrità morale, a prescindere dalle conseguenze che possono scaturire da questa scelta. I sostenitori di un diritto moderato all’obiezione di coscienza ritengono che ci sia un diritto prima facie a obiettare che debba però essere commisurato con altri diritti, come quello alla salute del paziente. Infine ci sono gli autori che negano il diritto all’obiezione di coscienza in qualsiasi caso e contesto.
L’approccio moderato all’obiezione e quello più comunemente condiviso dai bioeticisti che si sono occupati di questo argomento, ed è anche quello più comunemente rispecchiato dalle clausole di coscienza.
Gli obiettori di coscienza possono rifiutarsi di:
• informare un paziente riguardo alle terapie disponibili; • trasferire un paziente presso un collega non obiettore; • compiere in prima persona una determinata attività (prescrizione di un farmaco, esecuzione dell’aborto ecc.).
L’approccio moderato all’obiezione e quello più comunemente condiviso dai bioeticisti che si sono occupati di questo argomento, ed è anche quello più comunemente rispecchiato dalle clausole di coscienza. Il vantaggio di questo approccio è dato dal fatto che si crea un equilibrio fra il diritto del paziente di ottenere il trattamento richiesto e quello del medico a non subire una violazione della propria integrità morale. In pratica, tale soluzione funziona bene quando il numero di obiettori è contenuto e i pazienti possono essere rinviati presso un medico non obiettore in modo rapido ed efficiente. In un contesto (come quello italiano, ad esempio) in cui il numero di obiettori supera quello dei non obiettori, invece, il rinvio può essere lento e causare inefficienze nel servizio sanitario, insieme a un sovraccarico di lavoro per i medici non obiettori.
Un altro problema relativo all’approccio moderato è dato dal fatto che per alcuni medici il fatto di informare un paziente o rinviarlo presso un altro collega costituisce atto immorale che li qualifica come complici del male che il paziente vuole compiere.
Un altro problema relativo all’approccio moderato è dato dal fatto che per alcuni medici il fatto di informare un paziente o rinviarlo presso un altro collega costituisce atto immorale che li qualifica come complici del male che il paziente vuole compiere. Visto che l’approccio moderato impone sempre il dovere di informare e rinviare il paziente a un collega non obiettore, alcuni medici ritengono che tale soluzione imponga comunque una violazione della loro integrità morale, in quanto li costringe a essere complici di un comportamento non condiviso, come accade, ad esempio, con l’aborto.
Francesca Minerva Ricercatrice presso il Dipartimento di filosofia dell’Università degli studi di Milano La Statale
Questo testo è tratto dal libro Le parole della bioeticaa cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021). Per gentile concessione dell’editore.