Quando un medico perde la speranza di cambiare le sue condizioni di lavoro, rinuncia a un ruolo importante e abbandona la sua attività. Tutti parliamo di burnout, cioè di esaurimento delle capacità di fronteggiare le situazioni. È come se dicessimo: “Il medico non ce l’ha fatta, non era abbastanza forte, era debole, e forse dovrebbe essere destinato ad un lavoro più adatto a lui”.
Molti colleghi, non soltanto quelli che lavorano in pronto soccorso, sostengono a ragione che non dovremmo più usare questo termine in quanto tende a colpevolizzare i medici, come se non fossero abbastanza bravi, determinati, quando in realtà sono vittime di un sistema che procura una “moral injury”, ossia un danno morale.
Cosa significa?
Significa che il medico è costretto a lavorare in un modo che è diverso da quello che vorrebbe, perché è costretto ad accettare continui compromessi, perché ha il tempo e tutti gli strumenti e le possibilità per lavorare bene e si rende conto che non fa l’interesse del paziente e che in qualche modo tradisce la sua fiducia. Se il sistema carica il medico di lunghi compiti burocratici ma non mette a disposizione una piattaforma informatica efficiente e il medico non trova più il tempo per stare con il suo paziente, se l’ospedale non è in grado di fornirgli i posti letto necessari per svolgere il suo lavoro, il medico subisce un danno morale perché si sente partecipe di un’azione non dignitosa per l’individuo: i suoi pazienti sono ammassati in corridoio sulle barelle, e un malato in fine vita muore in pronto soccorso dietro un paravento. Se invece di visitare quattro persone all’ora gliene sono state prenotate sei, il medico sente di essere frettoloso e magari negligente, non protetto dal sistema. Con quale rischio per i pazienti? E con quale rischio per gli operatori?
Questo non è burnout. È sofferenza, è moral injury.