A cura di Carlo Alberto Defanti L’assenza irreversibile di attività cerebrale che consente di dichiarare morto il paziente anche nei casi in cui, grazie alla ventilazione meccanica, l’attività cardiaca continua.
A partire da un certo momento la medicina ufficiale ha proposto di considerare morti gli individui il cui cervello e danneggiato irreversibilmente in maniera così grave da non funzionare più, anche se – grazie alla ventilazione meccanica – il cuore continua a battere e la circolazione persiste. Quando, come e perché viene avanzata questa proposta?
Nell’agosto 1968 un comitato ad hoc dell’Università di Harvard pubblicava un rapporto che iniziava così: “Il nostro scopo primario è di definire il coma irreversibile come un nuovo criterio di morte. Ci sono due ragioni per cui c’è bisogno di una definizione:
I miglioramenti delle misure di rianimazione e di sostegno vitale hanno portato ad accrescere gli sforzi per salvare coloro che sono stati disperatamente colpiti. Talora questi sforzi hanno un successo solo parziale, cosicché il risultato è un individuo il cui cuore continua a battere, mentre il cervello è danneggiato irreversibilmente. L’onere è grande per i pazienti che hanno perso definitivamente l’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali e per coloro che abbisognano di un letto ospedaliero già occupato da questi pazienti comatosi.
Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto”.
Con esemplare franchezza il rapporto spiegava i motivi pragmatici che lo avevano animato; per capire il contesto va ricordato che solo otto mesi prima (dicembre 1967) era stato eseguito il primo trapianto cardiaco, intervento che aveva richiesto il prelievo del cuore da un paziente che versava in “coma irreversibile”. I membri del comitato da un lato volevano evitare che risorse preziose venissero sciupate proseguendo in cure inutili, dall’altro erano preoccupati del possibile contenzioso legale che il prelievo di organi avrebbe potuto far nascere. L’articolo proseguiva dettagliando i criteri clinici per la diagnosi di coma irreversibile, cioè di morte cerebrale (Mc), criteri che poi sono stati più volte aggiornati, ma sostanzialmente confermati. Sottolineando, come è stato fatto, il contesto storico, non si vuole mettere in dubbio la validità clinica (prognostica) della definizione di Mc, validità che l’esperienza di quasi cinquant’anni ha confermato (a tutt’oggi nessun individuo che rispondesse a tali criteri ha mai mostrato segni di ripresa!), ma far notare che in certo modo le urgenze pratiche del tempo avevano portato a trascurare i problemi di ordine filosofico che una nuova definizione di morte comporta.
Solo in un secondo momento si tentò un chiarimento concettuale. Una commissione presidenziale americana propose nel 1983 due argomenti a sostegno: il soggetto in Mc è morto in quanto in esso e spento l’organo critico fondamentale (il cervello), oppure in quanto in esso l’organismo (mantenuto in vita biologica dalle “macchine”) ha cessato di funzionare come un tutto. Un problema supplementare si pose negli anni Settanta quando, in base ad argomenti quali la difficoltà/impossibilità di esplorare la funzione degli emisferi cerebrali nei soggetti in coma, una commissione britannica propose di denominare la Mc “morte del tronco encefalico”, ritenendo necessaria e sufficiente la dimostrazione dell’arresto irreversibile della funzione del tronco encefalico, anziché dell’encefalo in toto come richiesto dalla proposta americana.
Ancora più recentemente sono stati avanzati ulteriori dubbi sulla possibilità di dimostrare l’arresto di tutte le attività dell’encefalo e, anzi, si è visto che in taluni casi alcune attività (peraltro marginali) di gruppi di neuroni possono persistere. In base a ciò un piccolo numero di studiosi di diversi paesi, pure convinti dell’assoluto valore prognostico dei criteri di Mc, ha proposto – al fine di rendere più chiaro e coerente il motivo che sta alla base dell’agire medico in questi casi – di rinunciare all’obiettivo (che in pratica e difficile da raggiungere) di dimostrare che ogni attività cerebrale è spenta e di considerare la Mc non come un criterio di morte già avvenuta, ma come un punto di non ritorno che giustifica sia la sospensione delle cure sia l’eventuale prelievo di organi a scopo di trapianto, qualora il paziente abbia compiuto in passato un’opzione in questo senso o per lo meno non abbia espresso un parere contrario. Questa posizione, che pure sembra a chi scrive la più coerente, non ha tuttavia incontrato per ora favore in ambito politico e non è stata accolta in alcuna legislazione. Il timore di molti, e in particolare di coloro che si dedicano alla medicina dei trapianti, è che una tale mossa teorica possa mettere in forse la fiducia del pubblico nella capacità della medicina di riconoscere la morte e di conseguenza la disponibilità a donare i propri organi in favore di altri, rendendo difficile lo svolgimento di un’attività – il trapianto d’organo – che nel tempo ha dato prova della sua straordinaria utilità ed efficacia. Il futuro dirà se la medicina saprà rinunciare a una posizione acquisita in favore di una maggiore coerenza concettuale.
Carlo Alberto Defanti Consulta di bioetica onlus Gruppo di studio di bioetica della Società italiana di neurologia