Come sta cambiando il ruolo del medico? Nel convegno organizzato dalla Commissione storica dell’OMCeO di Torino “Cento anni di codice deontologico. Passato e presente”, tenutosi a Torino il 26 e 27 maggio presso la sede dell’Ordine, si è tentato di sviscerare alcune delle principali sfide che il medico di domani si troverà ad affrontare. L’occasione era l’anniversario dei cento anni dal primo codice deontologico adottato in Italia, un codice che oggi, nonostante sia stato aggiornato nel 2014, richiede nuove modifiche, proprio per l’avanzamento che ha interessato la società negli ultimi anni, per le nuove leggi promulgate e il ruolo crescente che la tecnologia ricoprirà nei prossimi decenni.
Storia del linguaggio asimmetrico
In un vecchio aneddoto raccontato dal sofista latino Claudio Aliano su Aristotele, quest’ultimo, che era malato, si sentì impartire un ordine dal suo medico. Aristotele allora disse: “Non curarmi come un bovaro o un contadino, ma insegnami prima la causa così mi renderai pronto a obbedire”.
Secondo il Francesco Scaroina, primario emerito di Medicina interna all’Ospedale Giovanni Bosco di Torino, a cui è stato affidato l’excursus storico sul tema della comunicazione tra medico e paziente, l’aneddoto è significativo perché da lì è possibile ricavare la sintesi del pensiero storico greco a partire dal quale, poi, è originata la professione medica moderna. Innanzitutto, è importante notare come la distinzione di trattamento sottolineata da Aristotele rispecchi le differenze culturali dell’epoca. Un’epoca in cui esisteva il medico dei liberi e il medico degli schiavi. Questa distinzione, che ad oggi può sembrare anacronistica, in realtà influenza ancora il ruolo del medico come lo conosciamo oggi.
Fu Ippocrate, nel quarto secolo avanti Cristo, a fissare tale duplicità. Secondo lui, esistevano due modelli di medici. Il primo restituiva effettivamente importanza al rapporto psicologico tra medico e paziente; questo figura di medico era capace di condividere con il malato l’esperienza della malattia, ed era sostenuto dal principio di beneficialità e da un rapporto empatico. Il secondo modello, invece, descriveva un dottore autoritario, impositivo, privo di interlocuzione e paternalistico. Era il medico degli schiavi, un medico che non poteva perdersi in chiacchiere, un tiranno che escludeva la possibilità di dialogo con la clientela perché convinto che le informazioni del malato fossero false, o tuttalpiù scorrette.
Se la medicina moderna ha deciso di farsi illuminare il sentiero dal primo modello, non si può negare l’influenza riscoperta dal secondo. Con il tempo, il rapporto medico-paziente è diventato più partecipato, con quest’ultimo che ha assunto un ruolo via via più attivo e autonomo nei processi decisionali che riguardano la sua salute. Tuttavia, non sono rare consultazioni mediche in cui a prevalere è ancora il modello impositivo, in cui la conversazione è ridotta all’osso e in cui l’asimmetria della comunicazione viene accentuata.
La comunicazione sarà sempre e inevitabilmente asimmetrica. Serve lavorare per far sì che tale asimmetria si assottigli il più possibile.
È importante chiarire, secondo Scaroina, che la comunicazione sarà sempre e inevitabilmente asimmetrica. È una condizione dalla quale non ci si può svincolare. Anche Aristotele, che è stata una delle menti più brillanti, prolifiche e innovative di tutti i tempi, riconosceva di essere privo della conoscenza tecnica del suo dottore. Tuttavia, desiderava che il compito del medico non fosse soltanto prognostico, ma educativo. “Studi recenti”, ha proseguito Scaroina, “testimoniano come i pazienti si interessino all’umanità dei medici e alla loro capacità di comunicazione prima che alle loro competenze”. Ed è per questo che è importante lavorare per far sì che tale asimmetria si assottigli il più possibile.
Il consenso informato: un’indagine antropologica
Se dalla parte del sapere medico l’asimmetria non può essere annullata del tutto, i medici hanno il dovere di costruire un’alleanza con i propri pazienti valorizzando maggiormente l’attitudine al dialogo e all’ascolto. La legge 219/2017 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento ha avuto il merito di valorizzare il rapporto e il dialogo tra medico e paziente, definendo il tempo della comunicazione “tempo di cura”. Dall’altra parte, però, impegni amministrativi, carenze di fondi e carenze di personale hanno agito contemporaneamente come forza contraria, riducendo il tempo effettivo delle visite.
Si è creata una vera e propria distorsione della percezione dello strumento del consenso informato, non solo da parte dei pazienti ma anche dalla prospettiva dei medici.
Proprio al consenso informato, la ricercatrice e docente di antropologia Chiara Quagliariello ha dedicato la seconda parte della sessione sulla comunicazione medica. Quagliariello ha esposto i risultati della sua ricerca antropologica condotta sul campo tra oltre 25 ambulatori e reparti della Città della Salute e della Scienza di Torino. Stando a quanto rilevato, vi è purtroppo una scarsa implementazione della reale funzione del consenso informato, quale procedura volta all’accrescimento dell’alleanza medico-paziente. La conclusione a cui è arrivata, piuttosto, è che si è creata una vera e propria distorsione della percezione di questo strumento, non solo da parte dei pazienti ma anche dalla prospettiva dei medici.
Ciò che è emerso, ha spiegato Quagliariello, è che la messa in atto di percorsi informativi chiari ed esaustivi è limitata da diversi elementi, tra tutti: i ritmi lavorativi, la frammentazione del processo informativo connessa al sistema dei turni ospedalieri e la mancanza di spazi dedicati al dialogo. Il problema principale, tuttavia, è che gli strumenti a disposizione dei medici per la raccolta del consenso si basano sostanzialmente su modulistiche lunghe e dal linguaggio tecnico, burocratico e giurisprudenziale. La comunicazione orale, poi, diventa a sua volta oggettivizzante, svuotata nell’empatia dalla proliferazione di dati e numeri. E il medico spesso si autoassolve dal compito comunicativo delegando lo psicologo all’ascolto attivo.
Altro elemento importante rilevato, inoltre, è una diversa comunicazione in base al profilo del paziente: il suo livello di istruzione, l’appartenenza di classe, le reti di conoscenza personale, il Paese di provenienza. Tutto ciò, ha spiegato, concorre a un trattamento differenziale.
Dalla prospettiva dei pazienti, invece, Quagliariello ha dapprima evidenziato come l’interazione medico paziente non sia quasi mai una relazione a due. Piuttosto, si tratta di una relazione plurale a geometria variabile, in cui interagiscono équipe mediche e nuclei familiari. Il coinvolgimento di altri soggetti crea – invece delle alleanze medico-paziente – le alleanze medico-parente, tanto che le decisioni spesso sono di coppia, familiari, e solo raramente individuali.
I pazienti, in più, continuano a preferire un atteggiamento delegativo e di affidamento completo, piuttosto che partecipato. Le procedure di consenso informato sono considerate soprattutto come formalità amministrative, senza favorire maggiore scambio con i medici. Anzi, talvolta l’idea è che lo scopo sia quello di evitare rogne legali. Non sorprende che tale opinione sia condivisa anche dal personale medico, che considera tali procedure come imposizioni giuridiche che si accumulano ad altri impegni, e che costringono a dettagliate prove documentaristiche finalizzate a evitare questioni legali.
Secondo Quagliariello, le soluzioni non possono che essere strutturali: maggiori investimenti rivolti alla comunicazione del personale medico; un ripensamento delle condizioni materiali in cui operano i professionisti; un’implementazione del lavoro di rete tra le varie categorie; e, soprattutto, l’educazione dei pazienti al valore del consenso informato. L’alternativa, ha concluso, ci spedirà dritti verso lo stampo statunitense, in cui i soldi verranno ugualmente sborsati, ma tra assicurazioni e spese legali.