Il teatro quale spazio per gli studenti di medicina per coltivare l’ars medica. Ne parliamo con Ciro Gallo, professore emerito di statistica medica all’Università degli studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Insieme a Salvatore Cardone, regista e pedagogo teatrale, Ciro Gallo ha avviato un laboratorio teatrale aperto agli studenti di medicina finalizzato a riflettere sul valore dell’ascolto e della narrazione per favorire lo sviluppo autonomo di competenze relazionali [1-4].
Quando ha pensato di usare il teatro nella formazione dei suoi studenti di medicina?
Tardi e quasi per caso, anche se le premesse c’erano tutte: il mio amore per il teatro da un lato e la tristezza di vedere gli studenti di medicina privarsi sempre di più della capacità di vedere le persone che finiranno per curare. Le circostanze poi hanno favorito l’incontro con un amico regista, Salvatore Cardone, che si occupava di pedagogia teatrale.
Perché pensare ad un’attività teatrale nella formazione del medico?
La letteratura internazionale, ma non quella italiana, è ricca di interventi sull’uso delle arti nella formazione del medico (gli articoli su Academic Medicine o Medical Education sono numerosi). Basta leggere e si scopre un mondo. In fondo, per alcuni, la medicina è un’arte, anche se, per la mia formazione metodologica, ho sempre temuto questa definizione, per le implicazioni di soggettività e arbitrarietà che comporta.
Woolliscroft e Phillips [5] parlano di medicina come arte performativa, che, insieme a competenze tecniche, richiede creatività per una interazione efficace con la persona malata; per Case e Brauner [6] il buon medico è un “artista” (performer), che deve ogni volta entrare in risonanza con la storia e l’esperienza di una persona diversa da lei/lui [6]; per Haidet ogni incontro medico-paziente è una jam session, in cui il medico deve saper improvvisare per esplorare l’unicità della malattia di chi gli sta di fronte [7].
La conversazione (preferisco questo termine all’altro, comunicazione) tra medico e paziente richiede la disponibilità all’ascolto, non solo verbale, la capacità di comprendere il racconto, e il non detto, del malato, di diventarne in qualche modo ‘socio’ di una stessa narrazione, la consapevolezza di sé sia come attore sia come conduttore della rappresentazione, la creatività nel gestire le dinamiche ogni volta diverse della storia specifica dell’altro.
Le dinamiche cognitive ed emozionali proprie dell’esperienza teatrale possono agevolmente diventare un modello di comprensione delle dinamiche interpersonali, emotive e psicologiche che si presentano nella pratica medica. Il corpo, che è il fulcro dell’azione teatrale, è anche al centro della relazione clinica: ad un tempo oggetto e tramite del processo conoscitivo. Tutte le arti performative favoriscono la concettualizzazione degli interventi medici (i contributi a questo progetto lo testimoniano), ma il teatro prevede in più uno specifico lavoro sul corpo, oltre che sulle parole, come mezzo per comunicare: uso accorto dello spazio, controllo del gesto, identificazione chiara dell’interlocutore, ascolto attivo della risposta, contatto visivo. Tutti caratteri di una efficace azione teatrale oltre che di una pertinente relazione clinica. Ma a Medicina non si insegna il silenzio e perciò non si insegna ad ascoltare; da qui il titolo dell’esperienza teatrale che abbiamo portato avanti con i nostri studenti di Medicina: La strategia del silenzio.
Di quale teatro parla?
Parlo soprattutto di teatro fatto dagli studenti e in particolare della sua forma-laboratorio, fatto di improvvisazione, di ricerca personale e condivisa, senza una drammaturgia predefinita; non si esegue, ma si crea, con tutti gli errori del caso. Un esercizio critico in cui la reiterazione non è ripetizione, ma strumento di trasformazione e perciò di conoscenza, in cui ci si assume la responsabilità del mutamento; il processo diventa volano di consapevolezza. Il teatro trasforma chi lo fa e ne è trasformato dall’unicità di chi lo interpreta; per ognuno il teatro diventa il proprio teatro.
Autonomia, responsabilità, consapevolezza, collaborazione, rispetto, esercizio critico, fiducia: se funziona, è difficile non riconoscere la valenza etica di questo percorso; non un’etica prescrittiva, ma costruita attraverso l’esperienza. E, se mi è consentito, è questa l’intersezione con il mio essere medico che pose, molti anni fa, la metodologia della ricerca alla base delle mie scelte.
Non solo gli studenti, nella sperimentazione del laboratorio sono cambiato anch’io: ero mediatore di un percorso di crescita autonomo da parte degli studenti, in cui la formazione non era più unilaterale ma assumeva le forme di uno scambio di esperienze fra generazioni diverse. Bisogna convenire però che si tratta di un processo delicato in cui sono necessarie competenze pedagogiche specifiche sia sul piano teatrale che medico, che dialogano fra di loro al fine di costruire una strategia di apprendimento, e che il numero di partecipanti è necessariamente limitato dalle dinamiche individuali del percorso esperienziale. Devo perciò ringraziare Salvatore Cardone che ha reso possibile questa straordinaria esperienza e gli studenti partecipanti che hanno avuto così tanta fiducia in noi.
Il teatro più tradizionale può avere una funzione nella formazione del medico?
Anche se lo preferisco, il laboratorio non è l’unica forma con cui il teatro può espletare la sua valenza pedagogica. Forse la forma più comune è quella della rappresentazione teatrale di finzione, in cui vengono messe in scena opere che trattano problematiche di salute, oppure letture costruite a partire da problemi reali, con l’obiettivo di stimolare la discussione con gli studenti. Queste modalità di rappresentazione sono meno complesse sul piano organizzativo e consentono di raggiungere un maggior numero di fruitori; favoriscono la riflessione sugli aspetti emozionali ed etici della malattia e stimolano il confronto intellettuale, ma, come con il cinema, gli studenti rimangono sostanzialmente soggetti passivi della conoscenza (analogamente a una lezione frontale) e, al di là del coinvolgimento nella discussione, non c’è una loro concreta esperienza di empatia.
Mi piace invece decisamente meno la messa in scena, da parte degli studenti, di un testo predefinito, che favorisce, è vero, la collaborazione di gruppo e la capacità di ascolto, ma che si presta più facilmente all’approssimazione dilettantesca e al compiacimento narcisistico.