Luci e ombre dell’empatia nella pratica clinica
La cura richiede competenze emotive per poter andare incontro alla sofferenza del paziente senza troppa distanza difensiva. La nota di Mario Perini

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La cura richiede competenze emotive per poter andare incontro alla sofferenza del paziente senza troppa distanza difensiva. La nota di Mario Perini
All’empatia è oggi riconosciuto un ruolo rilevante nella strutturazione del rapporto tra medico e paziente. Essa è stata definita come la capacità di comprendere che cosa sta sperimentando un’altra persona dall’interno del suo sistema di riferimento, facendo in modo che essa avverta l’impegno a porsi nella sua prospettiva. Per costruire relazioni cliniche empatiche, è considerato essenziale porre a tacere commenti e ragionamenti diagnostici mentre si ascolta il paziente [1].
È ormai un’evidenza che la condotta empatica nella pratica clinica facilita la raccolta dell’anamnesi, migliorando l’attività diagnostica e le prospettive di cura, e che inoltre offre al paziente la possibilità di assumere nel rapporto con il suo medico un ruolo più autonomo, responsabile e partecipativo, aderendo alla terapia e rendendola quindi più efficace. Si instaura così più agevolmente quella che viene definita “alleanza terapeutica”, una relazione collaborativa che si genera a partire dall’esperienza di una fiducia reciproca e che influenza positivamente il decorso della cura e la salute del paziente, ma anche il benessere del medico e la sua soddisfazione lavorativa, rendendo inoltre più tollerabili, per entrambi, le situazioni di incertezza, gli inevitabili limiti ed i possibili insuccessi.
L’empatia è una competenza potenzialmente universale, che tutti sono in grado di impiegare. Sempre che per qualche motivo non pongano delle barriere capaci di disattivarla.
L’empatia non è solo un atteggiamento emotivo o una filosofia di lavoro del medico, oggi sappiamo che ha delle documentate basi neurofisiologiche, che fondano la capacità di ascolto e di identificazione con l’altro – in questo caso con il paziente – sulle funzioni svolte dai neuroni specchio [2]; dunque si tratta di una competenza potenzialmente universale, che tutti sono in grado di impiegare. Sempre che, per qualche motivo, non pongano delle barriere capaci di disattivarla.
Già, perché quei neuroni sono programmati per “dire” alla persona che ci è vicina (e dunque implicitamente anche a noi) “so quel che provi”, e lo sanno perché si tratta di situazioni che noi abbiamo realmente vissuto – e che potrebbero ripresentarsi – oppure di qualcosa a cui con molto timore ci immaginiamo di poter andare incontro. Se pensiamo al lavoro del medico (o di qualunque altro operatore sanitario), non può sorprendere che tutte le relazioni di cura siano esposte a queste paure, al rischio di “mettersi nei panni del paziente”, e tanto più quanto più siano ispirate dall’empatia, che ne determina il carattere di prossimità, continuità, disponibilità all’ascolto e identificazione.
I ruoli delle professioni sanitarie – quello del medico in particolare – sono ampiamente corazzati contro questi rischi, perché la malattia (con le sue componenti di dolore, ansia, disabilità, rabbia e vergogna) sta tutta dal lato del paziente e in fondo non riguarda il curante se non come oggetto della sua azione terapeutica. E se non bastano queste “protezioni di ruolo” ci sono sempre le difese erette dalle varie occasioni di “distanziamento”, come la sterilizzazione emotiva dei rapporti, l’enfasi sulla patologia invece che sulla persona o la riduzione del compito di cura all’uso dei protocolli e delle tecnologie sanitarie. Il tutto a spese dell’empatia e quindi, come abbiamo visto, in qualche misura anche dell’efficacia delle cure.
L’umanizzazione della medicina è uno sviluppo eticamente doveroso e anche scientificamente necessario.
Queste considerazioni dovrebbero convincerci che l’umanizzazione della medicina sia uno sviluppo eticamente doveroso e anche scientificamente necessario. Ma non sempre ciò che è umano è positivo, e certo non militano a favore delle relazioni di cura sentimenti come la paura, la rabbia, l’impotenza, la vergogna o la negazione della realtà. Sono queste le emozioni a cui vanno più spesso incontro i medici e gli altri curanti quando un’empatia senza cautele li espone troppo a lungo e troppo da vicino alle sofferenze e alle angosce dei loro pazienti, oppure quando crollano le difese tradizionali basate sulla “disumanizzazione”. Se a questi “effetti collaterali” dell’empatia – che rimane comunque un ottimo farmaco per la funzione curante – aggiungiamo quelli tossici che provengono dal superlavoro e dalla disorganizzazione, dalle attese irrealistiche dell’utenza, dalla carenza di protezione e di sostegno da parte delle istituzioni sanitarie (e in parte anche dalla scarsa cura di sé e dalla tradizionale cultura del sacrificio e dell’onnipotenza terapeutica che affligge i curanti, primi tra tutti i medici) abbiamo come risultati inevitabili lo stress e il burnout. Di qui scaturisce la maggior parte delle criticità che indeboliscono il sistema sanitario e i suoi professionisti, dai conflitti cronici alle dimissioni premature, dalla medicina difensiva agli errori e agli incidenti clinici, dalle difficoltà di reclutamento dei sanitari al caos nei pronto soccorso, e da tutto ciò, nell’esperienza soggettiva dei curanti, sempre più ansia, fatica, rabbia e malessere.
Il compito di cura espone gli operatori a una serie di tensioni e di conflitti:
1. con i pazienti e il loro entourage (familiari, caregiver)
2. con i capi, i colleghi o i collaboratori
3. nel lavoro di gruppo, tra individuo e gruppo, tra identità e appartenenza
4. tra le diverse professioni sanitarie
5. con le istituzioni, l’amministrazione, le norme, le procedure e le politiche
6. con le nuove tecnologie della sanità digitale.
La conclusione è che la cura delle persone richiede ai curanti non solo competenze tecniche ma anche rilevanti capacità emotive e relazionali, per poter andare incontro alla sofferenza del paziente senza troppa distanza difensiva – distanza che li priverebbe della dose di empatia necessaria a svolgere il compito di cura – ma senza farsene contagiare fino a bruciarsi. È il rischio del burnout, che preferirei chiamare come molti autori inglesi la compassion fatigue, la fatica della compassione o, se vogliamo, la “fatica della cura” [3].
La cura delle persone richiede ai curanti non solo competenze tecniche ma anche rilevanti capacità emotive e relazionali.
Per scongiurare questi rischi, o almeno ridurli, esistono solo due tipi di rimedi efficaci: prima di tutto dei dispositivi stabili di supporto psicologico di gruppo destinati a tutti gli operatori sanitari (come i gruppi di intervisione tra pari o i gruppi Balint) per aiutarli a riconoscere, mettere in parole, condividere ed affrontare le situazioni faticose e le emozioni difficili legate al compito di cura; e inoltre una riorganizzazione del lavoro che lo renda meno stressante e più appagante, nella consapevolezza che chi sta male lavora male e che il benessere dei curanti è la migliore garanzia per la qualità delle cure.
L’intervisione guidata contro la “fatica della cura” | Il termine compassion fatigue è stato introdotto ufficialmente nell’Oxford English dictionary nel 2002. Descrive quella condizione psicologica di profonda stanchezza emotiva e fisica, conseguente all’interiorizzazione delle emozioni di dolore e di sofferenza della persona assistita. Riguarda tutti gli operatori sanitari, e anche assistenti sociali e caregiver. Per prevenire o gestire il rischio di “fatica della cura” per l’operatore (e di conseguenza l’efficienza nelle cure fornite) è importante un ambiente di lavoro adeguato e ottimale, oltre a interventi mirati di supporto psicologico. L’intervisione è un metodo di peer-support psicologico di gruppo rivolto ai professionisti della salute e dell’assistenza psico-sociale operanti sul territorio o nelle istituzioni, avente la potenzialità di mobilizzare nel gruppo un clima di apprendimento cooperativo capace di offrire valide strategie di ricerca e di intervento sui casi in carico e sulle situazioni di criticità, oltre che di promuovere un accrescimento dell’esperienza e una crescita professionale e personale. Il punto cruciale dell’intervisione guidata è proprio la presenza di diverse prospettive (teorico-tecniche, professionali, generazionali ecc.), che possono permettere di guardare un “caso” anche con gli occhi degli altri. Come diceva Christina Maslach, psicologa sociale della University of California, Berkeley, nota per le sue ricerche sul burnout professionale, “un grammo di prevenzione vale quanto mezzo chilo di cura”.
Mario Perini
Medico psichiatra
Commissione sul disagio professionale del medico, OMCeO Torino
Bibliografia
1. Marotta T. L’empatia: ci interessa? Geriatria Extraospedaliera 2012; 8:15-8.
2. Rizzolatti G, Sinigaglia C. So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano: Raffaello Cortina, 2006.
3. Maslach C. Burnout: The Cost of Caring. New York: Prentice Hall Press 1982 (tr.it. La sindrome del burnout. Il prezzo dell’aiuto agli altri. Assisi: Cittadella Editrice, 1992)
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