L’invasione dell’Iraq vent’anni dopo
Le questioni etiche e i dilemmi della professione medicina: la nota di Pirous Fateh-Moghadam

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Le questioni etiche e i dilemmi della professione medicina: la nota di Pirous Fateh-Moghadam
La seconda guerra del Golfo inizia il 20 marzo 2003 con l’invasione dell’Iraq da parte delle forze armate statunitensi e britanniche e viene dichiarata conclusa il 1 maggio 2003 dal presidente Bush (“mission accomplished”). Contrariamente alle aspettative continuò poi per ulteriori 8 anni, fino al ritiro delle truppe avvenuto alla fine del 2011. L’invasione dell’Iraq con l’obiettivo del cambio di regime viene definita dalla propaganda bellicista una guerra “preventiva”, per eliminare un pericolo mondiale imminente e mortale, rappresentato dal dittatore iracheno Saddam Hussein accusato di essere in possesso di armi di distruzione di massa.
Per diversi mesi dell’inverno 2002/2003 gli ispettori delle Nazioni Unite, guidati da Hans Blix, erano andati sul territorio iracheno alla ricerca di prove per documentare l’esistenza di tali armi, seguendo le indicazioni dei servizi segreti Usa e UK, senza mai avere trovato alcuna evidenza concreta. Le uniche “prove” (ritenute insufficienti anche dai suoi più stretti collaboratori, come emergerà più tardi [1]) vengono esposte da Colin Powell in un celebre discorso tenuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003 a New York.
Dopo poco più di un mese da questo discorso e senza avallo delle Nazioni Unite, iniziava quindi l’invasione dell’Iraq, in violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite. Una guerra che avrebbe devastato il Paese e provocato molte decine di migliaia di morti. Sul Lancet, in un articolo in occasione dell’anniversario, si fa osservare che nelle prime fasi del conflitto il 12 per cento degli ospedali sia stato distrutto, come la successiva insurrezione ha agevolato l’ascesa dell’Isis e che durante la guerra civile numerosi medici, in costante timore per la loro sicurezza, sono fuggiti dal Paese. Oggi la sanità irachena si trova in una situazione di privatizzazione selvaggia e la corruzione dilaga insieme ai farmaci di contrabbando [2]. Come è noto l’Italia fornì l’appoggio politico e logistico alle operazioni militari e partecipò poi all’occupazione militare dell’Iraq inviando oltre 3000 carabinieri a Nassiriya, città da cui non tutti i soldati italiani sarebbero tornati vivi.
Nelle prime fasi della guerra in Iraq il 12 per cento degli ospedali era stato distrutto. Durante la guerra civile numerosi medici, in costante timore per la loro sicurezza, sono fuggiti dal Paese.
Le presunte prove del possesso di armi di distruzione di massa si dimostreranno del tutto infondate, se non inventate di sana pianta, ma anche l’evidenza e la consapevolezza della falsità delle prove non provocheranno ripensamenti o riflessioni critiche tra chi nel dibattito pubblico aveva appoggiato la causa bellicista. Si è tentati di dare ragione a Franco Fortini [3] quando scriveva nel 1967: “Quello che conta [nella propaganda] è, come in guerra, non mancare il primo colpo, impegnare in una direzione. La gente non ama ricredersi. Quando dovrà farlo, lo farà in segreto. La certezza dell’inganno si muterà in cinismo. Guadagno per la causa della conservazione. Gli indifferenti sono i suoi più certi alleati”.
Nel febbraio del 2003, un mese prima dell’inizio della guerra, Angelo Stefanini, medico di sanità pubblica e professore dell’Università di Bologna, aveva raccolto oltre 1400 adesioni ad un appello di “medici contro la guerra”, successivamente inoltrato al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel tentativo di illustrare le ragioni etico-sanitarie dell’opposizione alla guerra [4].
Nell’appello si legge: “È indubbio che la guerra sia un problema di salute pubblica. In qualità di medici abbiamo non soltanto il dovere di prenderci cura delle vittime della violenza e dei conflitti armati, ma anche di cercare di prevenirli. (…) Convinti che la guerra avrebbe conseguenze disastrose per la salute umana nel breve, medio e lungo termine e che si debba fare uso di mezzi politici e diplomatici per evitarla, ci opponiamo all’intervento militare in Iraq. Poiché la nostra opposizione si fonda su argomenti esclusivamente etici, umanitari e professionali, facciamo appello a tutte le forze politiche e della società civile affinché venga impedito un conflitto armato che avrebbe effetti catastrofici per la famiglia umana”.
Un simile appello, al governo britannico, era stato firmato da studenti e dipendenti della London school of hygiene, pubblicato dal British Medical Journal [5] e ripreso anche dal Lancet [6]. Anche i colleghi britannici sono convinti che “ulteriori atti di violenza possano essere evitati da una governance internazionale e locale che si dimostri pacifica ed etica. Per queste ragioni ci opponiamo all’intervento militare in Iraq. Ci auguriamo che questa lettera contribuisca a una discussione informata tra i membri del governo e l’opinione pubblica”.
Nella risposta del governo italiano alla lettera dei medici, affidata al senatore Tomassini (un medico) della Commissione Igiene e sanità del Senato della Repubblica, i firmatari dell’appello vengono accusati di voler “far passare per scientifica una mozione di matrice politica”, un atteggiamento considerato improprio per il mondo scientifico che invece viene invitato a “mantenersi estraneo a problemi che per la loro valenza non possono che essere affrontati dai supremi organi elettivi del nostro Paese ai quali ci rimettiamo con la piena fiducia che ogni cittadino dovrebbe avere nei riguardi delle istituzioni”.
La guerra è sempre una catastrofe di sanità pubblica. Ci possono essere motivazioni politiche o economiche, di potere geopolitico a favore della partecipazione a una guerra ma, date le caratteristiche delle guerre moderne, mai una ragione sanitaria o umanitaria.
Negli Stati Uniti, l’Associazione americana di sanità pubblica (Apha) si era opposta alla guerra e si era avviato un dibattito sulle contraddizioni tra funzioni e obblighi che un medico ha normalmente nei confronti dei suoi pazienti e le attività dei medici militari in Iraq o a Guantanamo. Per alcuni nel contesto della “lotta al terrorismo” il medico è chiamato a difendere in primo luogo la nazione e non più il diritto alla salute dei suoi assistiti. Pertanto il personale medico può partecipare attivamente nella definizione delle modalità degli interrogatori, che notoriamente hanno confini molto sfumati verso pratiche di vera e propria tortura, come la deprivazione di sonno, di cibo, l’isolamento totale sensorio, l’alterazione della temperatura ambientale, l’imposizione di posizioni corporee “stressanti” [7], per non parlare del famigerato waterboarding.
Invece per Robert Jay Lifton, medico militare americano in Giappone e Corea e celebre studioso della medicina del Terzo Reich, la partecipazione di medici a queste pratiche (anche solo attraverso la cura di un paziente torturato senza porre denuncia, oppure segnalando particolari problemi di salute fisica e mentale alle strutture di comando, che possono usare tali conoscenze durante gli interrogatori) non è solo condannabile di per sé, ma è anche fondamentale per l’accettazione più ampia di tali pratiche, contribuendo in questo modo alla creazione di un contesto in cui diviene quasi “naturale” commettere terribili atrocità (“atrocity-producing situation”) come quelle di cui si sono resi colpevoli i militari statunitensi nel carcere iracheno di Abu Ghraib [8].
Un altro problema di etica medica collegato al ruolo delle professioni sanitarie, evidenziato da Atul Gawande sulle pagine del New England Journal of Medicine, era collegato alla trasformazione da una guerra di movimento (che ha visto l’impiego di ospedali da campo super-attrezzati trasportabili su poche camionette) in una guerra di posizione, che ha comportato l’istituzione di piccoli ospedali stabili. A tali ospedali cercava di rivolgersi anche la popolazione irachena (soprattutto per problemi di natura pediatrica) che però spesso veniva respinta per paura di possibili attentati, ponendo ai medici un grave dilemma etico [9].
Tornando in conclusione alle argomentazioni del senatore Tomassini, credo che possano essere facilmente ribaltate. La guerra è sempre una catastrofe di sanità pubblica. Ci possono essere motivazioni politiche o economiche, di potere geopolitico a favore della partecipazione a una guerra ma, date le caratteristiche delle guerre moderne, mai una ragione sanitaria o umanitaria. Quindi quando operatrici e operatori sanitari si oppongono alla guerra, cercano di fermarla o prevenirla, fanno solo il proprio mestiere. È paradossale che a loro venga rivolta l’accusa di strumentalizzare politicamente la propria professione.
Massimo rispetto, riconoscimento e solidarietà va quindi anche agli oltre 15.000 medici russi che nel periodo immediatamente successivo all’invasione dell’Ucraina hanno firmato una lettera al loro presidente a favore della pace: “La nostra missione è salvare vite umane”, si legge nella lettera. “In questo momento difficile per entrambi i Paesi, chiediamo l’immediata cessazione delle ostilità e la risoluzione di tutte le questioni politiche esclusivamente con mezzi pacifici” [10].
Pirous Fateh-Moghadam
Responsabile Osservatorio epidemiologico
Dipartimento di prevenzione
Azienda provinciale per i servizi sanitari
Provincia autonoma Trento
Bibliografia
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