L’etica nella clinica per i piccoli pazienti e le loro famiglie
L’utilità dei comitati etici per la pratica clinica pediatrica: Caterina Ugolini e Camillo Barbisan

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L’utilità dei comitati etici per la pratica clinica pediatrica: Caterina Ugolini e Camillo Barbisan
Rappresenta un’urgenza dei nostri giorni prendere atto dell’avanzamento impressionante compiuto dalla tecnica e, all’interno di questo suo costante evolversi, delle implicazioni che derivano dalla sua applicazione in ambito medico. Non è una novità sottolineare le molteplici innovazioni informatiche, robotiche, ingegneristiche, così come i benefici, talvolta salvifici, da queste derivanti. È però altrettanto importante non tralasciare un lato ben specifico del loro decorso e utilizzo, ovvero quali possano essere le implicazioni etiche che ne derivano tanto sulla vita dei singoli quanto a livello sociale e comunitario, culturale e professionale.
La pratica clinica si è sempre dovuta confrontare con la complessità della vita umana, delle numerose ed eterogenee forme e dimensioni della sofferenza e, parallelamente, della sua cura, producendo riflessioni altrettanto complesse su quali siano le azioni migliori per il raggiungimento di un reale benessere del paziente e su cosa si intenda con “reale benessere” a seconda delle specifiche, peculiari circostanze. Di fatto, tra le conseguenze che maggiormente discendono dalle multiformi novità tecnico-scientifiche troviamo un prolungamento della vita oltre i suoi limiti naturali, dunque un prolungamento anche delle condizioni di malattia cronica e di fragilità del paziente, parallelamente a un incremento della complessità nella cura di quest’ultimo. Il processo di medicalizzazione della vita sta diffondendosi sempre più in ambiti che precedentemente non gli appartenevano, e la speranza di trovare una soluzione ad ogni possibile necessità sta consolidando una rinnovata difficoltà nell’accettazione della morte e delle circostanze esistenziali caratterizzate da finitudine, così come nei significati collettivamente attribuiti a tali circostanze.
Ma altri processi sono avvenuti negli ultimi anni: il rapporto medico-paziente ha gradualmente assunto una forma deliberativa, nella quale si riconosce l’autonomia decisionale del secondo sulla base di un supporto attivo alla decisione proveniente dal primo – in un’ottica di dialogo e rispetto dei reciproci valori – sottolineando così la centralità della persona, delle sue peculiarità e bisogni, ma anche della qualità della comunicazione da parte dei sanitari e di un vero rapporto di fiducia e coinvolgimento.
In tale direzione si è mossa la legge 219/2017, la quale sottolinea la centralità di questi elementi all’interno di un’effettiva relazione di cura e di un pieno rispetto dell’autonomia del paziente, garantito da strumenti quali il consenso informato, le DAT e la pianificazione condivisa delle cure. È ben comprensibile quindi come i professionisti sanitari dediti, a più livelli, alla cura – pratica di per sé intrinsecamente ricca di dilemmi umani e morali – dinanzi e in conseguenza del mutato scenario medico e sociale si trovino ulteriormente posti difronte a interrogativi dal carattere profondamente bioetico, rispetto ai quali non devono essere abbandonati. I comitati per l’etica nella pratica clinica costituiscono in tal senso uno strumento consultivo eccezionale per permettere di stabilire un dialogo e un confronto interdisciplinare concreto dinanzi alla delicatezza di determinate situazioni cliniche e al presentarsi di profondi dilemmi.
Quanto finora detto ricopre, se possibile, un ruolo ancora più delicato quando la pratica clinica si rivolge a soggetti pediatrici. Questo non soltanto per le caratteristiche e necessità proprie di questi pazienti in fase evolutiva e, conseguentemente, delle competenze che devono essere possedute da un’équipe medica non interscambiabile con quella dell’adulto, ma anche affinché possa crearsi uno spazio che tenga in considerazione il punto di vista del paziente considerandolo non solo come soggetto passivo incapace di prendere parte alle decisioni che lo riguardano. Quest’ultima costituisce una delle ragioni dell’importanza del coinvolgimento e riconoscimento dei comitati per l’etica nella clinica pediatrici nella pratica quotidiana: giuridicamente, infatti, il minore è considerato non in grado di decidere autonomamente, e la decisione è rimessa totalmente ai genitori o colui che ne rappresenta il tutore legale.
L’adozione del solo presupposto del criterio anagrafico – dunque del possesso da parte del paziente della maggiore età – per il suo coinvolgimento all’interno di questioni così intimamente private e decisive che direttamente lo riguardano rappresenta un limite di non poco conto per diverse motivazioni. Di fatto nei reparti pediatrici possono trovarsi anche pazienti che, a causa di malattie croniche, raggiungono la maggiore età pur rimanendo a carico della pediatria, data la fidelizzazione sviluppatasi verso il reparto e funzionale alle cure, la stabilità in esso raggiunta e le competenze possedute dai curanti che hanno seguito l’evolversi della diagnosi così come della terapia. Al contempo sono rintracciabili pazienti pediatrici che, sebbene non ancora maggiorenni, mostrano di aver raggiunto una maturità psicologica decisamente superiore rispetto a quanto atteso nella loro fase di sviluppo e in base all’età anagrafica posseduta. In entrambi i casi può risultare cruciale chiedersi se sia giusto continuare a considerare del tutto evitabile il volere espresso dal paziente in questione, nonostante si situi in un reparto nel quale le decisioni vengono normalmente demandate ai rappresentanti legali di quest’ultimo e al loro confronto con gli operatori. Lo stesso articolo 3 della legge 219/2017, infatti, sostiene fortemente il coinvolgimento del minore nella scelta, mediante le seguenti parole: “il minore (…) deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messo nelle condizioni di esprimere la sua volontà”.
La prospettiva del minore necessita quindi di essere presa in considerazione per poter pienamente raggiungere una comprensione di quale possa essere il suo migliore ed effettivo interesse.
Coinvolgere, con modalità calibrate sulle capacità di comprensione del singolo, il paziente pediatrico nelle scelte che lo riguardano permette, inoltre, di incrementarne il senso di agentività e protagonismo rispetto al percorso di cura e alle modalità con le quali esso viene affrontato, apportando benefici alla comunicazione intrapresa tra i genitori ed il paziente, e tra questi ultimi e i curanti. È possibile in tal modo fornire un aiuto anche al superamento del timore che spesso si associa all’idea di un dialogo sincero con i minori circa tematiche sensibili e, talvolta, drammatiche, ma non per questo meno presenti nei loro interrogativi.
La prospettiva del minore necessita quindi di essere presa in considerazione per poter pienamente raggiungere una comprensione di quale possa essere il suo migliore ed effettivo interesse, per poter porre in atto un reale supporto da parte dei professionisti e dei familiari che lo circondano e detengono un ruolo legalmente attivo. Infine, l’opportunità di dialogo e confronto offerta dai comitati etici per la pratica clinica contribuisce a un ulteriore obiettivo fondamentale, partecipando al processo di de-stigmatizzazione della riflessione etica e della condivisione di quei dubbi più profondamente umani e morali che prendono vita dalla pratica quotidiana, e che possono permanere negli animi di qualsiasi operatore debba rapportarsi con l’essere umano che si trova dinanzi e la vita che viene a lui affidata. Il dilemma etico non è e non deve essere visto come crepa del sistema organizzativo in cui si inserisce, né tanto meno debolezza del singolo da reprimere. Esso rappresenta, invece, indice del fatto che quello che sta prendendo atto tra operatori e pazienti è un vero rapporto di cura e, in quanto tale, naturalmente non esente da un carico di riflessioni circa le modalità, necessità e implicazioni che porta con sé, a maggior ragione dal momento in cui il soggetto di tale cura è una persona nella sua complessità, e la sua presa in carico parte di una cura globale che si estende oltre la dimensione prettamente organica, coinvolgendo l’intera esistenza del paziente così come di coloro che gli stanno a fianco. Una cura che rimarrebbe lesa qualora tali dubbi venissero repressi anziché vissuti costruttivamente tra le parti coinvolte, per un arricchimento reciproco che nasce dalla pratica e contribuisce alla stessa.
Affinché le parole sinora trascritte possano assumere una loro concretezza, riportiamo la storia di Matteo (nome di fantasia), presentata negli ultimi anni al Comitato per l’etica nella pratica clinica. Nato a seguito di una gravidanza normodecorsa, al momento della nascita Matteo risulta inaspettatamente apnoico, atonico e cianotico, condizione che lascerà, nonostante le manovre salvavita praticate, una gravissima compromissione neurologica, con un’incapacità di respirazione volontaria che lo vedrà vincolato a ventilazione artificiale e nutrizione tramite sondino. All’équipe la prognosi infausta fa ritenere sproporzionate e vicine all’accanimento terapeutico tutte quelle manovre, quale l’intubazione tracheale, volte a mantenere la sopravvivenza del paziente. I genitori, mostratisi concordi in sede di colloquio, richiedono poi, invece, che venga fatto quanto necessario al mantenimento in vita di Matteo, non riuscendo ad accettare la prognosi prevista dall’équipe di curanti. È a questo punto che è pervenuto il consulto al Comitato da parte dei professionisti, i quali si vedevano divisi tra chi reputava sproporzionati e inaccettabili ulteriori interventi sul bambino e chi, invece, credeva corretto seguire la volontà genitoriale attuando tutto il necessario. Veniva quindi chiesto se fosse preferibile assecondare la decisione volta a quello che era ritenuto il bene maggiore del paziente oppure le richieste dei genitori, e quale fosse la via comunicativa migliore per non far sentire responsabilizzati unicamente questi ultimi per le scelte riguardanti la vita del piccolo.
Il Comitato, dopo un lungo confronto, si è mostrato concorde rispetto al giudizio di non appropriatezza delle terapie che, dinanzi alla condizione clinica inguaribile con esito infausto reputato certo, sarebbero state volte al mero mantenimento in vita di Matteo e non a una tutela della sua reale qualità di vita. È stato quindi proposto di pianificare un accompagnamento del paziente, evitando procedure invasive e ricordando la centralità del limite posto dalla proporzionalità delle cure, in linea anche con i principi sottolineati dalla legge 219/2017. Al contempo, però, il Comitato ha evidenziato come sia altrettanto importante non dimenticare il punto di vista e il sentire dei genitori, che devono essere accompagnati dalla figura dello psicologo quale parte integrante dell’équipe nel concorrere a una valutazione globale del contesto in cui maturano le decisioni e a una comunicazione realmente vicina a ogni soggetto coinvolto. Il contributo consultivo del Comitato lascia intravedere quanto possa essere utile un confronto tra prospettive e competenze diverse, affinché ci si possa avvicinare a una visione il più possibile completa e approfondita del miglior percorso terapeutico per il bambino, accogliendo le fondamentali posizioni di medici e genitori ma non limitandosi unicamente ad esse. Tanti possono infatti essere i fattori di sofferenza e speranza che in simili momenti influenzano le posizioni di chi è coinvolto, e un confronto tra figure e prospettive differenti può talvolta essere quello stimolo necessario a valutare con occhi diversi opzioni che prima potevano sembrare distanti o infattibili. Con la consapevolezza che, qualunque sia la strada percorribile, o decisa di intraprendere, le parti in causa non dovranno sentirsi lasciate sole.
Qualunque sia la risposta migliore per la singola, irripetibile storia di vita, accompagnarsi reciprocamente in questo cammino rimane il regalo più grande che ci si possa fare, come esseri umani prima ancora che in veste di professionisti o pazienti.
Concludo ricordando la storia di Laura (nome di fantasia), a cui è stata diagnosticata una leucemia acuta all’età di dodici anni. Dopo qualche anno, ormai quindicenne, Laura si aggrava a causa di un’infezione che la porta in stato di shock, venendo sottoposta a emodialisi, trasfusione e ventilazione continua. Purtroppo, le sue estremità vanno in necrosi. Una ripresa del quadro clinico apre la discussione tra i curanti circa il procedere o meno alla loro progressiva amputazione, con il supporto della madre che chiede che venga fatto quanto possibile. Dopo una prima decisione a favore dell’operazione, l’andamento discontinuo del quadro clinico di Laura rende nuovamente necessaria la discussione. Nel mentre, però, le condizioni della ragazza si aggravano al punto che i medici decretano l’impossibilità a procedere, e lei stessa esprime alla mamma il desiderio di non insistere oltre. La notte stessa Laura muore.
Non potremo mai sapere quale sarebbe stato il parere del Comitato in merito, poiché il caso non fece in tempo ad essergli sottoposto. Resta però da interrogarci su quale sia il limite, dinanzi all’espressione di un dolore così straziante e di una consapevolezza reale della paziente che lo vive, tra l’affidarci alle possibilità e al tempo che la tecnica può forse ancora regalarci e l’affidarsi, invece, al decorso che la natura avrebbe autonomamente previsto.
Qualunque sia la risposta migliore per la singola, irripetibile storia di vita, accompagnarsi reciprocamente in questo cammino rimane il regalo più grande che ci si possa fare, come esseri umani prima ancora che in veste di professionisti o pazienti.
Caterina Ugolini
Psicologa
Uditrice del Centro per l’etica nella pratica clinica ediatrica dell’Azienda ospedale-università Padova
Camillo Barbisan
Bioeticista
Responsabile del servizio di bioetica
Direzione sanitaria dell’Azienda ospedale-università Padova
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A cura di Demetrio Neri.
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