Prima di accingersi alla lodevole impresa di mettere mano a una revisione del codice deontologico può essere utile una battuta d’arresto, accompagnata da una domanda: nel tempo che abbiamo alle spalle la deontologia è stata valorizzata, attribuendole il ruolo che le spetta? L’attenzione non le è mancata: considerando le frequenti riscritture del codice dei medici, avvenute negli anni recenti, con cambi di regole anche di 180 gradi, non possiamo dire che la deontologia sia stata ignorata. Tuttavia dobbiamo riconoscere che è stata danneggiata dal fatto che le regole che propone si collocano tra due altri sistemi, che tendono a monopolizzare l’interesse: la legge e l’etica. Le norme giuridiche circoscrivono il campo della legalità, quelle etiche si focalizzano su ciò che è buono e giusto; l’etica è capace di accendere dibattiti ideologici appassionati (basti pensare al fine vita e agli interventi possibili nello scenario della vita nascente), mentre determinare il confine della legalità conferisce sicurezza all’operato del medico. La deontologia, in mezzo, rischia di essere messa in ombra. È necessario giustificare la sua funzionalità.
Nel tempo che abbiamo alle spalle la deontologia è stata valorizzata, attribuendole il ruolo che le spetta?
La condizione svantaggiata della deontologia assomiglia a quella che Charles Péguy nel poema Il portico della seconda virtù attribuisce alla speranza, schiacciata tra le due sorelle maggiori: la fede e la carità. Si tende a credere che siano le due grandi a portare dietro la piccola per mano. “Ciechi che sono a non vedere invece che è lei al centro a spingere le due sorelle maggiori”, commenta il poeta. Per quanto sia estraneo il contesto di riferimento, l’immagine sembra fotografare il ruolo della deontologia: benché oscurata dalla legge e dall’etica, ha un ruolo determinante nella cura. Il suo compito è infatti quello di circoscrivere il profilo del professionista, in quanto si distacca dal senso comune e dai comportamenti spontanei che mettiamo in atto nella vita sociale. È la deontologia che fa di un curante, qualunque siano le sue motivazioni, un professionista della cura. I comportamenti che abitualmente ci guidano (“Prima i nostri e poi gli altri”; la distinzione amico/nemico, intimo/estraneo; la vicinanza con le persone delle quali condividiamo i valori e l’evitamento di quelle che ci ripugnano…) sono banditi dalla relazione di cura. Ancor più, chi eroga cure sanitarie è chiamato a ignorare il profilo biografico di coloro che le cure le ricevono: la persona meritevole come la più indegna, quella grata come quella ostile sono ugualmente titolari di cure. Anche se ci trovassimo nei territori descritti da David Foster Wallace in Brevi biografie di uomini schifosi (Einaudi 2007), le esigenze di cura non cambierebbero. Il paradosso è che, mentre l’etica – in particolare sotto la spinta delle Medical Humanities – ci chiede la “personalizzazione” delle cure, la deontologia si muove in senso contrario. La buona medicina richiede una cura che ambisce a presentarsi non come una semplice riparazione, ma come un progetto “sartoriale”, finalizzato a confezionare un abito su misura per ciascuna persona; la deontologia esige invece di ignorare la biografia negli aspetti che hanno a che fare con il merito o il demerito della persona stessa. Mutuando l’espressione con cui Irving Yalom designa il setting psicoterapeutico, si potrebbe affermare che il compito della deontologia è di creare una relazione “artificialmente vera”.
L’obiettivo della deontologia non è promuovere il medico buono, ma il buon medico.
La deontologia è il sistema di regole che traccia il profilo professionale del curante. Il suo obiettivo non è promuovere il medico buono, ma il buon medico; più precisamente, il medico che si comporta in modo corretto, secondo le regole del gioco che in quel preciso momento storico-culturale sono riconosciute come appropriate. Per dare alla deontologia la dimensione della concretezza che le spetta: quando un malato chiede a un medico che lo ha in cura della propria patologia e la relativa prognosi, è autorizzato ad aspettarsi dal curante una risposta veritiera? Ebbene, fino a un passato recente le regole deontologiche erano basate sul presupposto che il vero interlocutore del medico fosse il familiare che si proponeva come caregiver, non il malato stesso. Al familiare erano dovute diagnosi e prognosi attendibili, mentre al malato il medico valutava che cosa era più opportuno comunicargli. “Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia”, proclamava il Codice del 1978. Con poche varianti ripeteva la regola quello del 1989: “Il medico può valutare l’opportunità di tener nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti”. Di qui la pratica, deontologicamente corretta, del doppio percorso informativo: una cosa rassicurante al malato e una veritiera al familiare. Solo la revisione del Codice del 1995 ha formulato la condizione del consenso informato per qualsiasi procedimento diagnostico e terapeutico come condizione per una medicina corretta e ha previsto l’informazione ai familiari solo nel caso che il malato non sia in grado di intendere o che l’abbia preventivamente autorizzata. A documentazione che le regole deontologiche richiedono una continua manutenzione.
Un codice deontologico deve registrare le variazioni che il tempo introduce nel rapporto che lega chi pratica la cura con chi la richiede.
Un codice deontologico non è dunque una realtà astorica: deve piuttosto registrare le variazioni che il tempo introduce nel rapporto che lega chi pratica la cura con chi la richiede. È il riferimento a queste regole che crea la fiducia e salda il legame. Sarà bene che chi si accinge a riflettere sulla deontologia adatta al nostro tempo parta proprio dalla consapevolezza che la pandemia di sfiducia che sta mettendo in discussione la nostra convivenza sociale ha delle ripercussioni travolgenti nell’ambito delle cure sanitarie. Senza fiducia queste non si reggono; e la fiducia del passato, basata su un giuramento più o meno esplicito del curante – “Giuro che farò il tuo bene” – non ha più corso. Abbiamo bisogno di una nuova e diversa fiducia: una fiducia che non infantilizzi la persona malata, ma richiede piuttosto un’adultità in chi riceve le cure e la rinuncia al paternalismo in chi le eroga. Un rapporto di questo genere non ha mai avuto diritto di cittadinanza nello scenario della cura: ce lo dobbiamo inventare nel nostro tempo con un impegno comune.
Sandro Spinsanti Fondatore e direttore Istituto Giano per le medical humanities