Le diverse facce dell’etica nella cura, dal counseling all’esortazione
Le riflessioni conclusive di Sandro Spinsanti, per un’integrazione armoniosa dell’etica nella cura

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Le riflessioni conclusive di Sandro Spinsanti, per un’integrazione armoniosa dell’etica nella cura
Questo articolo è la terza parte delle riflessioni sull’etica medica di Sandro Spinsanti. Qui la prima parte, “L’etica al letto del malato: una presenza in diverse modalità”, e qui la seconda parte, “L’etica in medicina, tra comportamenti leciti e indirizzi di scelte“.
Dall’etica in modalità di consulenza a quella che si presenta come counseling: apparentemente la stessa cosa, salvo un piccolo adattamento linguistico, in realtà un cambio di scenario. È una modalità del tutto diversa di concepire e presentare l’etica nello scenario della cura. Il primo sforzo da fare è di evitare la trappola dell’assonanza linguistica, che fa equivalere il counseling alla consulenza; ancor più, traducendo il termine inglese a orecchio, lo si potrebbe far scivolare verso l’attività di dare consigli. Una seconda insidia è psicologica. Perché la tendenza a offrire buoni consigli è molto diffusa. Non c’è limite al buon cuore di certe persone che, in mancanza d’altro, eccedono in suggerimenti. Soprattutto quando uno è malato, potrebbe mancare di cure, ma raramente di buoni consigli. Sembra che permanga, invariato nel tempo, il costume che, secondo Erodoto, esisteva presso i Babilonesi. Per loro era un obbligo morale dare consigli a chi era malato:
Un saggio costume dei Babilonesi è di portare i malati fuori di casa, in piazza, dal momento che non esistono medici. I passanti si avvicinano all’infermo e gli danno consigli per la sua malattia, o perché ne hanno sofferto essi stessi o perché hanno conosciuto qualcuno che ne soffriva. Non è lecito passare accanto a un malato senza chiedergli di che male è affetto [1].
Il counseling non equivale alla consulenza. È una modalità diversa di concepire e presentare l’etica nello scenario della cura rispetto.
In tempo di internet non è neppure più necessario portare i malati in piazza. Sono numerosi quelli che si mettono in rete e sollecitano consigli. E che li ricevono, anche quando non richiesti. Soprattutto quando a dare consigli sono “spiritualisti” di professione, che ambiscono a insegnare come affrontare la malattia o dare senso alla vita. L’eco lunga del sistema babilonese descritto da Erodoto ha indotto a dare il nome di Babylon al sistema informatico che ha visto la luce ai nostri giorni in Inghilterra e che consiste nella visita via internet: il malato chiama, descrive i sintomi, il robot li analizza e formula subito la diagnosi e il trattamento da seguire.
Ebbene, il counseling non ha niente a che vedere con questi comportamenti. Coloro che lo praticano hanno anche differenziato la loro attività dalla psicoterapia. Non solo per non invadere il campo di altre professioni, ma per definire in termini positivi la propria specificità. Tramite il codice deontologico il counselor si presenta come “la persona che, con le proprie competenze, è in grado di favorire la soluzione a un quesito che crea disagio esistenziale e/o relazionale”. Il cammino per arrivare a circoscrivere questa modalità d’intervento nell’ambito delle cure sanitarie è stato tormentato: “La lunga marcia del counseling sanitario”, l’ha chiamata Silvana Quadrino [2].
Si tratta di dotare il professionista sanitario degli strumenti per esercitare l’ascolto e offrire una relazione di aiuto.
I cittadini non invocavano un nuovo esperto a cui rivolgersi quando i professionisti sanitari erano poco chiari o si dimostravano incapaci di ascoltare. Ciò che tormenta il malato – in che modo affrontare la malattia, l’attesa di una diagnosi, il peggioramento dello stato di salute, la perdita di speranza – ha bisogno di essere affrontato nel contesto della relazione clinica; non deve essere demandato a un colloquio con un altro professionista. Si tratta di dotare il professionista sanitario degli strumenti per esercitare questo ascolto e offrire una relazione di aiuto. Accanto al counseling intrinseco alla relazione di cura in sé stessa, ci sono tuttavia situazioni in cui è richiesto un intervento specifico del counselor. Sono le situazioni in cui il disagio è particolarmente acuto.
Il counseling non va confuso con una psicoterapia breve. È una relazione di aiuto, il cui strumento fondamentale è l’ascolto e richiede essenzialmente l’empatia. Questa è diversa dalla nascita spontanea di simpatia (o inversamente di antipatia) verso la persona assistita. È un atteggiamento comandato dalla volontà; richiede la disponibilità a mettersi in contatto con l’altro condividendo emozioni e stati d’animo. È importante anche notare che la soluzione al disagio non viene offerta (con la modalità, appunto, di dare consigli), ma favorita. Sullo sfondo siamo autorizzati a vedere la parentela del counseling con l’approccio proprio della psicologia umanistica, con gli approcci di Carl Rogers e Abraham Maslow in particolare. Comune è la fiducia di fondo nelle capacità dell’individuo di trovare in sé stesso la risposta al proprio disagio e ai problemi che lo agitano. Da questo punto di vista il counselorè diverso da un consulente. Questi, per definizione, ha una competenza maggiore di chi lo consulta; sarebbe sciocco non fare proprie le indicazioni di un consulente accreditato (nelle questioni di salute come negli investimenti bancari) Non è questa la filosofia di fondo del counseling. Chi si rivolge a un counselor perché ha un disagio esistenziale – come nella definizione del codice deontologico di questa professione – potrebbe, alla fine, prendere una decisione che non piace al counselor. Perché l’interesse di questi è che la decisione nasca dalla persona stessa, in modo consapevole, che esprima i suoi valori, non quelli di colui che offre il servizio di counseling. Il counselor potrebbe personalmente optare per una decisione diversa da quella a cui perviene – per dire – la persona in disagio esistenziale perché non sa se proseguire i trattamenti che la tengono in vita o desistere; non fa pressione per far prevalere le sue preferenze, ma rispetta e valorizza quelle della persona malata.
L’interesse del counseler è che la decisione nasca dalla persona stessa, in modo consapevole, che esprima i suoi valori.
Naturalmente ci vuole un grande rispetto dell’altro per accettare ciò che non si condivide. Sullo sfondo della metodologia professionale del counselor intravvediamo il profilo della cultura necessaria per una convivenza civile, in contesti caratterizzati da molteplicità e polarizzazioni. Secondo Gianrico Carofiglio, la tolleranza dell’incertezza e della complessità è il presupposto per evolvere dall’oppressione reciproca verso una società inclusiva, capace di trasformare la diversità in una risorsa [3]. Si applica all’agire politico così come all’ambito della cura. Questa modalità di rapporto con la diversità possiamo chiamarla anche conversazione, attribuendole il compito di salvare la medicina stessa dall’impasse comunicativo in cui si sta dibattendo [4].
La modalità di counseling per l’etica nella clinica è la più appropriata. Richiede dialogo, talvolta negoziazione. Il suo punto di partenza è l’ascolto, piuttosto che la rigida applicazione di principi. Invece che importare dall’esterno l’etica nella pratica clinica, ne favorisce l’esplicitazione da parte dei soggetti coinvolti, in particolare dai clinici. Assomiglia a un’opera di tessitura, in cui si incontrano ordito e trama, più che a una rigorosa operazione intellettuale sostenuta da una competenza specifica di colui che fornisce la consulenza. A differenza della linearità che hanno i problemi etici quando sono affrontati nella modalità ideologica e anche in quella consulenziale, al letto del malato si presentano come un groviglio di indicazioni cliniche, di aspirazioni personali e di rapporti familiari. L’approccio etico in modalità di counseling non consiste nel suggerire la cosa giusta da fare, ma nello stimolare la capacità della persona di trovare ciò che è più appropriato in armonia con il proprio disegno biografico.
Importare dall’esterno l’etica nella pratica clinica, ne favorisce l’esplicitazione da parte dei soggetti coinvolti.
Una polarità del tutto opposta all’etica che si presenta con una veste giuridico-amministrativa è l’etica che si accosta allo scenario della cura con una modalità che possiamo chiamare esortativa. O parenetica. Distante da ogni intento di garanzia procedurale, agisce piuttosto attivando il registro della moral suasion. Il topos più celebre in tal senso è la parabola evangelica del Buon Samaritano, che si conclude con l’esortazione: “Va e fa anche tu lo stesso” (Luca, 10,37). Siamo nell’ambito delle buone pratiche, che meritano di essere conosciute e imitate.
È il terreno privilegiato della medicina narrativa. Esemplari in tal senso sono le Storie Slow. Il movimento che si colloca sotto lo slogan della Slow Medicine ha dato vita, nel proprio sito, alla raccolta di una serie di racconti qualificandoli, appunto, come Storie Slow. Leggiamo nella presentazione della serie di racconti che l’obiettivo è quello di descrivere la Slow Medicine in azione, così come si concretizza nei vissuti dei professionisti che a essa si ispirano e nelle esperienze di coloro che ricorrono alle loro cure:
Quali scelte fa un professionista slow diverse da quelle che farebbe uno fast? Tutti hanno vissuto episodi, esperienze, momenti nei quali è scaturito qualcosa di insolito, qualcosa che ha fatto dire: Ecco, una medicina così mi piace; questo professionista ha saputo capirmi e mi ha aiutato davvero.
La prima piacevole sensazione che produce la lettura delle Storie Slow è che il centro di gravità si sia ristabilito nella pratica clinica. Il sottotitolo con cui si presentano le storie: «dall’ideologia alla corsia» suona programmatico. Un programma forse esageratamente critico nei confronti di un’etica che pretende di plasmare dall’esterno i comportamenti di chi è coinvolto nella cura; ma ha il vantaggio di focalizzare l’attenzione sul pluralismo dei valori, e quindi sulla molteplicità delle posizioni morali che emergono nello scenario clinico.
Il movimento della bioetica si è spesso riferito alle osservazioni del bioeticista Tristam Engelhardt, che ha descritto le polarizzazioni su certi temi come espressione di un’estraneità morale [5]. A suo avviso, si può essere stranieri morali anche appartenendo alla stessa cultura, addirittura nell’ambito della stessa famiglia. L’estraneità morale incombe in particolare sulle decisioni che incidono sulla quantità e qualità della vita. È una conseguenza della personalizzazione delle cure: quando queste diventano così personali da aspirare a essere modellate secondo la propria gerarchia di valori e la concezione individuale di una vita di qualità, possono far sentire straniere persone che pur hanno un’intensa comunanza di vita. Ciò vale sia per i professionisti della cura, che possono percepirsi estranei rispetto alle scelte delle persone che curano, sia all’interno delle reti di relazioni che costituiscono il mondo del malato. La risposta adeguata non può essere la contrapposizione polemica tra universi morali in conflitto (non dimentichiamo che pòlemos in greco è la guerra; l’estraneità morale può alimentare una guerra a oltranza con coloro dei quali non si condividono le opzioni morali), ma quella modalità di cura che si presenta come accompagnamento e che comincia con l’ascolto e il tentativo di comprendere anche ciò che non si condivide.
Una storia esemplare, tratta dal catalogo delle narrazioni raccolte da Slow Medicine nel proprio sito, può dar concretezza sia alla molteplicità dei punti di vista etici, sia alla modalità esortativa di avvicinarsi alla complessità delle decisioni. Alla storia è stato dato il titolo molto appropriato di Congedo sereno. Il protagonista è un signore di una certa età, sofferente per un’emiplegia conseguente all’ictus di dieci anni prima. Un tumore polmonare sopravvenuto fa prevedere una breve sopravvivenza. La moglie chiede al medico di essere delicato nel dare le informazioni al marito: «per non togliergli la speranza che gli dà la forza di combattere».
Le relazioni prospettate in questo quadro rispecchiano una pratica che è stata in vigore fino a poco tempo fa, ma che secondo le regole deontologiche attuali dobbiamo dichiarare anacronistica. In passato il vero interlocutore del medico era il familiare che si proponeva come caregiver, non il malato. Fino alla revisione del codice deontologico del 1995 non si faceva menzione dell’obbligo del medico di fornire un’informazione veritiera e di ottenere il consenso del malato a qualsiasi procedura diagnostica e terapeutica, previa informazione. Esplicitamente, all’articolo 39 il Codice del 1989 prevedeva l’informazione riservata ai familiari, alle spalle del malato: “Il medico può valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti” L’attenzione a una informazione che non escluda elementi di speranza è costantemente ribadita nelle diverse redazioni del codice che si sono susseguite nel tempo (1995, 2006, 2014). La più recente suona: «Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza» [6].
Nel racconto la dottoressa si dichiara consapevole che la deontologia le imporrebbe di essere aperta con il malato e di non accondiscendere alla bugia pietosa, o quanto meno a un’informazione addomesticata, che invece era nelle richieste della moglie. L’approccio delicato, che implica anche il tempo necessario al malato per fare il suo cammino nella consapevolezza, porta alla svolta, nel momento opportuno:
Un giovedì del ciclo di chemio quando era maturato il momento in cui era pronto per aprirsi, Michelangelo mi aveva chiamato da parte, mi aveva detto che nelle ultime settimane era un po’ aumentato l’affaticamento, che era comparso un certo tedio per gli incontri settimanali in Oncologia, che voleva recuperare tutto il tempo possibile con la sua Giusy, dopo una vita di lavoro, sacrifici e condivisione. Quest’espressione mi aveva convinto a parlargli apertamente, senza subire il condizionamento della moglie, accogliendo le sue preferenze e i suoi valori-desideri-aspettative. Gli avevo spiegato la situazione avanzata del cancro polmonare, le aspettative limitate della chemio, l’opportunità di stare con la moglie a casa o in vacanza all’aperto, godendo per quanto possibile dell’aria buona e del tempo concesso. Dopo gli anni di emiplegia, riabilitazione, anticoagulante con tutti i controlli, aveva scelto senza dubbio di passare gli ultimi mesi in libertà.
Il racconto fornisce un’efficace illustrazione della competenza comunicativa che, secondo le linee di indirizzo sviluppate dalla Conferenza di Consenso sulla medicina narrativa promossa dall’Istituto superiore di sanità, è richiesta ai nostri giorni a qualsiasi curante. Questo approccio permette al curante di entrare nell’ambito delle scelte etiche delle persone che cura con un accompagnamento che chiameremmo gentile. Ci soccorre la metafora dell’esperienza di venir guidati, proposta da Ludwig Wittgenstein:
Pensiamo all’esperienza vissuta del venir guidati! Chiediamoci: in che cosa consiste quest’esperienza, quando per esempio, veniamo guidati per una strada? Immagina questi casi sei in un campo sportivo, magari con gli occhi bendati, e qualcuno ti conduce per mano, ora a sinistra ora a destra; tu devi sempre essere in attesa degli strattoni della sua mano e devi anche stare attento a non inciampare a uno strattone inaspettato. Oppure: qualcuno ti conduce per mano, con forza, dove tu non vuoi. O anche: il tuo compagno di ballo ti guida nella danza; tu ti rendi quanto più possibile recettivo per poter indovinare la sua intenzione a seguire anche la più lieve pressione. Oppure: qualcuno ti conduce a fare una passeggiata; camminando conversate, e dove va lui via anche tu. O ancora: stai camminando per un viottolo di campagna e lasci che ti guidi. Tutte queste situazioni sono simili l’una all’altra; ma che cosa è comune a tutte le esperienze vissute? [7].
La fenomenologia del venir guidati evoca l’esperienza di essere accompagnati da un medico verso una decisione terapeutica. Sentiamo sulla nostra pelle la differenza sostanziale che esiste tra il venir guidati mediante strattoni o il lasciarsi condurre insieme dal ritmo di una danza, dove tra ballerini non si può dire chi conduce e chi viene condotto.
Sentiamo sulla nostra pelle la differenza sostanziale che esiste tra il venir guidati mediante strattoni o il lasciarsi condurre insieme dal ritmo di una danza.
Un altro racconto, tratto dalla medesima raccolta, è un esempio eloquente di una modalità di accompagnamento dolce, che fornisce un intreccio simile a una danza. È intitolato Il cervello e il cuore. La dottoressa che lo riporta riferisce di partecipare alla decisione clinica con il cervello e con il cuore: è la sua trama. Una trama complessa, perché la mente – la sua visione professionale da oncologa – le suggeriva di insistere con la proposta di chemioterapia, mentre il cuore era orientato a condividere la desistenza terapeutica preferita dalla malata. La conclusione si presenta come un tessuto esemplare, nel quale auspicabilità etica e bellezza si intrecciano:
È di una bellezza sbalorditiva vedere la lucidità con cui alcune persone gestiscono la propria vita, mantenendo chiarezza e coerenza nelle proprie decisioni e rispettando profondamente i propri valori. Elza è una di queste persone: si rende profondamente conto che il nostro tempo sulla terra ha una scadenza e che spetta a noi scegliere il cammino della nostra vita. È un immenso onore incontrare sulla mia strada persone come lei.
Non tutte le opere di tessitura delle cure si aprono su risultati di qualità: dipende dalla trama – in particolare dalla volontà di utilizzare solo il filo del sapere clinico-scientifico o di mettersi in gioco come persona -, dalla diversità degli orditi che forniscono le persone malate – in pratica, la loro vita intera, con coerenze e incoerenze – e dall’avventuroso intreccio tra ordito e trama. È questa diversità che fa della professione di curante qualcosa più simile a un’opera d’arte, dagli esiti imprevedibili, che a un esercizio meccanico, guidato solo dal sapere scientifico e dall’abilità tecnica.
Questa modalità di presenza dell’etica nello scenario della cura dà concretezza allo spazio etico auspicato dal documento del Comitato Nazionale di Bioetica: Vulnerabilità e cura nel welfare di comunità. Il ruolo dello spazio etico per un dibattito pubblico. Inteso come luogo di ascolto, di incontro e di scambio di esperienze di vita personali e professionali, in cui dar voci ai singoli cittadini e alle associazioni che li rappresentano, lo spazio etico è il luogo appropriato in cui si incontrano la dimensione relazionale e la vulnerabilità; è quindi il luogo per eccellenza in cui prende forma la cura nel suo profilo più alto.
Il filo comune che tiene insieme le diverse modalità è quella che potremmo chiamare l’aria di famiglia: l’etica in medicina è di casa.
La carrellata delle diverse modalità con cui l’etica si presenta sullo scenario della cura non intende svalutarne nessuna: a condizione che evitino le insidie specifiche che le minacciano, tutte hanno la loro utilità. E possono essere impiegate in modo differenziato, a seconda delle esigenze prevalenti. Il filo comune che tiene insieme le diverse modalità è quella che potremmo chiamare l’aria di famiglia: l’etica in medicina è di casa, non ha bisogno di essere importata dall’esterno. In particolare nella clinica: fa parte essenziale della cura. Avremo bisogno piuttosto di educare il nostro sguardo perché sappia riconoscerla. E imparare a utilizzare la modalità appropriata alle diverse circostanze.
Sandro Spinsanti
Fondatore e direttore Istituto Giano per le medical humanities
Bibliografia
Con il coinvolgimento di genitori, insegnanti e professionisti formati: la nota di Ines Testoni
Il punto di vista di Maurizio Mori, filosofo
Cosa dicono le riviste scientifiche. Cosa chiedono i medici e i ricercatori