L’aiuto alla dolce morte volontaria
Di Massimo Sartori
Dal primo imperatore romano a oggi. Le principali tappe legislative e uno sguardo al resto del mondo.

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Di Massimo Sartori
Dal primo imperatore romano a oggi. Le principali tappe legislative e uno sguardo al resto del mondo.
Foto di Marco Vergano
L’imperatore Augusto, che spirò a settantasei anni assistito dalla moglie e dagli amici, “ebbe in sorte una morte serena e quale aveva sempre desiderato: infatti, quasi tutte le volte che aveva sentito che qualcuno era morto rapidamente e senza sofferenze, invocava per sé e per i suoi una simile εὐθανασίαν – di solito usava proprio questo vocabolo” [1].
Soltanto nella seconda metà del diciannovesimo secolo il termine eutanasia assunse un differente significato, più vicino a quello riconosciuto ai giorni nostri: quello di una dolce morte provocata in modo attivo da chi assiste il morente. Dopo che Samuel Williams – un filosofo dilettante britannico – ebbe indicato la possibilità di andare incontro all’eutanasia, intesa come una morte tranquilla indotta direttamente dai medici [2], si accese un dibattito fra i fautori e gli oppositori della proposta, che si sviluppò in una prima fase tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento [3].
L’eutanasia e il suicidio assistito possono essere considerati come atti moralmente giusti, perlomeno in determinate circostanze? | La risposta è sì, se si accetta un presupposto: quello di considerare la vita umana come un bene disponibile (ovvero un bene di cui è possibile disporre, dando inizio o ponendo termine alla vita stessa). Per chi, invece, non accetta questo punto di partenza, ad esempio perché considera la vita come un dono che l’uomo non può mai rifiutare, la giustificazione morale è problematica. E la risposta è no.
Per chi condivide la premessa che la vita può essere disponibile, la giustificazione dell’eutanasia (o del suicidio assistito) si basa in primo luogo sul principio del rispetto per l’autonomia. Secondo questo principio, ogni persona autonoma ha diritto ad autodeterminarsi. In questa prospettiva, l’unica limitazione all’esercizio dell’autodeterminazione è rappresentata dalla clausola che essa non deve causare danno ad altri.
La maggior parte degli autori che riconoscono integralmente questo diritto all’autodeterminazione, tuttavia, ritengono che esso, per quanto forte, non generi obblighi per gli altri, e non comporti così il dovere da parte di terzi di aiutare a morire. Invece, obblighi morali per gli altri possono derivare dal principio di beneficenza. In base a questo principio, chi si trova nella posizione di poter alleviare la sofferenza di un altro, senza eccessivi costi per sé stesso, ha il dovere morale di farlo.
La pratica dell’eutanasia sembra di fatto entrare in conflitto con un principio di base dell’etica medica, quello di non maleficenza, che impone di non arrecare volontariamente danno o ingiustizia al paziente (primum non nocere). Il modo di interpretare il principio di beneficenza, così come quello di non maleficenza, è tuttavia andato incontro negli ultimi decenni a una evoluzione concettuale, che mette in risalto la valutazione soggettiva da parte del paziente di ciò che per lui è male o bene e abbandona un’identificazione oggettiva del bene del paziente con il perseguimento della vita e della salute.
Il confronto sull’eutanasia è ripreso in seguito con forza a partire dagli anni sessanta del Novecento. Da più di mezzo secolo, infatti, i progressi della medicina, pur contribuendo a prolungare la vita delle persone, non sono riusciti a garantire sempre una qualità delle loro esistenze da esse stesse considerata accettabile. In tali casi la morte può trasformarsi da ‘evento’ in ‘processo’ riducendo la probabilità di andare incontro, in modo naturale, a una “buona morte”. In quegli anni crebbe anche, nella pubblica opinione, la percezione che la medicina moderna tendesse a rendere la morte un evento privo della necessaria dignità [4].
Secondo Dowbiggins, i medici e le loro organizzazioni risposero a questi rilievi e a questi cambiamenti di atteggiamento nei confronti del loro operato, in due modi diversi. Da un lato, essi riconobbero nei documenti ufficiali delle associazioni e degli ordini il diritto dei pazienti a esprimere il proprio parere vincolante sulle opzioni di trattamento loro offerte [5], dall’altro proposero le cure palliative per i malati terminali, che, nelle intenzioni della loro fondatrice, l’infermiera e medica Cicely Saunders, grazie alla terapia del dolore e al counseling spirituale, avrebbero rappresentato “un potente strumento per togliere le fondamenta al movimento per l’eutanasia attiva” [6]. Nonostante questi importanti cambiamenti, in molti Paesi è proseguita la richiesta di legalizzare, in determinate circostanze, l’aiuto alla morte volontaria (eutanasia o suicidio assistito), sino a che tale obiettivo è stato raggiunto.
Dove sono legali nel mondo il suicidio assistito o l’eutanasia? | L’Olanda è stato il primo Paese che ha depenalizzato l’eutanasia. La legge olandese, entrata in vigore il primo aprile 2002, prevede che il medico che pratica l’eutanasia o che presta assistenza al suicidio non è perseguibile, purché abbia soddisfatto i criteri di accuratezza richiesti e abbia comunicato che la morte non è stata naturale alla Commissione regionale di controllo eutanasia. Alla legge olandese si sono ispirati i testi delle leggi belga (2002) e lussemburghese (2009). Sempre in Europa, le Corti generali della Spagna hanno approvato una legge sull’eutanasia nel giugno del 2021. Nel resto del mondo, l’eutanasia è consentita dalla legge in Colombia (2014), in Canada (2016) e nello Stato di Victoria, in Australia (2019). Più numerosi sono i Paesi che consentono soltanto il suicidio medicalmente assistito. Fra questi, in Europa, vi sono la Finlandia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e, nel resto del mondo, La Nuova Zelanda e alcuni Stati degli Stati Uniti (Oregon, Vermont, Washington, Montana, Nuovo Messico e California).
In Italia, il dibattito sulla liceità dell’aiuto alla morte volontaria è in pieno svolgimento. Quattro anni fa, la legge n. 219/2017 ha sancito quanto era già contenuto in nuce nella nostra Costituzione, nonché nelle ultime revisioni del codice di deontologia medica, vale a dire che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”[7].
In questo modo, la legge n. 219/2017 ha preso atto del radicale mutamento nel rapporto medico-paziente avvenuto negli ultimi decenni, che ha incluso il rovesciamento della tradizionale visione ippocratica, secondo cui spettava al medico – in ultima analisi – farsi carico delle decisioni finali per il bene del paziente. Benché questa legge non abbia in nessun modo aperto all’aiuto alla morte volontaria, essa appare tuttavia imperniata sull’inviolabile diritto all’autodeterminazione della persona e sull’altrettanto irrinunciabile diritto a rifiutare i trattamenti sanitari indesiderati, anche quando siano necessari alla sopravvivenza.
Eutanasia, suicidio assistito, sedazione continua profonda | Si parla oggi di eutanasia quando un medico pone fine alla vita di un paziente sofferente e inguaribile, che ne ha fatta esplicita e giustificata richiesta, ad esempio attraverso l’iniezione di un farmaco mortale. In Italia è vietata. Nel caso del suicidio assistito, il paziente sofferente e inguaribile assume da sé il farmaco letale, che ha chiesto e che gli è stato consegnato. In Italia, la sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 esclude la punibilità del medico che – in circostanze specificate – aiuti un malato a suicidarsi. La sedazione continua profonda non rappresenta mai, al contrario, un atto che può essere riferito all’eutanasia o al suicidio assistito. In questo caso il paziente – che può avere anche rinunciato alle cure che lo mantengono in vita – muore per le conseguenze della propria patologia, senza dolore e in stato d’incoscienza. In Italia è prevista e disciplinata dalle leggi 219/2017 e 38/2010.
Nell’ottobre 2018 la Corte costituzionale, in seguito all’autodenuncia del radicale Marco Cappato, che aveva accompagnato un uomo tetraplegico (Fabiano Antoniani, detto “DJ Fabo”) in Svizzera per accedere al suicidio assistito, aveva sollecitato il Parlamento a una revisione dell’intera materia, in quanto “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”.
Un anno più tardi la stessa Corte, di fronte all’inerzia del Parlamento, con la sentenza 242 del 2019, ha stabilito la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, escludendo la punibilità per chi agevoli il proposito di suicidio, quando ricorrano quattro condizioni: che il proposito dell’interessato, pienamente capace di prendere decisioni consapevoli, si sia formato liberamente, che egli sia tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale, che sia affetto da una patologia irreversibile e che questa patologia sia fonte di sofferenze intollerabili.
Nel febbraio 2020, la Federazione nazionale degli ordini dei medici, adeguandosi alla sentenza della Corte costituzionale, ha integrato l’articolo 17 del codice deontologico, che recita: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. L’attuale indirizzo applicativo dell’articolo 17 prevede ora che “la libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.
Il resto è storia di questi mesi: i media hanno dato risalto alla richiesta di poter disporre di un farmaco letale da parte di “Mario”, nome di fantasia di un quarantaquattrenne tetraplegico che risiede nelle Marche, soddisfatta dopo un lunghissimo iter burocratico. Parallelamente sta procedendo in Parlamento l’iter di un disegno di legge sull’aiuto alla morte volontaria che tenga conto dell’indirizzo dato alla materia dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale.
Nel febbraio 2022 la Corte, con una ulteriore sentenza di cui il 3 marzo ha depositato le motivazioni [8], ha giudicato inammissibile il quesito di un referendum popolare, in cui si chiedeva l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente). Secondo la Corte, l’abrogazione parziale che ne sarebbe risultata (qualora gli elettori l’avessero approvata) avrebbe “privato la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione”.
Questo pronunciamento della Corte costituzionale non dovrebbe essere letto come una battuta d’arresto sulla strada che conduce alla legittimazione dell’aiuto alla morte volontaria, ma come un’ulteriore sollecitazione al legislatore perché consideri tutte le necessarie esclusioni di punibilità per i reati previsti dagli articoli 579 e 580 del codice penale. In data 10 marzo 2022 la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge sul fine vita [9], che dovrà ora essere esaminato dal Senato.
Massimo Sartori
Medico internista e membro della Consulta di bioetica onlus
colloquidibioetica.com
Bibliografia
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