La predizione algoritmica in medicina tra speranze e disillusioni
I modelli del machine learning potranno essere utili ma solo come strumento complementare. Di Giampaolo Collecchia

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I modelli del machine learning potranno essere utili ma solo come strumento complementare. Di Giampaolo Collecchia
“È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”
Frase attribuita a Niels Bohr, premio Nobel per la Fisica
L’intelligenza artificiale sta cambiando il paradigma culturale della medicina, i modelli algoritmici e le relative capacità analitiche sono sempre più in grado di fornire risposte clinicamente importanti, soprattutto in contesti ad elevata complessità.
Secondo il filosofo Cosimo Accoto le nuove tecnologie “stanno costruendo un’architettura in cui l’informazione comincia a fluire, sistematicamente, dal futuro al presente e non più dal passato al presente come è stato finora… I nostri dispositivi agiranno non solo in tempo reale ma anticipato: oltre il real-time, nel near-time” [1].
Un setting dove il miglioramento delle capacità prognostiche sarebbe particolarmente importante è quello palliativo, nel quale spesso le scelte dei pazienti e dei familiari sono assunte soltanto negli ultimi giorni di vita, di fronte ad opzioni di trattamento non discusse in precedenza in modo adeguato e condiviso [2]. Una delle criticità spesso citata da parte dei medici, soprattutto oncologi, per motivare i ritardi nell’effettuazione dei colloqui con malati di cancro in fase avanzata è la difficoltà di definire una previsione prognostica di sopravvivenza [3].
Le attuali tecniche di machine learning ci prospettano un possibile cambio di paradigma. I medici, che tendono a sovrastimare l’aspettativa di vita dei pazienti di un fattore 3 e negli ultimi 6 mesi di vita forniscono assistenza di intensità molto variabile [4], non dovranno più basare il timing prognostico soltanto sui dati di letteratura e sull’esperienza, ma potranno disporre di modelli algoritmici in grado di “prevedere il futuro” [5].
Le attuali tecniche di machine learning ci prospettano un possibile cambio di paradigma.
Una recente revisione sistematica ha valutato la letteratura riguardante l’utilizzo del machine learning nella previsione di mortalità per cancro a breve termine (entro un anno). Il risultato è stato che, nonostante i segnali incoraggianti di studi che hanno riportato buone performance, nessun algoritmo si è dimostrato utilizzabile al momento nella pratica clinica, per l’alto rischio di bias metodologici e di incertezza nei risultati. Gli autori sollecitano ulteriori studi per sviluppare modelli più affidabili e validati nel mondo reale [6].
Gli studi di predittività sono spesso basati su coorti di grandezza eterogenea e il livello di accuratezza non è sempre ottimale. Sono in massima parte retrospettivi, effettuati in contesti sperimentali e la loro generalizzabilità deve essere validata nel real world. Soprattutto, la predittività è espressa, nella maggior parte dei casi, a livello di coorte e non individuale, per cui rimane un’ampia dimensione di incertezza [7]. Una sopravvivenza media di 6 mesi può infatti significare che qualcuno vivrà poche settimane e qualcun altro anni.
Fattori confondenti possono alterare le inferenze associative dei sistemi di intelligenza artificiale, ad esempio il riscontro di frequenti consulenze palliative e di infusioni di noradrenalina sono altamente predittive di mortalità ma sarebbe irrazionale sospenderle allo scopo di ridurla [4]. I modelli predittivi, nonostante i limiti metodologici, che molto probabilmente verranno superati nei prossimi anni, sono peraltro già sul mercato e utilizzati anche come strumenti di ottimizzazione delle risorse, non sempre ad esclusivo vantaggio dei malati.
Il miglioramento delle capacità predittive può consentire una più accurata e tempestiva rilevazione dei bisogni dei malati per una pianificazione delle cure e la definizione di percorsi di cura coerenti con le preferenze dei pazienti e dei familiari. Il rischio è che non solo la morte stessa e il morire siano ormai di pertinenza della medicina, ma che possano diventarlo anche i valori e i sentimenti delle persone, per esempio il desiderio di mantenere nascoste certe verità ai familiari, segreti che un impersonale calcolatore digitale potrebbe far emergere. La relazione medico-paziente, sfumata, fondata sul non detto, sull’implicito, su complicità e sguardi, può finire per essere guidata dalle macchine, i pazienti diventare entità classificate secondo stime prognostiche, più o meno affidabili. La speranza potrebbe essere perduta su basi scientifiche. Il medico, conoscendo le probabilità certe relative alla prognosi, potrebbe, anche involontariamente, comunicare al malato una verità che altrimenti avrebbe potuto celare con maggiore facilità a causa dell’incertezza delle modalità predittive tradizionali.
Il rischio è che non solo la morte stessa e il morire siano ormai di pertinenza della medicina, ma che possano diventarlo anche i valori e i sentimenti delle persone.
Il machine learning potrà in futuro aiutare a definire meglio una verità prognostica, ma nel singolo individuo rimane, almeno per ora, un ampio margine di incertezza. I dati peraltro, anche quelli scientifici, non sono valori e la predizione algoritmica è ben diversa dalle decisioni da assumere in base alla stessa capacità predittiva.
È pertanto necessario, e lo sarà sempre, un atteggiamento positivo, evitando di considerare passivamente e fatalisticamente la condizione del malato. Si devono fornire informazioni generali, evitare previsioni troppo specifiche e indicazioni temporali precise, anche quando fossero disponibili accurate. Il rischio è infatti la sensazione di inganno, di delusione.
I modelli del machine learning, diventati affidabili e validati nella pratica, potranno essere utili ma solo come strumento complementare e soprattutto opzionale per il medico, uno dei parametri di cui valutare l’utilità nelle diverse situazioni. La premessa fondamentale per il loro utilizzo è una accurata supervisione umana, di alta qualità, emergente da una sensibilizzazione alla relazione orientata ai bisogni dei malati e delle loro famiglie.
La fase terminale della vita non deve diventare oggetto di previsioni, più o meno centrate, per evitare di aggiungere alle consolidate tipologie di accanimento, diagnostico, terapeutico e palliativo, quello prognostico [8].
Predizione analogica: Oscar il gatto | Alcuni anni fa un articolo del New England Journal of Medicine ha descritto la storia di un gatto, Oscar, che passa le sue giornate nel reparto Alzheimer dell’ospedale di Providence, città degli Stati Uniti, capitale dello Stato del Rhode Island. Oscar gironzola nei corridoi, di tanto in tanto si avvicina alle sue ciotole per mangiare le crocchette e bere, a volte schiaccia un pisolino sulla sedia di qualche infermiere. Oscar però è diverso dagli altri gatti: riesce a prevedere chi morirà di lì a poco tempo, senza sbagliare. Medici e infermieri hanno il tempo di chiamare i familiari e di avvisarli. Oscar sta anche vicino a chi altrimenti morirebbe da solo. La prima volta si è sdraiato sul letto della signora K, che stava molto male. Chiamati i parenti, figli e nipoti, il gatto non si muove. La nipotina più piccola chiede: “Cosa fa qui questo gatto?”. La mamma, soffocando le lacrime, le dice “È qui per accompagnare la nonna in Paradiso”. Dopo che K è morta Oscar scende dal letto e si allontana senza che nessuno se ne accorga. Ha finito il suo lavoro, oggi non morirà nessun altro [9].
Giampaolo Collecchia
Medico internista
Ufficio di Presidenza Comitato per l’etica clinica Azienda Usl Toscana Nord Ovest
Bibliografia
Alcune riflessioni a partire dalla storia di William Norman Pickles, medico di campagna e di comunità. Di Carlo Saitto
A cura di Francesca Minerva
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