La pandemia richiede una cooperazione internazionale. Ma solo a parole?

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“Cosa ci insegna COVID-19?”. È stata una frase ricorrente un anno fa quando siamo stati presi alla sprovvista da una pandemia “inaspettata” e che, probabilmente, continueremo a ripeterci come un mantra anche nei mesi a venire. Di certo le lezione da apprendere sono diverse. Molte di esse sono la conferma di verità già note, tra cui l’esigenza imprescindibile di un’azione collettiva per affrontare un’emergenza sanitaria mondiale. Lo scorso settembre con una risoluzione adottata da 169 Paesi, l’Assemblea generale dell’ONU aveva esplicitamente chiesto “un’intensificazione della cooperazione internazionale e della solidarietà per contenere, mitigare e superare la pandemia e le sue conseguenze, una delle più grandi sfide globali nella storia delle Nazioni Unite”. La risoluzione esortava gli Stati membri a “consentire a tutti i Paesi di avere un accesso tempestivo senza ostacoli a diagnosi, terapie, medicinali e vaccini di qualità, sicuri, efficaci e convenienti, e alle attrezzature adeguate per la risposta COVID-19”. Una posizione che aveva ricevuto un ampio consenso anche da parte opinione pubblica.
“Le ragioni della cooperazione sono chiare. E sostanzialmente sono rimaste invariate dalla loro concettualizzazione originaria nel Diciannovesimo secolo”, spiegano sulla rivista The BMJ Jesse Bump, Peter Friberg e David Harper, professionisti di salute globale e di programmi internazionali per la salute pubblica. “In primo luogo, le molte connessioni tra Paesi generano dei rischi sanitari globali che sono difficili da gestire in modo autonomo. Secondo, la condivisione del sapere e dell’esperienza accelera l’acquisizione di conoscenze e favorisce un progresso più rapido. Informazioni e conoscenze sugli agenti patogeni, sulla loro trasmissione, sulle malattie che causano e sui possibili interventi sono tutti ambiti in cui ricercatori e professionisti della sanità pubblica possono trarre vantaggio dall’esperienza altrui. In terzo luogo, concordare regole e standard a cui attenersi supporta la comparabilità delle informazioni, aiuta a stabilire buone pratiche e sostiene la condivisione di conoscenze sapere e la fiducia reciproca”.
Tutte e tre queste motivazioni sono alla base della logica della cooperazione internazionale e si riflettono nelle funzioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e del suo massimo organo decisionale, l’Assemblea Mondiale della Sanità, al cui interno i Paesi membri condividono informazioni, discutono e prendono decisioni collettive.
Sebbene sia implicito, oltre che assodato, che le emergenze globali necessitino di risposte globali e, quindi, di una stretta cooperazione tra le nazioni fondata sulla fiducia, la gestione della pandemia COVID-19 racconta una storia basata sui fatti in parte diversa da quella auspicata. “Molti Stati si sono impegnati per supportare la cooperazione internazionale per sconfiggere la pandemia. Nonostante questo, gli stessi Paesi sono stati estremamente lenti nel passare dalle parole ai fatti, e troppo spesso hanno prevalso la rivalità tra nazioni e le reciproche accuse di colpevolezza”, scrive il direttore del Lancet, Richard Horton, nel libro “COVID-19. La catastrofe”. “Il globalismo, la solidarietà internazionale e la cooperazione tra i Paesi sono stati sacrificati a favore dell’unilateralismo, del nazionalismo e dell’interesse populista”.
Si è anche assistito a una riluttanza di alcuni Stati membri delle Nazioni Unite a collaborare pienamente e riconoscere il ruolo di istituzioni quali l’OMS. Gli stessi Stati membri hanno dimostrato di non fidarsi completamente l’uno dell’altro. Per esempio, alcuni Stati non hanno concesso all’OMS il potere di esaminare i dati nazionali, di condurre indagini sulle malattie infettive nel caso in cui le istituzioni nazionali non fossero d’accordo né di obbligare i singoli Stati membri a partecipare alle sue iniziative. Secondo Jesse Bump e colleghi “nonostante l’approvazione della risoluzione sulla necessità di solidarietà in risposta al COVID-19, molti Stati membri hanno scelto percorsi egocentrici”. Contro le indicazioni date dall’OMS, la concorrenza ha creato un nazionalismo dei vaccini che non fa altro che acuire le disuguaglianze e rallentare il piano vaccinale globale, e in modo del tutto simile si è assistito a una competizione nazionale per i medicinali già esistenti da impiegare per la cura della COVID-19. “Rinunciando alla cooperazione per l’egoismo, alcune nazioni hanno tardato nel sostenere l’iniziativa COVAX ideata dall’OMS per creare una collaborazione globale volta a garantire la parità di accesso per tutti i Paesi ai vaccini, alcune hanno rifiutato categoricamente di aderirvi”.
Ma senza riconoscere all’OMS il ruolo che dovrebbe avere e senza dimostrare con i fatti l’intenzione a cooperare, è impensabile superare quelle sfide che richiedono un’azione collettiva globale, che oltre alla pandemia COVID-19 includono i cambiamenti climatici e malattie non trasmissibili, rimarcano Jesse Bump e colleghi sul BMJ. Il “costo” di una pandemia si misura in termini di vite umane perse e perdita di mezzi di sussistenza: più di 10.000 persone morivano ogni giorno alla fine dello scorso anno, e l’economia mondiale ha perso 5 trilioni di dollari o più solo nel 2020. Oggi più che mai, concludono i tre colleghi, l’imperativo è promuovere la salute globale e percorrere la strada della cooperazione internazionale secondo tre direttive: porre fine alla frammentazione istituzionale dei programmi per la salute globale e alla manipolazione del bilancio che indeboliscono l’OMS; rafforzare il ruolo dell’OMS sulle questioni relative al commercio e trasporto, inclusa la licenza obbligatoria per i medicinali; sostenere l’equità, la partecipazione e la responsabilità conferendo i poteri dell’OMS per ritenere gli Stati membri responsabili e decolonizzando la sua governance per affrontare l’influenza indebita di un piccolo numero di Stati membri potenti.
In piena pandemia l’OMS è diventata uno dei principali obiettivi delle accuse dell’amministrazione statunitense. Le critiche dell’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha definito l’Organizzazione “Cina-centrica”, hanno rappresentato indubbiamente il momento di debolezza più difficile dei suoi 72 anni di storia, racconta Horton. Trump aveva accusato l’OMS di essere stata troppo accomodante con le posizioni ufficiali della Cina che sminuivano la gravità del problema e di aver ritardato la dichiarazione di emergenza internazionale al 30 gennaio quando l’epidemia aveva ormai preso piede in una ventina di Paesi. Un’accusa che gli serviva in parte per ingannare l’opinione pubblica. E nel bel mezzo di una pandemia globale, Trump decise di tagliare i finanziamenti all’OMS – un’azione che Horton definisce “un crimine contro l’umanità” e “un immane tradimento della solidarietà globale”. Un’esagerazione? “No, ed ecco perché. L’OMS nasce per tutelare la salute e il benessere della popolazione mondiale. Un crimine contro l’umanità è un attacco cosciente e crudele contro un popolo”.
Ma è anche vero che l’OMS ha mostrato diverse debolezze e molte mancanze nella gestione della pandemia COVID-19. Ed è altrettanto vero che è un’organizzazione in crisi da diversi anni. “Chi conosce l’OMS sa che l’Organizzazione è un’istituzione imperfetta. La burocrazia antepone le procedure alla pratica, la diplomazia alla difesa e il compromesso alla perseveranza. L’OMS è una creatura fatta a immagine dei suoi Stati membri, riflettendone debolezze, difetti e fragilità”, aggiunge Horton.
Ora l’OMS si trova nella condizione di dovere rispondere alle accuse e di recuperare la fiducia. Ma il problema non si esaurisce qui. Serve anche riconoscere a questa organizzazione il ruolo sovranazionale che dovrebbe avere e che ha dimostrato in passato, come racconta in una dettagliata raccolta il giornalista Giancarlo Sturloni. “Mai come oggi, in un mondo sempre più interconnesso, dove in una manciata di settimane un agente infettivo può diffondersi in ogni angolo del pianeta, abbiamo bisogno di un’agenzia internazionale capace di prevenire e gestire le minacce pandemiche, secondo molti esperti destinate a diventare sempre più frequenti. Persino tra le voci più critiche nei confronti dell’OMS si leva l’esigenza di poter contare su un’istituzione sovranazionale indipendente e con l’autorità per farsi rispettare da ogni governo quando arriva il momento di affrontare un’emergenza. È vero: quell’istituzione non è l’OMS così come la conosciamo oggi. Eppure, come ha raccontato a Rolling Stone Kelley Lee, direttrice degli studi di salute globale presso la Simon Fraser University (Canada), ‘l’OMS ha fatto esattamente ciò per cui l’abbiamo creata, niente di più, niente di meno. Ci ha tenuti informati. Ha mobilitato gli scienziati e ha coordinato le loro ricerche. Ha raccolto le evidenze scientifiche e ha cercato di fornire indicazioni chiare su ciò che andrebbe fatto. La vera domanda è se gli abbiamo dato abbastanza autorità e risorse per agire nel modo in cui vorremmo che agisca’. Perciò, prima di smantellarla, faremmo bene a chiederci come sostituire quest’organizzazione a cui settant’anni fa abbiamo affidato la custodia della salute globale e che ancora oggi costituisce la nostra migliore risorsa contro le malattie infettive. SARS-CoV-2 è sempre là fuori che ci aspetta”.
Bibliografia
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