La medicina tra verità e incertezza
Nonostante la sua centralità in medicina, rimane però spesso difficile accettare l’incertezza e forse ancora più difficile comunicarla, osserva Carlo Saitto

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Nonostante la sua centralità in medicina, rimane però spesso difficile accettare l’incertezza e forse ancora più difficile comunicarla, osserva Carlo Saitto
La medicina ha avuto, fin dalle sue origini, un rapporto complesso con la verità. L’ha sempre ricercata come fondamento ultimo della malattia e ha sempre inseguito la “certezza” nella diagnosi, e soprattutto nella terapia, facendo coincidere la guarigione con la ragione e considerando l’insuccesso come difetto di conoscenza o mancanza di applicazione. La conoscenza medica è stata considerata dunque lo strumento per avvicinarsi a questa verità del corpo.
Nella tradizione di Galeno e nei commentari su cui si è costruita la storia della medicina questa aspirazione alla verità percorreva la doppia strada del ragionamento e dell’esperienza. Seguendo l’impostazione definita da Galeno nel suo saggio Sull’esperienza medica, Pietro di Spagna – un grande medico e grande insegnante – scriveva infatti verso la metà del XIII secolo che la verità derivava tanto dall’intelletto che dall’esperimento. La strada dell’esperimento dipendeva dai sensi e quella dell’intelletto dalla mente. A differenza dell’intelletto l’esperienza non aveva bisogno di argomentazioni, era meramente induttiva. Al contrario, l’intelletto era sillogistico. L’esperimento si muoveva da un evento mentre l’intelletto non doveva basarsi su alcuna informazione aggiuntiva. L’esperimento senza l’intelletto – concludeva Pietro di Spagna – era monco, ma l’intelletto era inadeguato se non si fondava sull’esperienza.
La progressiva adozione nella medicina di un approccio scientifico modificava la relazione tra la componente induttiva e quella deduttiva della conoscenza ma non cambiava la direzione del pensiero: esisteva una verità profonda, assoluta e conoscibile, e la chiave per la medicina era impossessarsi di questa verità e farne discendere la cura. Se qualche elemento della verità rimaneva oscuro ci si poteva temporaneamente adattare e comunque intervenire sulla base di ipotesi e supposizioni. Però nella consapevolezza, alimentata dalla ricerca, che con il tempo anche gli angoli rimasti nell’ombra sarebbero stati portati alla luce e che questa era la direzione del progresso e di una medicina che, adottando il metodo della scienza, si faceva anch’essa scienza. In una logica riduzionista si accettava in sostanza una forma di determinismo relativo, in convinta attesa che l’individuazione di tutte le variabili lo trasformasse in un determinismo assoluto.
Il possesso di molti numeri e di molte osservazioni avvicinava la medicina alla verità.
In questa prospettiva, l’introduzione esplicita o implicita della matematica nella medicina finì per confermare questa tendenza. Il possesso di molti numeri e di molte osservazioni – in altri termini la sua trasformazione quantitativa – avvicinava la medicina alla verità.
Il medico della marina inglese James Lind, nato nel 1716, riepilogava questa convinzione scrivendo così nel 1772 dopo trent’anni di servizio.
«Dall’osservazione di diverse migliaia di [...] pazienti ci si sarebbe potuta aspettare una capacità diagnostica più accurata e trattamenti di più certa efficacia. [...] La verità però – concludeva – non è facilmente accessibile e anche quando credi di averla raggiunta c’è sempre bisogno di nuove osservazioni per correggere gli errori e smentire frettolose certezze nell’arte della cura».
James Lind era davvero geniale: la malattia può essere catalogata e descritta; la descrizione è fatta di categorie e di numeri, anche la realtà della medicina può essere misurata ed anche l’efficacia della terapia. Abbiamo tutti maturato un debito straordinario nei confronti di Lind e di quei medici della sua generazione e di quella successiva, come John Gregory e John Haygart, che introdussero nella medicina i concetti della quantità e della misura. Senza fare analogie irriverenti con i protagonisti della rivoluzione scientifica che li hanno preceduti, questo è il Pantheon, relativamente piccolo e oscuro di un approccio quantitativo alla medicina.
La misura però non resiste alla trappola della complessità: il comportamento di un corpo grave che cade è definito da poche variabili: il suo peso, il campo gravitazionale nel quale si colloca, le caratteristiche del mezzo nel quale precipita. Il comportamento di un corpo umano che si ammala manifesta una irriducibile variabilità: nella suscettibilità, nei sintomi, nella gravità, nella durata, negli esiti. Il modello deterministico della causalità lascia intravedere qualche crepa.
Nessun problema però – replica un pensiero medico che non rinuncia alla sua ansiosa aspirazione alla verità e alla certezza – perché è sufficiente ricorrere ad una versione probabilistica del determinismo: non posso dirti se guarirai, se proprio tu guarirai, ma posso dirti che sulla base di alcuni parametri dei quali conosco probabilisticamente la rilevanza hai molte – poche o pochissime – possibilità di cavartela.
La probabilità diventava la chiave per confrontarsi con la complessità.
Come diceva nella sua feconda produzione di aforismi William Osler – un altro grande clinico vissuto tra la metà dell’Ottocento e gli anni della prima guerra mondiale – “errori di valutazione sono inevitabili nell’esercizio pratico di un’arte che consiste, in larga misura, in un equilibrio tra probabilità”. Fino a una della sue massime più famose: “La medicina è una scienza dell’incertezza e un’arte della probabilità”.
È passato ormai molto tempo da quando mi è capitato di leggere per la prima volta queste considerazioni e ricordo di averne allora ricavato per un verso stimolo e conforto, per altro verso un’indefinibile insoddisfazione. Da un lato – infatti – l’incertezza non era più solo il frutto dell’ignoranza ma anche una condizione tipica della complessità che si cercava di comprendere. Lo studio e l’esperienza avrebbero dunque consentito di ridurre il peso dell’incertezza e di bilanciare in modo sempre più circoscritto le probabilità.
In questa versione però la probabilità rimaneva un’approssimazione della verità, lo statuto scientifico della medicina sembrava rinunciare alle solide certezze della fisica. La vera scienza – sembra dire Osler – è una scienza della certezza mentre la medicina è una scienza “minore”, la scienza della probabilità.
Osler moriva nel 1919 e non faceva in tempo a assistere all’enunciazione nel 1927 del principio di indeterminazione con cui Heisenberg sconvolgeva la meccanica classica: “Nell’ambito della realtà le cui condizioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono quindi a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere […] è piuttosto rimesso al gioco del caso”.
Non era dunque la medicina la scienza dell’incertezza ma l’incertezza il fondamento della scienza, di tutte le scienze della materia: la verità diveniva una probabilità, la ricerca delle probabilità e non della verità era alla base della conoscenza. Per la medicina, una quasi scienza alle prese con i limiti della sua capacità descrittiva e con una irriducibile complessità, questo cambiamento di prospettiva sembrava offrire una via d’uscita dal determinismo biologico: l’incertezza era una frontiera mobile e una frontiera ultima che si riproponeva in modo costante sfuggendo alle semplificazioni.
In teoria era proprio la formalizzazione dell’incertezza che consentiva da un lato di agire sulla base delle evidenze disponibili e dall’altro di sviluppare ulteriormente le conoscenze. L’esplosione delle scoperte e delle nuove tecnologie che la ricerca ha reso disponibili – dall’uso di nuovi farmaci all’introduzione di nuovi ed efficaci strumenti di diagnosi e trattamento – rischia però di riproporre un rapporto di causalità diretta solo in parte attenuato dai richiami alla significatività statistica o agli intervalli di confidenza. Associazioni probabilistiche rischiano di trasformarsi in spiegazioni definitive: non proprio la verità, ma qualcosa di molto simile alla verità.
I recenti infortuni comunicativi che hanno caratterizzato la narrazione da parte degli esperti della epidemia da covid-19 sono almeno in parte legati alla pretesa didascalica di presentare lo stato di provvisoria incertezza della conoscenza come prescrizioni assolute ma, ahimè, drammaticamente mutevoli. La rinuncia all’incertezza rischia dunque alla fine di mettere in crisi la stessa credibilità della ricerca.
La medicina basata sulle evidenze si fonda sul riconoscimento della natura scientificamente fondante dell’incertezza. Studi diversi possono generare risultati diversi e differenti stime dell’incertezza. Il messaggio fondamentale della evidence-based medicine riguarda proprio la capacità di fare scelte e assumere decisioni in una condizione strutturale di incertezza: in questo senso appare paradossale che i risultati della ebm vengano qualche volta considerati non come stime dell’incertezza ma come approssimazioni della verità.
Nonostante la centralità dell’incertezza in medicina rimane però spesso difficile accettarla e forse ancora più difficile comunicarla.
L’incertezza pervade in realtà ogni aspetto della medicina e la gestione dell’incertezza è centrale sia all’interno dei percorsi di formazione dei professionisti, che nelle decisioni cliniche, che nel rapporto dei pazienti con il loro corpo e la loro salute, che nella relazione tra i professionisti e i pazienti, tra i professionisti e le decisioni di politica sanitaria, e, infine tra queste ultime e la società nel suo complesso.
Nonostante la centralità dell’incertezza in medicina rimane però spesso difficile accettarla e forse ancora più difficile comunicarla: non si tratta semplicemente di descriverla ma, soprattutto, di consentire ai diversi attori di affrontarla senza esserne sommersi e senza negarla, di aiutare i pazienti e i professionisti ad acquisire una maggiore consapevolezza di margini di ignoranza che non possono essere mai definitivamente superati.
Carlo Saitto
Medico di sanità pubblica
Già direttore generale di un’azienda sanitaria della Regione Lazio
A cura di Carlo Alberto Defanti
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