La guerra in Ucraina, senza uscite di sicurezza
A colloquio con Domenico Quirico

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A colloquio con Domenico Quirico
Mercoledì 12 aprile, presso la sede dell’Ordine dei Medici di Torino, Domenico Quirico ha tenuto una conferenza, a cura dell’associazione International Help Onlus, sul Medio Oriente e, più in generale, sul ridisegnamento dell’architettura delle alleanze globali. Domenico Quirico, storica penna de La Stampa, è stato reporter di guerra, inviato in Paesi come il Sudan, il Darfur, l’Uganda, la Tunisia e l’Egitto, occupandosi delle Primavere Arabe. Nel 2011 è stato rapito in Libia e liberato dopo due giorni e nel 2013 in Siria per cinque mesi.
I giornalisti Nicolò Fagone La Zita e Luca Forestieri lo hanno incontrato e gli hanno fatto qualche domanda per capire i risvolti della guerra in Ucraina e cosa aspettarsi dai cambiamenti sullo scacchiere internazionale.
Lei aveva criticato, poco tempo fa, il modo in cui in Italia chi si pronunciava a favore di negoziati e diplomazia venisse additato come un pacifista pauroso. Ciò di cui non si teneva conto, secondo lei, era di come la guerra fosse cambiata dal febbraio scorso. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, infatti, molti hanno detto che per la prima volta dalla seconda guerra mondiale la guerra tornava in Europa, dimenticandosi però sia la guerra dei Balcani sia di tutte quelle guerre che abbiamo delocalizzato fuori dai nostri confini, ma che comunque vedevano alcuni dei nostri Stati coinvolti. Quindi ci chiediamo: non è anche questo modo di intendere le guerre, con due pesi e due misure, quando avviene in Medio Oriente piuttosto che in Europa, responsabile, secondo lei, dell’incapacità di diplomazia, di dialogo e di risoluzione pacifica dei conflitti di cui lei parla?
Quirico. Il problema che è stato innescato dalla guerra in Ucraina è una trasformazione della guerra rispetto a quelle che abbiamo vissuto tra la fine del Novecento e la prima parte del terzo millennio, che erano guerre estremamente legate a luoghi del mondo: il Medio Oriente, la Cecenia, la Siria, il Nordafrica, l’Africa dei grandi laghi eccetera. Questa è una guerra di nuovo tradizionale, ottocentesca o novecentesca, nel senso che mette di fronte delle nazioni, degli eserciti strutturati in un luogo del mondo che era per definizione considerato ormai come intangibile dalla guerra, se non in casi particolari come appunto quello delle guerre jugoslave. Questo ha determinato un cambiamento radicale: oggi questa è la guerra più pericolosa che sia mai scoppiata dal 1961, da quando il mondo rischiò la guerra atomica a causa dei missili di Cuba. A quell’epoca la guerra atomica non ci fu perché i due protagonisti dell’epoca, che erano Stati Uniti e Unione Sovietica, attraverso la diplomazia – più o meno segreta, più o meno collaterale – si resero conto che quella guerra avrebbe determinato una catastrofe irreparabile. Già c’era il ricordo recente di Hiroshima e di quello che la guerra atomica poteva procurare, e ci si fermò.
E cosa è cambiato oggi?
Quirico. Oggi, le uscite di sicurezza che funzionavano nel 1961 non funzionano più perché uno dei due soggetti è radicalmente cambiato, cioè la Russia di Putin. Questa, oggi, è un’autocrazia personale, non più una dittatura collettiva ideologica, durissima ma che aveva dei sistemi di formazione delle decisioni che passavano attraverso gradi, attraverso discussioni, attraverso scontri all’interno del vertice del potere. Oggi tutto è legato agli umori, alle volontà, alle prepotenze di una singola persona con un piccolo gruppo di suoi collaboratori. Quelle uscite di sicurezza e quei freni che hanno impedito la guerra atomica nel 1961, oggi non esistono più. I soggetti dotati di armi atomiche e della volontà di cambiare l’equilibrio del mondo sono aumentati, perché alla Russia e agli Stati Uniti (che detengono o pensano di detenere ancora un potere globale) si è aggiunta la Cina, che è una potenza economica, una potenza nucleare e sta diventando una grande potenza militare. Poi ci sono altri soggetti, il cosiddetto terzo mondo, che non si riconosce più nell’Occidente, non vuole più avere l’Occidente tra i piedi. Rifiuta non solo il modello politico dell’Occidente, cioè le democrazie liberali, ma rifiuta anche il modello culturale: lo rifiuta radicalmente, non ne vuol sapere. Contrariamente a quanto diciamo noi, il modello culturale dell’Occidente è rifiutato radicalmente nei luoghi dove ho viaggiato: l’Occidente è “il colonialismo”, anche se non è più così, o almeno non è più quel tipo di colonialismo. Questo determina dei problemi di tipo totalmente nuovo di cui non ci siamo resi conto, pur essendo passato un anno e tre mesi di questa guerra. Di questa guerra, si continua a parlare, a discutere, e a ragionare come se fossimo ancora al 25 di febbraio. Ma non è vero. Le guerre evolvono o involvono. Il fatto del 25 febbraio, cioè l’aggressione Russa all’Ucraina, è diventato un’altra cosa. Non perché non sia più un’aggressione della Russia all’Ucraina, ma perché si è moltiplicata nei suoi scenari: sono sorti dei blocchi contrapposti di potenze. C’è una potenza declinante, l’Occidente; una potenza sedicente, che è la Russia; e una potenza crescente, che è la Cina. Questo il 25 febbraio non c’era. C’era semplicemente un Paese del centro Europa che veniva invaso con un atto quasi incredibile dalla Russia di Putin.
Come si ripercuote questo nella strategia dell’Ucraina, dell’Europa e degli Stati Uniti?
Quirico. Bisogna capire che molte delle ipotesi che avevamo avanzato durante il febbraio scorso oggi non hanno più alcuna ragione di esistere: il tracollo economico della Russia, per esempio; o la caduta di Putin per una sorta di insurrezione popolare contro la guerra. La democrazia russa non esiste, se non nelle scritture di qualche tizio che va dietro ai pochi poveri eroici dissidenti russi, ma che rimangono pochi, poveri ed eroici esattamente come all’epoca dell’Unione Sovietica. Era così anche in passato: l’Unione Sovietica non è caduta per i meriti di Sacharov o Solženicyn, ma perché si è autodistrutta economicamente. È l’economia Russa che si è dissolta, non era un modello tollerabile e non stava in piedi da solo. Ecco, secondo me è di tutto questo che non si tiene conto. Ed è pericoloso.
Come lei dice, l’Europa e l’Occidente sono sempre più civiltà al tramonto: collassano sia sotto il peso delle proprie contraddizioni interne, sia perché emergono nuovi attori. Ciò che si può notare, ogni volta che ci si debba pronunciare su qualcosa, è come sia radicalmente cambiata la sfera d’influenza occidentale: sia quando si discuteva riguardo alla diffusione dei brevetti per i vaccini da Covid; sia su qualunque discussione sul clima; sia per quanto riguarda l’opinione pubblica in merito alla responsabilità della guerra in Ucraina, o alla necessità o meno di sanzionare Mosca. La cartina che viene fuori è sempre la stessa: un Occidente che si arrocca sulle proprie posizioni, e dall’altra parte tutti quei Paesi che per decenni abbiamo chiamato “terzo mondo”, ma che ormai pesano per i due terzi della popolazione mondiale, che non condividono più né le nostre ideologie né, come ha detto lei, la nostra cultura. La nostra domanda allora è: quando questo scollamento diverrà ancora più chiaro, quando l’ordine scaturito dalla guerra fredda verrà messo nuovamente in discussione da tutti quei Paesi che, a dispetto di quanto formulato da Fukuyama, non hanno mai condiviso l’ipotesi che la storia fosse finita, come reagirà l’ Occidente? Continuerà a combattere come l’ultimo dei samurai per non cedere il predominio conquistato in questo secolo?
Quirico. Guardi, le faccio un esempio storico: l’Impero Romano. L’Impero Romano si è espanso anche ai tempi di Settimio Severo. Settimio Severo conduce delle campagne vittoriose contro i Parti e costruisce due nuove province in Oriente, sconfigge i Daci e avanza verso quello che era considerato il limite naturale dell’impero, cioè l’Elba, che comprendeva tutte le terre dei barbari, germani, ecc. Dopo Settimio Severo viene Caracalla, e poi Severo Alessandro. La dinastia dei Severi si estingue e inizia il periodo del III secolo, che è il periodo della decadenza dell’Impero romano. Ed è qui che non riesce più a resistere all’urto di tutte le popolazioni che gli gravitano attorno. E nello stesso tempo si dissangua economicamente.
E cosa succede?
Quirico. Reagisce stringendo le frontiere, rinuncia progressivamente alle parti esterne dell’impero, e si racchiude all’interno del “limes”, che era il Reno, il Danubio e poi la frontiera africana. Il Vallo di Adriano viene abbandonato e i Romani si difendono via via sempre più a sud. Questo fa l’Occidente oggi. Gli Stati Uniti e i suoi alleati, o vassalli, che li si chiami come si vuole, non si espandono più. Non controllano più tutti i Paesi che – ad esempio – non hanno votato le sanzioni alla Russia. Si tratta di tutta la fascia del sud del mondo, tutto il Sudamerica, tutta l’Africa, tutta l’Asia escluso il Giappone, la Corea del Sud, e l’Australia, che non è un Paese asiatico ma una fetta dell’Occidente trasportato lì, attraverso un genocidio degli indigeni, né più né meno diverso da quello avvenuto negli Stati Uniti. L’Occidente allora si chiude in questo “limes” e muta la propria strategia anche militare o di sopravvivenza.
I romani cambiarono talmente il loro modo di affrontare i barbari: o rinunciarono alle regioni, o mobilizzarono gli eserciti dove c’erano dei punti di contatto con gli invasori. Creano i “limitanti”, dei soldati che vivono nelle terre di confine pronti a combattere non appena qualcuno irrompe oltre il limes, e poi dei nuclei mobili che accorrono dove è necessario. E cambia anche il modo di combattere: non più la fanteria delle legioni, ma la cavalleria. Attraverso tecniche che hanno imparato dai barbari, o addirittura assimilando i barbari all’interno dell’impero. Questo, se vuole, rispecchia un po’ il concetto dei migranti, assimilati al concetto dell’impero. Successivamente, tutta l’epoca dei grandi imperatori illirici (che sono tutti barbari) è un’epoca di gloriosa resistenza che ritarda in modo incredibile la loro liberazione, che poi avverrà con la caduta dell’Impero d’Occidente.
Quindi, secondo lei, gli Stati Uniti faranno lo stesso?
Quirico. Gli Stati Uniti si sono accorti che il dominio globale non è più possibile, anche se hanno 731 basi militari in tutto il mondo. Qualcuno dovrebbe spiegare cosa ci stanno a fare 731 basi militari americane in tutto il mondo, se non per affermare in modo esplicito la loro potenza. Si ritireranno all’interno di quell’Occidente che abbiamo menzionato prima: Europa, qualche pezzetto di Sud America, il Canada, qualche stato Africano perché qualcuno lo troveranno, Giappone, Corea del Sud, e Australia, e difenderanno quello e il modello sociale economico e culturale all’interno di quegli Stati. Esattamente come funzionava durante la Guerra Fredda. All’epoca della prima guerra fredda, non c’erano contatti tra i due blocchi. Ognuno viveva in modo diverso. La cortina di ferro serviva per separare, non per integrare. E lo stesso succede oggi: ci chiudiamo, la globalizzazione è giunta al termine. Lo ha detto anche Janet Yellen, quando era al vertice della Banca Centrale Americana, che bisognava cominciare a pensare di fare affari soltanto con le nazioni di cui si era sicuri e che ci assomigliano. Non più, quindi, con la Russia putiniana, con la Cina di XI Jinping, con il brasiliano Lula, terzomondista di ritorno. Ma solo con francesi, inglesi, tedeschi e così via. Edward Luttwak ha scritto – forse l’unico libro veramente valido nella sua attività – “La grande strategia dell’Impero romano”, in cui ha delineato la capacità di questa immensa globalizzazione dell’epoca antica di riconoscere la propria decadenza e di cercare di ritardarla. Perché gli imperi cadono, non c’è nessun impero che è eterno nella storia. Tutti gli imperi cadono. Anche l’impero americano, questo è inevitabile. Ma cercheranno di ritardarne la data finale, la dichiarazione di morte. E l’efficacia di questa tecnica di ritardo la vedremo nei prossimi mesi, non nei prossimi anni. Nei prossimi mesi.
A inizio aprile, parlando a Politico, il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato che “l’Unione Europea non deve limitarsi a essere «seguace» degli Stati Uniti, e deve trovare una propria dimensione alternativa sia agli Stati Uniti sia alla Cina come «terza superpotenza». Lei cosa ne pensa?
Quirico. Questa è una vecchia idea francese, non nasce da un’elaborazione di Macron. Un politico che veniva considerato un europeista perfetto fino all’altro ieri. Il pensiero deriva dal vecchio presidente francese Charles De Gaulle, e venne ripreso poi da Jacques Chirac quando si rifiutò di aiutare gli americani nella guerra irachena. Una guerra considerata dai transalpini ingiusta e illegittima. Al contrario, l’Italia, così come la Gran Bretagna di Tony Blair, accettarono l’invito per guadagnarsi la riconoscenza degli statunitensi. E la storia si ripete. L’Europa poteva giocare un ruolo diverso nella crisi di oggi, ma questo era possibile all’inizio del conflitto. Invece si è fatta trascinare in un discorso di pura forza da Russia e Stati Uniti, dove non ha e non può avere alcun ruolo. L’Europa può solo fornire soldi. Come i banchieri del Rinascimento italiano, che non avevano eserciti e pagavano per essere lasciati in pace. Oggi facciamo questo, nonostante la guerra sia alle nostre porte. Invece avremmo dovuto prenderci il ruolo di intermediario, che non significa abbandonare alla loro sorte gli ucraini. Ma questa ipotesi è stata scartata sin dall’inizio. E oggi forniamo soldi e armi per una guerra che ha conseguenze negative su di noi e sui poveri ucraini. E non si può riavvolgere il nastro.
Quindi l’Europa ha sbagliato sin da subito il proprio posizionamento nello scacchiere internazionale?
Quirico. Avremmo dovuto pensare anzitempo a una soluzione, già nel 2014, quando il conflitto è iniziato nel e per il Donbass. Era lì che doveva essere fermato, in una dimensione locale. Gli europei invece non hanno fatto niente, mentre gli americani si sono mossi subito perché avevano previsto che sarebbe successo qualcosa. Noi ci siamo limitati a dire agli ucraini di non preoccuparsi, che li avremmo fatti entrare nell’Unione europea, sapendo benissimo che era impossibile perché non saremmo stati in grado di difenderli. E così oggi il ruolo dell’Europa, e lo dico provocatoriamente, è quello di vassallo: seguiamo gli ordini americani. E gli equilibri stanno cambiando. Ci sono alcuni Stati europei, come la Polonia, che si sono ritagliati un ruolo di primo piano nell’alleanza con gli americani. I polacchi non hanno soldi, però hanno voglia di battersi, vogliono prendersi la rivincita nei confronti dei russi e cacciarli il più indietro possibile. Con loro i Paesi baltici e tutti quei Paesi che hanno ancora dei conti da saldare con la Russia, compresi gli ucraini.
In un libro che ha scritto qualche anno fa (Il tuffo nel pozzo. È ancora possibile fare del buon giornalismo?, Vita e Pensiero, 2017), lei aveva criticato l’inefficacia dell’informazione, il pressappochismo e il cinismo che caratterizzano un settore che rincorre i lettori ma è sempre meno attento al racconto partecipe della realtà. Cosa non ha funzionato secondo lei nel racconto della guerra in Ucraina?
Quirico. L’informazione sulla guerra in Ucraina è un tema molto delicato, e per principio non critico mai l’attività dei colleghi sul campo. Tuttavia vorrei fare una riflessione sul ruolo che è stato affidato al giornalismo in questo conflitto, a mio avviso totalmente e volutamente marginale. Di bassa agricoltura, ecco. Oggi, infatti, il peso dei giornali nella formazione dell’opinione pubblica purtroppo è ridotto ai minimi storici. Il giornalista è finito a fare il raccontino quotidiano in base ai comunicati stampa degli Stati maggiori, soprattutto di quello ucraino, che portano avanti la propria narrazione propagandistica. E che di certo non hanno bisogno dell’inviato del Corriere della Sera o del New York Times. Si prendono le veline ucraine e le si trasformano in articolo, arricchendole con le interviste degli sfollati. Dalla vecchietta con la casa bombardata alla signora fuggita col bambino da Mariupol. Racconti di resistenza, di coraggio, tutte cose verissime e meravigliose. Ma questo è un lavoro di bassa manovalanza, con tutto il rispetto per le persone che soffrono.
Ma allora a chi è stato affidato il compito di raccontare questa guerra?
Quirico. Agli analisti, persone che provengono da centri di ricerca sparsi per il mondo e di cui è impossibile valutarne la biografia. E questo è un problema. Io scrivo per un giornale, il pubblico mi conosce, sa quali sono le mie idee e chi mi paga. Invece l’analista si ammanta di un’oggettività che non ha alcun fondamento. È una persona che non ha mai visto una guerra, compresa questa. Ha semplicemente letto dei libri o del materiale. Ecco, noi abbiamo affidato a questi sconosciuti il compito di costruire la verità della guerra mondiale in Ucraina. È successo anche con la pandemia, ma almeno in quel caso i virologi avevano un’autorità scientifica. L’analista no. È una figura liquida, elastica, di cui non si conoscono profondità e scopi. Poi non è detto che il giornalista ne sappia di più, ma è proprio per questo che va sul campo. Si reca sul luogo, osserva con i propri occhi. Solo così si può distinguere la verità dal falso. L’analista guarda solo dei filmini. Ma la guerra, se non la vivi, non puoi raccontarla.
La lasciamo con una domanda semplicissima. Secondo lei qual è il più grande male dei nostri tempi?
Quirico. L’indifferenza. Oppure potrei rispondere come Majakovskij. Ad una conferenza disse: “Io sono russo quando parlo russo, e georgiano quando parlo georgiano”. E uno gli chiese: “E quando sei tra i cretini, che lingua parli?”. Lui disse: “Un’esperienza che non ho ancora fatto”.
A cura di Nicolò Fagone La Zita e Luca Forestieri
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