Inquinamento da microplastiche e salute
Cosa ne sappiamo e cosa può fare il pediatra: lo spiega il gruppo "Pediatri per un mondo possibile" dell'Acp

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Cosa ne sappiamo e cosa può fare il pediatra: lo spiega il gruppo "Pediatri per un mondo possibile" dell'Acp
Quali gli effetti dell’inquinamento da microplastiche salute sull’ambiente e sulla salute?
La plastica è un materiale di uso quotidiano per la sua economicità e versatilità, dagli anni Cinquanta ampiamente utilizzato in vari settori. Le materie plastiche però sono poco biodegradabili e tendono a persistere nell’ambiente. Oggi è dimostrato che, oltre a essere ampiamente diffuse nei mari, nel suolo, nell’aria e in tutti gli anelli della catena alimentare, le particelle di degradazione della plastica (microplastiche) entrano nell’organismo umano e sono documentabili in vari organi e tessuti fino a superare la barriera cellulare e, sebbene i loro effetti sulla salute non siano ancora chiari, possono influire sullo stato di salute. I pediatri possono avere un ruolo importante nel ridurre l’utilizzo delle plastiche ricreando ambienti plastic free nei loro ambulatori e diffondendo consigli e informazioni alle famiglie in modo da migliorare i loro stili di vita e ridurne il consumo e la diffusione nell’ambiente.
La plastica è un materiale che per la sua economicità, versatilità nell’uso, facilità di produzione è entrata massicciamente nell’uso quotidiano. Si stima che, dall’inizio della sua produzione, intorno al 1950, siano state fabbricate 8300 milioni di tonnellate (MT) di plastica vergine. Nel 2021 globalmente ne sono state prodotte 390,7 MT, di cui il 44 per cento riguardava i contenitori per l’imballaggio delle merci (packaging) [1]. È stato calcolato che di tutta la plastica prodotta dal 1978 a oggi il 79 per cento è finita dispersa in ambiente, il 9 per cento incenerita, e solo il 12 per cento riciclata.
I polimeri più comuni, circa il 99 per cento, sono prodotti da sostanze derivate dal petrolio, ma ve ne sono altri derivati da sostanze vegetali, come mais, zucchero di canna o patate (per esempio le plastiche usate per realizzare le buste per la spesa). Nessuna plastica, neanche il “biomais” o le plastiche etichettate come biodegradabili, lo è di fatto completamente; infatti, nessuna di queste, se posta in ambiente naturale, si decompone per almeno il 90 per cento entro sei mesi. Fattori quali la luce, l’umidità, l’ossigeno e la temperatura influenzano il tempo effettivo di degradazione, che per la plastica tradizionale all’aria può essere dell’ordine di centinaia di anni. Alcune materie plastiche, resistenti al calore fino a 250 °C e impermeabili ai gas, sono ampiamente utilizzate come contenitori per alimenti, liquidi, vaschette per frigo e forno, e sono praticamente impossibili da degradare biologicamente in qualsiasi circostanza!
I rifiuti di plastica hanno ormai contaminato l’ambiente naturale dalle terre emerse fino alle zone più profonde del mare, creato enormi isole galleggianti e imbrattato le spiagge [2].
La plastica dispersa in ambiente si sbriciola, nel tempo, in frazioni sempre più piccole: le microplastiche (MP), di dimensione inferiori 5 mm e superiori a 1 nanometro, e le nanoplastiche (NMP), di dimensioni comprese tra 1 e 100 nanometri. Le MP si presentano in genere sotto forma di sferule, fibre, particelle irregolari o lamine e possono essere “primarie” o “secondarie” a seconda che vengano immesse di quella dimensione stessa in ambiente o che derivino dalla frammentazione di plastica più grande. Le MP primarie rappresentano una fonte significativa di plastica nell’oceano (15-31 per cento del totale) e derivano per il 35 per cento dal lavaggio dei capi di abbigliamento sintetici, per il 28 per cento dall’usura degli pneumatici durante la guida e per il 2 per cento dai prodotti cosmetici, in cui possono essere aggiunte intenzionalmente. Le MP secondarie, invece, rappresentano il restante 68-81 per cento di quelle presenti negli oceani e provengono dalla degradazione di oggetti di plastica più grandi, come buste tipo shopper, bottiglie e oggetti per la pesca [3].
Le MP non si degradano quindi naturalmente, ma tendono ad accumularsi in diversi ambienti, come per esempio il mare, da cui possono passare nel sale da cucina, nei mitili, nei pesci; o il suolo, da dove possono penetrare in frutta e verdura; inoltre contaminano la polvere e l’aria domestica, l’aria esterna, le acque dolci superficiali, l’acqua potabile e le acque confezionate in bottiglia di plastica [4-6]; di conseguenza sono ormai “diffuse” in tutti i comparti naturali, incluso il corpo umano.
La natura eterogenea delle MP le rende difficili da studiare. Circa il 90 per cento della plastica prodotta a livello mondiale, tuttavia, rientra in una di queste sei categorie: HDPE, LDPE, PP, PVC, PS e PET (Polietilene ad alta e a bassa densità, polipropilene, cloruro di polivinile, polistirene, polietilentere ftalato). Sono tutte in grado di adsorbire sostanze chimiche dall’ambiente come PCB (policlorobifenili) PBDE (polibromodifelineteri) e IPA (idrocarburi policiclici aromatici), noti per essere tossici per la riproduzione, interferenti endocrini e cancerogeni. Queste molecole possono assorbire anche metalli pesanti (piombo, cadmio e mercurio) e batteri, a volte anche a concentrazioni molto più elevate dei loro immediati dintorni, come accade nelle isole di spazzatura. Le molecole plastiche inoltre, durante le fasi di degradazione, possono rilasciare (per lisciviazione) additivi sintetici, come gli ftalati, gli alchilfenoli e il bisfenolo A (BPA).
Come appena sottolineato, la microframmentazione che subisce la plastica quando viene rilasciata nell’ambiente è un problema serio, che non può più essere sottovalutato. Solo 70 anni fa la plastica non esisteva; ora è ovunque e sta contaminando ogni angolo del Pianeta. Greenpeace ha effettuato un’indagine nel mar Tirreno nell’estate 2020 [7]: nel tratto di mare investigato la presenza di MP e microfibre è aumentata nonostante il lockdown, con concentrazioni superiori al milione e mezzo di particelle per chilometro quadrato, paragonabili a quelle presenti nei grandi vortici oceanici. La presenza di MP è inoltre stata documentata dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri e dell’Università di Milano Bicocca addirittura sui ghiacciai che risultano, contrariamente alle aspettative, un gran deposito di immondizie. Nel ghiacciaio di Forni (alta Valtellina), i ricercatori delle due università milanesi hanno potuto conteggiare 74,4 MP per kilogrammo di detrito che, estrapolando, potrebbe indicare la presenza nella lingua del ghiacciaio di circa 150 milioni di particelle di plastica [8]. Non essendo biodegradabili, una volta presenti nell’ambiente, vi si accumulano e vi rimangono. Inoltre, data la loro dimensione esigua, possono spostarsi per via aerea sotto forma di fibre o di polveri e vengono quindi potenzialmente inalante e ingerite da tutti gli esseri viventi, sia marini che terrestri, potendo provocare disturbi neurologici e intaccare il loro sistema endocrino e l’apparato riproduttore. La ricaduta ambientale delle MP va ad alterare in primis tutti gli ecosistemi, ma riguarda poi necessariamente l’uomo che, oltre ad assorbire, inalare e ingerirle dall’ambiente, sta in cima alla catena alimentare. Pertanto, in maniera diretta e/o indiretta, la presenza di MP danneggia il pianeta a vari livelli, incluso l’uomo, ma ancora non sono completamente quantificabili i danni sulla salute umana.
La presenza di microparticelle plastiche in natura e negli organismi animali è nota da tempo, ma solo negli ultimi anni la letteratura scientifica si è concentrata sulla loro possibile presenza nell’organismo umano e sulle eventuali ricadute sulla nostra salute. Uno dei primi lavori che ne ha dimostrato la presenza nell’organismo umano le ha individuate nell’intestino, analizzando campioni di feci [9]. In questo studio del 2018 tutti gli 8 campioni di feci analizzati risultarono positivi per la presenza di MP, con una mediana di 20 MP (di dimensioni da 50 a 500 µm e di 9 tipologie differenti, di cui il PP e il PET sono risultati i più abbondanti) per 10 g di feci umane. Nel 2020 è stata evidenziata la presenza di MP in 4 placente umane che contenevano 12 frammenti totali di dimensioni comprese tra 5 e 10 μm, con forma sferica o irregolare, di cui tre identificati come PP [10]. A causa del ruolo cruciale della placenta nel sostenere lo sviluppo del feto e nell’agire come un’interfaccia tra quest’ultimo e l’ambiente esterno, la presenza di particelle esogene e potenzialmente dannose in tale organo ha necessariamente generato preoccupazione. Con la stessa metodica, condotta all’interno di in uno studio prospettico osservazionale pilota, è stata individuata la presenza di MP anche in campioni di latte materno umano, raccolti da 34 donne [11]. I composti più abbondanti sono risultati DPE, PVC e PP, con dimensioni comprese tra 2 e 12 μm. L’onnipresenza di MP nell’organismo umano è stata di recente confermata in un altro lavoro, che ha ricercato le particelle di plastica ≥700 nm nel sangue intero umano di 22 volontari sani [12]. I polimeri più presenti sono risultati PET, DPE e i PS, seguiti dal N-metilmetacrilato. Diventa quindi a oggi scientificamente plausibile che le particelle di microplastica possano essere portate agli organi attraverso il flusso sanguigno, anche se il loro tempo di permanenza nel sangue è attualmente sconosciuto, così come il loro “destino” all’interno del corpo umano. Le principali vie di assorbimento delle microplastiche più piccole sono probabilmente costituite dal contatto con le mucose (ingestione o inalazione). Le concentrazioni di particelle di plastica riportate potrebbero essere la somma di tutte le potenziali vie di esposizione: sorgenti nell’ambiente di vita in ingresso aria, acqua e cibo, ma anche eventuali prodotti per la cura della persona ingeriti, polimeri dentali, frammenti di impianti polimerici, nanoparticelle polimeriche di rilascio di farmaci, residui di inchiostro per tatuaggi. La letteratura ci mette quindi fronte alla certezza della presenza di MP e della loro persistenza nell’organismo umano, aprendo molti interrogativi su come queste possano interagire con la salute e su quali strategie si possano implementare per affrontare questo problema.
Tutte le persone sono quindi in stretto e frequente contatto con le materie plastiche e i loro prodotti di degradazione. Tra i soggetti più a rischio, oltre chi lavora nelle industrie plastiche, ci sono i bambini, dato che i prodotti di contaminazione delle plastiche si ritrovano in tutti i suoli indoor e outdoor. È noto da tempo che i composti organici e i metalli pesanti associati alle MP e NMP possono interferire con lo sviluppo del sistema nervoso e del sistema endocrino e sono quindi motivo di particolare preoccupazione. Per molti dei prodotti chimici più utilizzati nell’industria della plastica (per esempio BPA, ftalati, BFR) e per molti contaminanti organici, che sono facilmente assorbiti dalla plastica (per esempio IPA e PCB), sono stati dimostrati effetti di perturbazione endocrina. I meccanismi con cui le NMP possono nuocere alla salute includono: la capacità di causare reazioni infiammatorie nelle zone in cui entrano in contatto con l’organismo, come gli alveoli o le cripte intestinali; la capacità di traslocare attraverso barriere biologiche a causa delle loro piccole dimensioni; la capacità di agire come vettori di miscele chimiche, contribuendo così a questo tipo di esposizione.
In generale, una volta penetrate all’interno del nostro organismo, queste particelle possono rimanere sulla superficie alveolare o intestinale, causando fenomeni infiammatori, o traslocare in altre parti del corpo [13]. Le MP e le NMP possono essere assorbite dalle cellule attraverso una serie di vie, ma principalmente attraverso l’assorbimento di nanoparticelle per endocitosi, in cui si verifica l’interazione adesiva delle nanoparticelle con la proteina di trasporto. Sono state identificate diverse vie endocitotiche, come la fagocitosi e la macropinocitosi, insieme all’endocitosi mediata da clatrine e caveole.
Diversi studi in vitro e in vivo hanno dimostrato che le MP e le NMP nel corpo umano sono in grado di causare danni fisici, apoptosi, necrosi, infiammazione, stress ossidativo ed alterata risposta immunitaria. Alcuni monomeri tossici come il PVC, il policarbonato (PC) e il PS, introdotti nell’organismo umano per inalazione e/o ingestione, sono risultati associati a genotossicità e cancro per azione mutagenica cellulare, induzione dello stress ossidativo e alterazioni metaboliche [14]. Un piccolo numero di studi su animali ha evidenziato la presenza di questi effetti tossici derivanti dall’esposizione a NMP. Attualmente gli studi sono in fase iniziale e hanno alcune importanti limitazioni legate sia alle molecole che vengono usate sperimentalmente, prevalentemente rappresentate da un unico tipo di molecole di PS, sia al fatto che si concentrano quasi solo sugli effetti acuti spesso, trascurando gli effetti a lungo termine dell’esposizione a NMP. Ancora inesplorata rimane la potenziale tossicità delle NMP su alcuni sistemi e, in particolare, sul cervello in via di sviluppo.
Infine, le particelle di plastica possono fungere da vettori per un gruppo diversificato di sostanze chimiche: sostanze utilizzate nella produzione di plastica come ftalati, BPA e BFR, nonché sostanze assorbite dalla plastica nell’ambiente come IPA, triclosan, pesticidi organoclorurati e PCB, oppure metalli come cadmio, zinco, nichel e piombo, di cui è ben nota la tossicità, spesso aggiunti come coloranti, biocidi o stabilizzanti [15]. Tutto ciò aumenta la complessità dei possibili effetti nocivi di questa esposizione, rendendone al contempo più difficile lo studio. Numerosi lavori hanno riportato effetti avversi sulla salute derivanti dall’esposizione al BPA, anche a basse dosi, identificando il suo ruolo quale “interferente endocrino e genomico”, causa di disturbi metabolici e alterazioni del neurosviluppo nei bambini, più vulnerabili alla sua esposizione rispetto alla popolazione adulta. In quanto capaci di “interferire” con l’azione degli ormoni endogeni prodotti dall’organismo umano (ormoni tiroidei, estrogeni, glucocorticoidi), si comportano in modo sovrapponibile a essi e utilizzano prevalentemente gli stessi recettori nucleari e di membrana; inoltre agiscono già a livelli bassi di concentrazione e seguono la stessa curva dose-effetto di tipo non monotono. I loro effetti sembrano dipendere da tre variabili: livello di esposizione, momento di esposizione e sesso del soggetto esposto. Il periodo fetale è il momento di maggior suscettibilità: gli ormoni guidano lo sviluppo dell’organismo e le sostanze che interferiscono con la loro azione possono alterarlo, con ripercussioni anche nell’età adulta. Il BPA, infatti, può interagire anche con gli enzimi deputati alla steroidogenesi, che rivestono ruolo chiave per lo sviluppo dell’encefalo, sia in epoca prenatale che nella prima infanzia. Riconosciuto dalla corte UE come altamente pericoloso, il BPA è stato pertanto bandito in Italia in prodotti quali biberon e giocattoli, bottiglie di plastica e imballaggi alimentari. In ogni caso, il suo impiego è ancora consentito nel settore della plastica in tutta Europa [16].
Gli ftalati, invece, sono utilizzati come plastificanti nella produzione di polimeri di PVC e plastisol per ottenere una maggiore flessibilità e durata. Anche questi sono noti come “interferenti endocrini” e possono agire già durante il primo trimestre di gravidanza, una finestra di particolare vulnerabilità per il feto. Assieme ad altri interferenti endocrini cui possono essere esposte le donne in gravidanza, essi possono entrare in antagonismo con la funzionalità tiroidea ed estroprogestinica materna. Ricordiamo che durante il primo trimestre di gravidanza gli ormoni tiroidei sono quelli materni, dato che la ghiandola fetale inizia a funzionare solo dopo la decima settimana. È quindi importante una buona funzione della tiroide materna nel primo trimestre, in quanto eventuali alterazioni si possono ripercuotere negativamente sullo sviluppo neurologico del feto. Ricordiamo anche che gli estrogeni sono importanti per il buon andamento della gravidanza e che una loro alterazione può esitare in aborto o parto prematuro. Sia l’esposizione prenatale che quella post natale agli ftalati sarebbero correlate a un aumentato rischio di obesità, diabete e sindrome metabolica. Anche il Triclosan, un composto fenolico usato come antisettico e disinfettante in molti saponi e dentifrici, gli organostannici e i BFR, usati come stabilizzatori termici in prodotti in PVC e nella sintesi del poliestere, sono interferenti endocrini.
Le famiglie generano direttamente attraverso le loro attività circa tre quarti (77 per cento) dei rilasci di MP, il resto è generato dalle attività economiche. La maggior parte di questi rilasci domestici si verifica durante la fase di utilizzo dei prodotti (49 per cento) e il resto (28 per cento) durante la manutenzione. L’uso dell’automobile personale incide per un terzo (38 per cento). L’azione sulle famiglie pertanto è fondamentale per promuovere la salute dei bambini, ma anche la salute globale. L’acquisizione della consapevolezza dei possibili danni derivanti dalla plastica è il primo dei passaggi necessari per i genitori e le famiglie e anche per i pediatri, sia perché tale problematica è sottovalutata, sia perché la plastica è diventata parte integrante della vita delle famiglie e un cambiamento, pur auspicabile, risulta complesso.
La formazione degli stessi pediatri sull’argomento è necessaria ed è lo strumento preliminare per un’azione efficace, univoca e coerente di natura comunicativa. Intanto, è possibile dare qualche indicazione di massima. Gli ambulatori pediatrici devono essere “plastica free” per mostrare un esempio pratico di riconversione possibile, a partire dai giochi messi a disposizione dei bimbi in sala d’attesa e dalle suppellettili. Durante i bilanci di salute sarebbe inoltre opportuno ascoltare i genitori, chiedere delle loro abitudini e suggerire soluzioni alternative all’uso della plastica. Detto questo, risulta indispensabile prescrivere insieme al latte adattato, quando necessario, il biberon di vetro o di acciaio ed enfatizzare l’obbligatorietà dell’indicazione; prescrivere insieme alle norme per il sonno sicuro la necessità di usare per la biancheria dal letto solo ed esclusivamente fibre naturali e vietare categoricamente nel letto del bambino la presenza di peluches e bambole di materiale plastico. È questa l’occasione per suggerire di evitare tali giocattoli nella vita quotidiana almeno fino ai tre anni di vita, quando è prevalente il comportamento bocca-mano, e possibilmente anche in seguito; la presenza nella sala d’attesa di uno spazio giochi “plastica free” aiuterà la comunicazione.
I pediatri potranno aiutare i genitori ad acquisire confidenza con la lettura dell’etichetta degli abiti e dei tessuti, ricordando che ogni abito ne è fornito obbligatoriamente per legge, e invitandoli a scegliere vestiti e tessuti per l’arredo della casa di fibre naturali.
Il momento dello svezzamento è quello giusto per ricordare di evitare di usare cibi che abbiano avuto contatto con la plastica (per esempio suggerire lo yogurt in vetro, i formaggi affettati sul momento ecc.), di non usare gli strumenti da cucina di plastica come per esempio coppe, insalatiere, piatti, cucchiaini, frullatori o di sostituirli gradualmente.
Risulta indispensabile ricordare la necessità di arieggiare gli ambienti e soprattutto di pulire mobili e pavimento con lo straccio umido per ridurre il rischio di inalazione e ingestione della polvere di casa, soprattutto per i bambini più piccoli. Vanno assolutamente sconsigliati tappeti e moquettes. In ogni occasione possibile va promosso lo spostamento a piedi o in bicicletta e la riduzione dell’uso dell’automobile.
Queste indicazioni di massima andrebbero organizzate, vista l’urgenza e l’importanza del problema, in un piano comunicativo organico e collettivo condiviso da tutti i pediatri a livello nazionale.
Annamaria Moschetti, pediatra, Taranto
Annamaria Sapuppo, Università di Catania
Giacomo Toffol, pediatra di famiglia, Ulss Asolo
Elena Uga, pediatra SC Pediatria, Asl Vercelli
Per il gruppo Pediatri per un mondo possibile – PuMP, Acp
Bibliografia
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Quaderni acp dell’Associazione culturale pediatri con cui il punto ha avviato una collaborazione per affrontare insieme, con un taglio interdisciplinare e dialettico, le tematiche nell’ambito della salute materno-infantile.
La nota di Chiara Centenari del gruppo Acp "Pediatria di genere"
La nota di Sarantis Thanopulos sull’opportunità dell’utilizzo dei farmaci bloccanti della pubertà nei pre-adolescenti con disforia di genere
L’articolo di Letizia Fattorini su SaluteInternazionale