Impegnarsi per i colleghi delle nazioni sanzionate
Sandro Galea
della School of public health di Boston considera controproducente un boicottaggio accademico della Russia. Qualsiasi azione che intraprendiamo dovrebbe essere mirata a fare la differenza.
Dura ormai da quasi un mese la guerra della Russia contro l’Ucraina. La violenza di questa invasione ingiusta e non provocata è stata davvero scioccante. Assistendo a tale orrore, viene naturale chiedersi: qual è l’azione giusta da intraprendere?
Ho scritto in precedenza della nostra responsabilità individuale, per come la vedo io, in questi momenti. In questo articolo voglio porre una domanda più ampia: che risposta dovremmo dare, come comunità accademica e come individui impegnati a costruire un mondo migliore, a un male così spudorato? Dall’inizio dell’invasione, molti Paesi hanno tagliato i ponti con la Russia, interrompendo le relazioni economiche, politiche e culturali. Abbiamo assistito a un distacco simile messo in atto da istituzioni chiave, poiché società, squadre sportive, organizzazioni artistiche e università hanno valutato il boicottaggio della Russia. Questo fa sorgere una domanda: dovremmo, come comunità scientifica, andare in questa direzione?
È importante non semplificare eccessivamente la complessa questione delle collaborazioni scientifiche in tempo di guerra.
Sandro Galea
Una simile domanda, che emerge dalla complessa realtà della guerra e della politica internazionale, richiede una risposta che rifletta questa complessità. Non è una novità riconoscere come la complessità del mondo si intersechi con il nostro lavoro. Lo facciamo, ad esempio, ogni volta che dichiariamo i nostri conflitti di interesse riguardo un documento di ricerca. Proprio come dovremmo fare attenzione a non semplificare eccessivamente il modo col quale affrontiamo i conflitti di interesse (argomento che ho toccato sull’American Journal of Public Health), è importante non semplificare eccessivamente la complessa questione delle collaborazioni scientifiche in tempo di guerra.
La complessità dei conflitti d’interesse | Nell’articolo prima citato da Sandro Galea, l’autore ha sottolineato come i conflitti d’interesse non di ordine economico pongano sfide particolari per la sanità pubblica. Sebbene i finanziamenti economici – e i potenziali conflitti che ne derivano – siano facili da definire e in parte anche da determinare, è molto più difficile giungere giudicare i comportamenti motivati dal desiderio di avanzamento professionale, dall’appartenenza a network di ricerca disciplinari o a un’ideologia di riferimento. Esplicitare questi “conflitti” migliorerebbe la ricerca? Anche il definirli “conflitti” è appropriato oppure sarebbe meglio chiamarli in altro modo?
Cominciamo, tuttavia, da ciò che è semplice. L’invasione russa dell’Ucraina è un atto criminale. Nella misura in cui qualsiasi azione a livello nazionale o internazionale possa servire ad aiutare a porre fine al conflitto e dissuadere i Paesi dall’impegnarsi in aggressioni del genere in futuro, dovrebbe essere messa in atto. Dovremmo anche aver chiare le nostre responsabilità, in quanto ricercatori che si occupano della salute della popolazione, nel contribuire a far luce sulle conseguenze della guerra sulla salute, chiarendo in ogni modo che un mondo in salute è un mondo senza guerra. Per chi fosse interessato, la nostra School of public health della Boston university è occupata ulteriormente di questo argomento durante un dialogo che abbiamo ospitato il 29 marzo, “Le conseguenze della guerra sulla salute“.
Vale anche la pena notare che il mondo accademico ha alle spalle un lavoro di anni teso a cambiare il comportamento dei governi che perseguono politiche ingiuste, attraverso boicottaggi e altre forme di pressione. Basti pensare, ad esempio, al boicottaggio accademico del Sudafrica durante l’apartheid. Si tratta di azioni coerenti con quelle di un attivista per la sanità pubblica impegnato a promuovere un cambiamento nel senso del progresso e con l’importanza ancora maggiore del sentirsi dalla parte giusta della storia di fronte a stringenti questioni morali. A volte è importante, anzi necessario, tracciare una linea.
Rifiutarsi di lavorare con collaboratori accademici russi che non hanno legami con l’establishment politico o militare del Paese: queste azioni sono – nel migliore dei casi – controproducenti e – nel peggiore – un tradimento dei nostri valori come società e come comunità.
Sandro Galea
Ma dobbiamo fare attenzione quando lo facciamo. Il disimpegno ha dei costi e non favoriamo la nostra ricerca di un mondo migliore respingendo i popoli delle nazioni oggetto di boicottaggio. Se non stiamo attenti, le azioni di boicottaggio condotte con mano pesante possono compromettere lo stesso dialogo che è alla base delle soluzioni avanzate in tempi di conflitto. Possono anche privarci della diversità e della ricchezza culturale che rendono la nostra società quello che è. Mettere al bando il lavoro degli artisti russi, ad esempio, è controproducente. Tali azioni, inoltre, non fanno nulla per impedire l’aggressione russa in Ucraina. Questo è un altro punto chiave. Qualsiasi azione che intraprendiamo dovrebbe essere mirata a fare la differenza. Interrompere i rapporti tra i ricercatori di quella nazione e il governo russo, disimpegnarsi dalle relazioni economiche, pronunciarsi chiaramente contro la guerra sia come ricercatori in ambito di sanità pubblica sia come angosciati esseri umani: queste sono tutte azioni utili che possono aiutare a informare la risposta globale all’aggressione russa. D’altra parte, stigmatizzare i singoli russi, rifiutarsi di lavorare con collaboratori accademici russi che non hanno legami con l’establishment politico o militare del Paese: queste azioni sono – nel migliore dei casi – controproducenti e – nel peggiore – un tradimento dei nostri valori come società e come comunità.
Ciò premesso, mi sembra possano essere tre i punti chiave capaci di guidare il nostro pensiero in questo momento.
In primo luogo, le conseguenze delle nostre azioni contano. Non dovremmo esitare ad agire laddove possiamo fare la differenza. Ad esempio, al momento, interrompere il dialogo con il governo russo e le istituzioni ad esso legate è ragionevole e giusto. Interrompere la collaborazione con i colleghi russi che non sono dichiaratamente allineati alle azioni del loro governo, tuttavia, non ha alcuno scopo. È contrario ai valori su cui poggia il lavoro di ricerca e indebolisce il nostro ambito disconnettendoci dalle idee che aiutano a sostenerlo. Da una prospettiva puramente consequenzialista, un boicottaggio accademico della Russia aiuterebbe poco e danneggerebbe molto la nostra ricerca di un mondo in migliore salute.
Cosa intendiamo con consequenzialismo? | È una classe di teorie etiche normative e teleologiche che sostiene che le conseguenze della propria condotta sono la base ultima per il giudizio sulla correttezza o scorrettezza di tale condotta. Quindi, da un punto di vista consequenzialista, un atto è moralmente giusto (o un’omissione dall’agire) se produrrà un buon risultato. È un approccio opposto all’etica deontologica nella quale regole e dovere morale sono centrali a prescindere dall’esito del proprio comportamento.
In secondo luogo, c’è un’importante distinzione da fare tra le azioni di un governo e i cittadini di una nazione. Il presidente russo Putin è solo una persona tra milioni e molti di quei milioni pensano che sia in errore. In effetti, alcuni dei più coraggiosi e accesi oppositori della guerra sono russi. Identificare con la guerra tutti i cittadini russi non fa che rafforzare le divisioni che ostacolano la pace ed è ingiusto nei confronti dei russi che non hanno nulla a che fare con ciò che sta accadendo in Ucraina.
Terzo, dovremmo stare sempre attenti a tracciare delle linee. Pochi Paesi non sono colpevoli di qualche forma di ingiustizia, che si tratti di guerra aggressiva, persecuzione di cittadini, azioni irresponsabili riguardo al cambiamento climatico o qualsiasi altra trasgressione. Sono consapevole della potenziale accusa di “whataboutism” (con il termine “whataboutism” si intende – in inglese – il rispondere a una accusa sostenendo che vi sono altre situazioni equivalenti o peggiori che l’accusatore tace, ndr).
I comportamenti spregevoli di altri Paesi non esonerano neanche per un momento i danni perpetrati in queste settimane dalla Russia e, ovviamente, è necessario sostenere con forza che le azioni della Russia in Ucraina costituiscono una violazione continua e fuori dal comune dei diritti umani e della decenza. Per questo motivo, è opportuno che nazioni e istituzioni intraprendano le azioni che hanno messo in atto contro il regime di Putin. Ma se tagliamo i legami con i ricercatori russi a causa delle azioni del loro governo, significa che dobbiamo fare lo stesso con gli accademici dell’Arabia Saudita, un Paese che ha appena decapitato 81 persone in un solo giorno? O con gli studiosi cinesi, il cui governo sta commettendo un genocidio nei confronti degli uiguri nello Xinjiang? O, in effetti, nei riguardi dei ricercatori statunitensi, a causa della nostra stessa interferenza con il funzionamento democratico di altri Paesi? C’è ampia disponibilità di prove contro la maggior parte dei governi da esibire dinanzi al giudizio dell’opinione internazionale, ma questo non ci ha impedito di distinguere tra le azioni dei governi e quelle dei singoli cittadini. Né dovrebbe trattenerci dal farlo ora.
Nei momenti in cui la storia ci chiede di schierarci in un conflitto tra il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, è necessario agire in modo da poter giustificare le nostre istituzioni, i nostri pari e i nostri bambini.
Sandro Galea
La scorsa settimana, Springer Nature ha inviato un’e-mail in cui spiegava la sua decisione di continuare ad accettare i contributi dei ricercatori russi. Diceva, a un certo punto: “Nel corso della storia, durante molti conflitti, abbiamo lavorato per garantire che i ricercatori di tutto il mondo, indipendentemente da razza, genere, religione o nazionalità, siano in grado di collaborare a progetti di ricerca in modo che non siano isolati nello scambio delle idee. Compresi gli autori che si trovano in territori sottoposti a sanzioni per ragioni a loro non imputabili e che, se in grado di connettersi con la comunità più ampia, avrebbero ancora un contributo positivo da dare”. Sono d’accordo. Nei momenti in cui la storia ci chiede di schierarci in un conflitto tra il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, è necessario agire in modo da poter giustificare le nostre istituzioni, i nostri pari e i nostri bambini. Dovremmo fare attenzione, tuttavia, a farlo con ponderatezza, consapevoli delle sfumature e della realtà complessa del mondo in cui viviamo. In questo momento travolto dalla guerra, dovremmo bilanciare il tracciamento delle linee con la costruzione di ponti, mentre proseguiamo nell’impegno costruttivo per costruire un mondo migliore.
Sandro Galea Preside della School of public health della Boston university