Il primo turno notturno… “I’m so lonesome tonight”
La solitudine del medico nell’ospedale di notte: il racconto di Michela Chiarlo

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La solitudine del medico nell’ospedale di notte: il racconto di Michela Chiarlo
I’m so lonesome, I could cry
I’ve never seen a night so long
And time goes crawling by
The moon just went behind the clouds
To hide its face and cry1
Sono le dieci di sera di un piovoso giovedì di novembre. Sento le gocce ticchettare con regolarità sul soffitto in plexiglass della sala emergenze mentre accendo il computer e prendo posto sulla mia sedia. Lancio uno sguardo al monitor riassuntivo delle telemetrie e uno attraverso il vetro ai pazienti stesi in barella. È la mia prima notte e avverto l’inconfondibile sensazione di eccitazione e timore che si accompagna a un’esperienza inedita: sono al comando, per la prima volta. Il pronto soccorso è come una nave con il suo equipaggio, e ora mi trovo sulla plancia, cui la postazione della sala emergenze somiglia moltissimo. Per le prossime dieci ore dovrò traghettare la nave del pronto soccorso al porto sicuro del cambio del mattino. È la mia prima volta e mi sento completamente sola.
Mentre cerco di apparire sicura con il resto dell’equipaggio ripenso all’ultima volta che ho percepito così potente la solitudine in ambito professionale. Ero appena laureata, mi trovavo nello studio del medico di famiglia che avevo accettato di sostituire, nella pausa tra un paziente e il successivo. Un filo di inquietudine mi accompagnava costantemente: “Chissà quale problema varcherà la soglia con il prossimo paziente”; mi chiedevo: “Chissà se avrò una risposta adeguata o se sarà qualcosa di cui non so nulla”. In quell’occasione ho realizzato per la prima volta quanto il nostro sia un lavoro solitario.
Fare il medico ha poco a che fare con l’avere la risposta giusta e molto con avere sempre una risposta. È un mestiere fatto di azioni immediate e di riflessioni a posteriori; di decisioni prese in solitudine e di dubbi condivisi.
“Ma se siete sempre a contatto con la gente!” dirà qualcuno. Vero, ma siamo sempre soli a dover rispondere alle loro domande e aspettative, soli a prendere decisioni complesse, soli a comunicare notizie difficili, soli e spesso senza alcuna certezza. Il bello della medicina è che non è matematica, premesse identiche possono condurre a risultati diversi, il brutto della medicina è che non è ingegneria: non riconosci gli incontrovertibili frutti del tuo lavoro, se il paziente migliora potrebbe sempre trattarsi di vis sanatrix naturae, se peggiora forse era una situazione troppo grave per essere trattata… o forse no.
Fare il medico, ho imparato durante quel mese di sostituzioni, ha poco a che fare con l’avere la risposta giusta e molto con avere sempre una risposta. È un mestiere fatto di azioni immediate e di riflessioni a posteriori; di decisioni prese in solitudine e di dubbi condivisi.
Per tutta l’università e la scuola di specialità ci abituiamo a condividere le decisioni, a essere costantemente supervisionati, ad apprendere dai più esperti, a studiare con i colleghi e confrontarci con loro, scendendo lentamente a patti con l’incertezza del mestiere, facendoci compagnia nei colloqui difficili, supportandoci nelle scelte, ma, inevitabilmente, prima o poi, arriva il momento in cui ci troviamo inesorabilmente soli e la decisione, con le sue ramificate conseguenze, è solo nostra.
Lo squillo del telefono del 118 mi scuote dai miei pensieri. Alzo la cornetta con quel misto di ansia e curiosità che caratterizza il lavoro del medico d’urgenza. Rosso uno Sierra, dice la centrale, vuol dire grave trauma stradale: un motociclista in arresto cardiaco, manovre rianimatorie in corso, tempo stimato all’arrivo di 5 minuti.
Chiamo il rianimatore e dall’altro capo del filo sento una voce amica: è un mio compagno di università, anche lui alla sua prima notte. Forse avrei preferito qualcuno di più esperto ad aiutarmi, ma traggo comunque uno strano conforto dalla reciproca conoscenza.
I momenti che precedono l’arrivo di un codice rosso sono gli unici in cui il pronto soccorso somiglia a quello delle serie TV. C’è un’aria di trepida attesa, un agitarsi sommesso di persone che apprestano postazioni e attrezzature, indossano camici monouso e guanti, si affacciano alla porta, tendono l’orecchio per captare la sirena dell’ambulanza. Il silenzio carico d’attesa è pronto a essere interrotto da un momento all’altro, quando faranno il loro ingresso i soccorritori, i monitor con gli allarmi e la barella del paziente. In quei minuti che sembrano eterni incrocio lo sguardo del mio collega e leggo nei suoi occhi i miei stessi pensieri: “Poteva capitarci una prima notte più tranquilla però…” e “Sono contento che almeno siamo in due”.
Does it worry you to be alone?
How do I feel by the end of the day?
Are you sad because you’re on your own?
No, I get by with a little help from my friends2
Ogni reparto di ogni ospedale in cui sono stata ha un nome in codice per indicare la presenza di cibo e caffè in cucina che spesso esprime tutta l’italica creatività. “Tutto il personale è atteso in stanza 37”, “C’è una consulenza in sala C”, “Dottore, Codice nero”, “C’è il dottor Vergnano al telefono di là”. Se si sapesse quali conversazioni avvengono talvolta durante queste pause non ci sarebbe bisogno di espedienti tanto fantasiosi per indicare una necessità fisiologica. “Glielo metteresti il meropenem a questa sepsi?”; “Che ne pensi di questo ECG?”; “C’è questo caso a cui ripenso da ieri”. L’ultima frase salta fuori a un collega più giovane di me mentre è già con un piede oltre la porta alla fine di quello che deve essere stato un turno parecchio impegnativo. Riconosco il germe del dubbio che mi ha attanagliato più volte e lo blocco sulla soglia: “Ti offro un caffè così mi racconti”. Rivediamo insieme passo a passo il suo paziente, le comorbilità, gli esami, la terapia e il setting di intensità di cure. È uno di quei casi giunti troppo tardi alla nostra attenzione, con una situazione troppo grave in partenza, in cui l’esito era prevedibilmente incerto, ma che, se va male, ti spinge a chiederti se si sarebbe potuto fare di più. Pur sapendo che l’incertezza è connaturata al nostro lavoro a volte vorremmo solo sapere di aver fatto “tutto il possibile”, anche se questo “tutto” non è mai chiaro cosa sia. Non ho la risposta giusta per il paziente del mio collega, ma sento che parlarne con me lo rassicura. Durante la specialità capitava di condividere la tristezza per un errore commesso o per un paziente per il quale non c’era più nulla da fare: c’era sempre un compagno di studi a portata di mano con cui confidarsi o dal quale farsi rassicurare. La vita da strutturato è molto più solitaria e la sofferenza spesso non è alleviata dalla condivisione con altri colleghi. Il peso della perdita di un paziente, se non condiviso, può essere schiacciante.
Mi torna in un lampo in mente quella prima notte, io e il rianimatore, ugualmente spaventati, ad attendere l’incidente motociclistico, a tendere l’orecchio alla sirena dell’ambulanza che ora si avverte distintamente.
Il tempo rallenta spasmodicamente fino all’apertura delle porte, poi tutto accade in un istante: entra in barella un ragazzo muscoloso, tatuato e cianotico. Basta un’occhiata a capire che è in condizioni disperate. Proseguiamo le manovre rianimatorie, intubazione, massaggio cardiaco, connessione al ventilatore. Le coste del ragazzo scattano sotto le dita dell’infermiere che pratica il massaggio cardiaco, le sue braccia sono deformate, segno di fratture multiple e di un incidente a dinamica molto elevata. Il tempo passa velocissimo, mezz’ora: pupille fisse, nessun cenno di ripresa del polso. Tre quarti d’ora: compare una sinistra linea piatta al monitor. Cinquanta minuti: ci arrendiamo.
Nessuno nella realtà si sogna di dire “Ora del decesso: 00.35”, ci si guarda negli occhi e, con delusione, si propone “fermiamoci”.
Il tempo torna a dilatarsi attorno alla barella in mezzo ai resti dell’emergenza: garze, tubi, siringhe dell’emogasanalisi, brandelli di vestiti, tracce di sangue. I nostri muscoli stanchi per lo sforzo del massaggio cardiaco e un corpo freddo sulla barella.
La parte peggiore, però, deve ancora arrivare: parlare ai parenti che aspettano notizie fuori dalla porta. Guardo il mio collega e leggo nei suoi occhi i miei stessi pensieri, vorrei essere ovunque tranne che qui, a comunicare a una ragazza della mia età svegliatasi in piena notte con un vuoto nel letto che il suo compagno quel vuoto non tornerà a riempirlo più.
Eppure ci alterniamo a parlare, completiamo l’uno le frasi dell’altro e, per quanto si tratti di un colloquio straziante, in due ci sentiamo meno soli. Abbiamo fatto tutto il possibile, insieme, ne siamo sicuri.
L’ospedale è come un condominio: pieno di persone che conducono esistenze isolate finché non vai a suonare il campanello a un vicino e a chiedergli in prestito lo zucchero.
La solitudine è la sensazione dolorosa di assenza di contatto sociale o di appartenenza; sembrerebbe un problema dei medici che operano da soli sul territorio, più che di chi lavora in un grande ospedale. In realtà l’ospedale è come un condominio: pieno di persone che conducono esistenze isolate finché non vai a suonare il campanello a un vicino e a chiedergli in prestito lo zucchero.
La formazione universitaria sembra puntare alla creazione di un super-medico onnisciente e autonomo, fornito del bagaglio culturale e delle conoscenze necessarie a curare i propri pazienti senza bisogno di nessuno, come se fossimo ancora nel diciannovesimo secolo, quando i medici condotti sapevano e facevano tutto ciò che il ridotto volume delle conoscenze mediche consentiva loro. Padroneggiare l’intero sapere medico, oggi, è quanto mai utopistico, ma ciò non toglie che negli ospedali le consulenze siano spesso interpretate come scocciature o come scarichi di responsabilità legali più che come occasioni di confronto tra colleghi di diverse specialità.
Trovarsi all’improvviso a curare una malattia nuova e ugualmente sconosciuta per tutti, come accaduto a inizio 2020 con la covid-19, ha ribaltato le prospettive: sono nati gruppi spontanei multidisciplinari di condivisione di competenze e (ancora scarse) esperienze e sono state deposte rivalità di vecchia data. Nonostante l’apparente solitudine delle tute da biocontenimento, lavorare fianco a fianco per lunghe ore, facendo ciò che serve, badando alle necessità più che ai ruoli, affrontando ondate interminabili di pazienti sempre più gravi ha creato una complicità inattesa che ha consentito di condividere decisioni difficili dividendone il peso.
Una volta vinta l’iniziale ritrosia, bussare ai vicini per chiedere lo zucchero può far nascere proficue collaborazioni.
L’ospedale di notte resta una nave, isolata dall’esterno e in attesa di giungere in porto, ma come una nave è pieno di gente che si adopera per azionare i motori, mantenere la rotta, comunicare con l’esterno. C’è qualcosa di confortante nel dormire in cabina sapendo che la nave continuerà a viaggiare, così come è confortante, per chi sta in plancia, sapere che un aiuto o un consiglio sono a portata di telefono.
Alla mia prima notte sono seguite altre notti anche più difficili, frustranti o faticose, ma quel senso di solitudine non è più tornato.
Hard to be sure
Some times I feel so insecure
[…]
Remains the cure
All by myself
Don’t want to be all by myself anymore3
Michela Chiarlo
Reparto di Medicina d’urgenza
Ospedale San Giovanni Bosco di Torino
Note bibliografiche
1. Hank Williams, I’m so lonesome I could cry. Traduzione: “Sono così solo che potrei piangere, non ho mai visto una notte così lunga, e il tempo scivola via lentamente, la luna si è appena nascosta dietro alle nuvole, per nascondere la faccia e piangere”.
2. The Beatles, With a little help from my friends. Traduzione: “Ti preoccupa stare da solo? Come mi sento alla fine della giornata? Sei triste perché sei solo? No, me la cavo con un po’ di aiuto da parte dei miei amici”.
3. Eric Carmen, All by myself. Traduzione: È difficile esserne sicuri, a volte mi sento così insicuro, ma rimane la cura. Tutto solo, non voglio stare mai più tutto solo.
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