Erano 195 nel corso dell’anno 2000. Cinque anni dopo, 201 che diventavano 212 nel 2010. Ancora cinque anni e il numero cresceva fino ad arrivare a 384. A dicembre 2021 il numero era quasi raddoppiato. Sono infatti 747 gli articoli pubblicati negli ultimi dodici mesi sulle armi da fuoco nelle riviste indicizzate nella biblioteca dei National institutes of health, quella a cui accediamo quotidianamente attraverso PubMed.
È la conferma di un interesse crescente da parte dei medici e dei dirigenti sanitari per un problema – quello rappresentato dal possesso individuale di pistole e fucili – che costituisce ormai un grave pericolo per la salute (e molto spesso) per la vita della popolazione degli Stati Uniti. E non solo.
“A dispetto di decine di migliaia di omicidi e suicidi che avvengono ogni anno ricorrendo ad armi da fuoco – scriveva nel 2020 Jerome Kassirer sul JAMA Internal Medicine – e nonostante gli omicidi di massa quasi settimanali nelle scuole e sul posto di lavoro, nonostante gli Stati Uniti abbiamo una sorta di leadership tra le nazioni in materia di vittime di armi da fuoco, dobbiamo constatare che la legislazione nazionale sulle armi da fuoco è giunta ad un binario morto. Le pistole sono ovunque: nelle strade, nei centri commerciali, nelle nostre chiese e nelle nostre case. È diventato troppo facile in un momento di rabbia o depressione afferrare un’arma carica nel cassetto di una scrivania e uccidere qualcuno o noi stessi, e lo conferma la comunicazione di Butler et al” [1, 2].
Piuttosto che proteggere dagli intrusi – spiega Kassirer – le pistole in casa hanno molte più probabilità di essere causa di omicidio o suicidio che si autodifesa.
L’attenzione riservata da alcune tra le più note e diffuse riviste medico-scientifiche del mondo è il segnale della gravità del problema e dell’importanza che riviste anche per i professionisti sanitari. Sembra però che un approccio di sanità pubblica alla questione della sicurezza delle armi sia almeno in certa misura fallito. Quello che avrebbe potuto essere considerato da molti – se non da tutti – un problema da risolvere, è diventato invece un argomento sul quale posizioni diverse si sono polarizzate paralizzando l’evoluzione della normativa a tutto vantaggio, negli Stati Uniti, della National Rifle Association. È questo un organismo particolarmente attivo e capace di orientare le posizioni di parlamentari statunitensi, oltre che dei cittadini.
Ritengo che i medici abbiano un ruolo essenziale nella prevenzione delle lesioni correlate alle armi.
Jerome P. Kassirer
Kassirer – che per lunghi anni è stato editor-in-chief del New England Journal of Medicine, vale a dire di una delle più autorevoli riviste scientifiche internazionali – spiega quanto una legislazione più prudente e meno permissiva possa essere efficace sulla riduzione del danno da armi da fuoco: “il Massachusetts è un caso emblematico, in cui la legislazione che si è andata accumulando nel corso degli anni ha portato alle più rigorose leggi sulle armi da fuoco della nazione e al numero di decessi dovuto ad armi da fuoco più basso nel mondo” [3].
Per comprare una pistola in Massachusetts si deve prima ottenere una licenza da un dipartimento di polizia locale; pagare una tassa di 100 dollari; essere fotografato, lasciare le impronte digitali, essere intervistati e sottoposti a un controllo dei precedenti legali; seguire un corso sulla sicurezza delle armi e attendere diverse settimane che il processo sia completato. E non basta: anche se chi richiede il porto d’armi soddisfa tutti questi requisiti, la domanda può essere respinta in base alla valutazione di un dirigente della polizia. Una volta che un’arma da fuoco viene acquistata da un negozio o da un privato, deve essere registrata nel portale online dello stato di residenza e i proprietari sono tenuti a conservare l’arma con una sicura o in una cassaforte e a segnalare qualsiasi perdita o furto. Ad ogni modo, una licenza può essere sospesa dalla polizia se il proprietario è ritenuto pericoloso.
Cosa può fare il medico?
Sebbene i medici spesso ritengano che discutere di armi da fuoco rientri nelle loro responsabilità, lo fanno raramente [4]. Da una parte c’è sempre il problema della mancanza di tempo e dall’altra la mancanza di conoscenza, spiega una rassegna pubblicata sugli Annals of Internal Medicine. Ma il punto di vista del medico sarebbe fondamentale per distinguere le persone più a rischio (per esempio quelle con ideazione suicidaria o omicida), quelle con caratteristiche di rischio individuali (compreso chi abusa di alcol o sostanze, chi ha precedenti di violenza, chi soffre di demenza o altro tipo di decadimento cognitivo). L’identificazione dei pazienti con fattori di rischio consente ai medici di indirizzare i propri interventi.
“L’intervento clinico al di là del counselling – spiegano gli autori del lavoro sugli Annals – è indicato quando il paziente o chiunque viva con lui sia a rischio imminente” [4]. In tali situazioni, il ruolo del medico è quello di aiutare a impedire almeno temporaneamente l’accesso alle armi da fuoco e di facilitare il trattamento delle condizioni mediche o psichiatriche responsabili del rischio aumentato. Può essere necessario un consulto immediato con un collega specialista in salute mentale per un’adeguata gestione del problema. Nei contesti in cui questa opzione non fosse prontamente disponibile, rivolgersi ai servizi di emergenza sanitaria può essere l’opzione migliore. Uno degli aspetti sui quali maggiormente insiste la letteratura scientifica è la necessità che il medico curi una sorta di follow-up successivamente al colloquio con la persona a rischio che conserva un’arma nella propria abitazione.
La percentuale di medici capaci di prendere l’iniziativa cresce tra i professionisti che hanno seguito uno specifico corso di educazione medica continua.
L’importanza del ruolo del medico potrebbe suggerire la proposta di corsi di aggiornamento sul tema. Un’indagine svolta ancora negli Stati Uniti ha dimostrato che sebbene quasi sette medici su 10 ritengano di sapere come comportarsi di fronte ad un proprio assistito che presenta problematiche di questo tipo, solo meno di tre di loro affrontano regolarmente la questione parlandone col paziente. La percentuale di medici capaci di prendere l’iniziativa cresce tra i professionisti che hanno seguito uno specifico corso di educazione medica continua.