Il mondo magico, la medicina e l’antropologia
Il magismo secondo Ernesto de Martino quale “fatto sociale totale”. La nota di Roberto Beneduce, antropologo e psichiatra

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Il magismo secondo Ernesto de Martino quale “fatto sociale totale”. La nota di Roberto Beneduce, antropologo e psichiatra
Foto di Matin de Lusenet / CC BY
Leggere Ernesto de Martino oggi è un impegno urgente, le cui molte ragioni solo in minima parte potranno essere qui evocate. L’occasione per parlarne è la nuova edizione de Il mondo magico, apparsa nel 2022 [1]. Il denso saggio introduttivo di Marcello Massenzio e la nota conclusiva curata da Gino Satta sulle radici della ricerca demartiniana, illustrano efficacemente il disegno, la ricezione e le fonti ispiratrici di un’opera pubblicata per la prima volta nel 1948, scritta nel corso di “circostanze eccezionali” (gli atroci anni della guerra), e il cui manoscritto sarà salvato solo grazie alla cura della moglie Anna.
Il libro si articola in tre capitoli (Il problema dei poteri magici, Il dramma storico del mondo magico, Il problema dei poteri magici nella storia dell’etnologia), e già dalle prime pagine della prefazione emerge chiaro il cammino che l’autore seguirà con coerenza sino all’ultima opera, pubblicata postuma, sui temi dell’apocalisse culturale e psicopatologica, designandolo non solo come il maggiore etnologo del nostro Paese, ma anche come pioniere dell’etnopsichiatria e dell’antropologia medica italiane. Le reazioni di Paci e di Croce, e in misura minore quelle di Eliade e Pettazzoni, riportate nella seconda edizione del 1958, ben illustrano quanto i protagonisti del dibattito filosofico e religioso di quegli anni cogliessero intera, pur non condividendola, la portata del gesto demartiniano.
Il progetto del libro ruota intorno ad alcune idee chiave la cui modernità, anche metodologica, interroga noi, antropologi e clinici che quest’opera leggiamo a oltre settant’anni dalla sua comparsa. De Martino sa che il tema al centro del libro, il magismo, è tutt’altro che facile da affrontare e definire: esso non concerne solo le società descritte dall’etnologia ma la condizione umana stessa. Le sue riflessioni saranno allora semplici “prolegomeni” di un progetto “appena iniziato” (la “anamnesi del mondo magico”), per realizzare il quale occorrerà “il lavoro di un’intera generazione”.
Il progetto del libro ruota intorno ad alcune idee chiave la cui modernità, anche metodologica, interroga noi, antropologi e clinici che quest’opera leggiamo a settant’anni dalla sua comparsa.
Il magismo è uno di quei “problemi unificanti” intorno al quale lo storico e il filosofo devono incontrarsi con lo psicologo, lo psichiatra, e persino le scienze naturali. Come esplorare altrimenti l’esperienza del mondo magico? Si potrebbe avvicinare la nozione di “problema unificante” a quella di Marcel Mauss [2], e definire anche il magismo come un “fatto sociale totale”, per lo studio del quale è necessaria una strategia interdisciplinare: la stessa, in fondo, che de Martino avrebbe intrapreso nel dialogo con Servadio [3] e la psicoanalisi, o la Società Internazionale di Metapsichica, e continuato attraverso la lettura dei documenti di medici locali, la collaborazione con Jervis ne La terra de rimorso, il dialogo appassionato – infine – con gli scritti degli psichiatri di orientamento esistenzialistico e fenomenologico ne La fine del mondo. Anche in Morte e pianto rituale avrebbe compiuto lo stesso sforzo, invocando il dialogo fra documentazione storica, materiale folklorico e psicologia.
Ne Il mondo magico i richiami alla psicopatologia e alla psicoanalisi sono ripetuti tre volte nello spazio di qualche pagina (pp. 5-7). Non si tratta solo di allargare la base documentaria etnologica, ma di fissare un nuovo quadro concettuale rivolto ad arricchire l’orizzonte dello storicismo e suggerire che l’ancoraggio del magismo e dell’etnologia stessa a quest’ultimo e alla storia può avere successo solo a condizione di convocare quei saperi. Si tratta di un tema decisivo. La psichiatria accoglierà questo invito di rado (Callieri, Risso), sottraendosi a un dialogo che chiedeva disponibilità a rinunciare alle rassicuranti certezze dei modelli diagnostici egemonici.
De Martino vuole liberare una volta per tutte da ogni giudizio di arcaismo lo studio di quelle che all’epoca venivano definite società “primitive”. Per realizzare un tale progetto opera un rovesciamento nel dialogo avviato con la letteratura etnologica del suo tempo: la civiltà occidentale, le sue tecniche, la sua stessa idea di umano, sono chiamate a operare una torsione e riflettere su di sé. E quando ci s’interroga sulla “realtà dei poteri magici”, l’indagine dovrà necessariamente prendere in esame la stessa “categoria giudicante”: ossia quella nozione di realtà assunta come ovvia. È questo il solo modo perché il pensiero rimanga “sensibile a tutti gli scandali che minacciano di arrestarlo”.
Anche quando non esplicitamente evocate, le questioni morali e politiche affiorano in modo netto, ricordando al lettore che – dopo i campi di concentramento o le apocalissi di Hiroshima e Nagasaki – l’Occidente non può più dare per scontate le proprie condizioni di esistenza: “in una situazione di particolari sofferenze e privazioni”, scrive de Martino, “nel corso di una guerra, di una carestia…” il dramma che caratterizza il mondo magico (la “crisi della presenza”) può ripresentarsi (il corsivo è mio). È l’avvio di una riflessione profetica, che oggi riconosciamo con particolare chiarezza di fronte al cupo ritorno delle minacce di guerra nucleare o all’evidenza della drammatica crisi ambientale, e che Cesare Cases, nell’introdurre l’edizione del 1973, leggeva come una proiezione (nel senso psicoanalitico del termine): la precarietà dell’Europa, attraversata dagli spasmi del nazi-fascismo e dalla violenza, si trasformava nel tratto essenziale del mondo magico, e la “crisi” di cui de Martino scrive, “appare come una ripetizione, un ritorno della situazione dell’età magica” (i corsivi sono miei), di cui l’Occidente doveva prendere coscienza.
Quello che lo studioso napoletano realizzerà è, in primo luogo, il coraggioso affrancarsi da principi che, concepiti come assoluti, si pretendeva applicare a qualsivoglia latitudine, a qualsiasi fenomeno o epoca. L’epistemologia di de Martino sottopone ad analisi critica non solo i poteri magici quanto le categorie stesse utilizzate per esplorarne il significato, e di fronte a documenti che parlano di telepatia, paragnosia, visioni o assenza di lesioni dopo aver camminato su carboni ardenti, ricorda al lettore che già solo “la resistenza ad accettare il problema deve diventare a sua volta un problema per il pensiero: almeno nella misura in cui l’indagine vuol essere critica, cioè libera da presupposti dogmatici” (p. 22, il corsivo è mio). In poche righe, e senza scivolare in quel relativismo culturale che negli anni successivi sarebbe diventato di moda, indica un principio fondamentale del metodo scientifico, e quasi anticipa il problema dell’efficacia delle cosiddette “medicine tradizionali”: per misurare la quale è necessario rinunciare all’assolutismo delle nostre categorie di efficacia terapeutica, di malattia, di cura.
Qualche anno dopo, nel 1956, lo psichiatra nigeriano Thomas Lambo avrebbe accusato l’Europa di “arroganza morale” per voler imporre la propria civiltà e i propri modelli epistemologici come lo standard attraverso cui “misurare tutte le altre civiltà”. Suggerisco qui un nodo decisivo, che de Martino pone prima di tanti altri: ossia la necessità di avviare una critica severa di quelle categorie (filosofiche, epistemiche, diagnostiche, ecc.) attraverso le quali si era andata costruendo l’egemonia cognitiva degli imperi europei, un tema che sarebbe stato al centro dei lavori degli intellettuali della postcolonia.
Le pratiche o le istituzioni del magismo, che caratterizzano le società etnologiche, devono essere liberate dal pregiudizio che le respingeva nel cono d’ombra di mere credenze o superstizioni.
Il secondo tema è altrettanto originale, tanto sul piano storiografico quanto su quello epistemologico. Le pratiche o le istituzioni del magismo, che caratterizzano le società etnologiche, devono essere liberate dal pregiudizio che le respingeva nel cono d’ombra di mere credenze o superstizioni. De Martino chiede un gesto di “pietà storica” (oggi si direbbe forse di “giustizia epistemica”, per utilizzare la formula di Miranda Fricker) [4]. È un gesto coraggioso, in anni che vedevano invece la condanna di tutto ciò che solo da lontano poteva evocare un certo “irrazionalismo”, e nello sciamano i tratti di un potere assoluto esercitato su chi è più fragile. Tali critiche non avrebbero risparmiato l’autore de Il mondo magico. De Martino coglie invece nello sciamano il cammino di chi, dopo essere disceso agli inferi della sofferenza e della crisi, e malgrado il rischio della dissoluzione, oltrepassa la crisi e, diventato “Signore del limite”, mette al servizio degli altri la propria esperienza (de Martino inventerà la celebre definizione dello sciamano come “Cristo magico”).
De Martino va però ancora oltre. Non è solo il diverso e minor grado di garanzia caratteristico delle società etnologiche a spiegare il senso e la razionalità del magismo, la cui ragion d’essere è, in primo luogo, quella appunto di proteggere dalla crisi della presenza e dal rischio di perdersi come umani. Il dramma storico del magismo, esaminato a partire da condizioni particolari (olon, ainu, latah, amok, ecc.), spesso banalizzate come “culture bound syndromes”, gli permetteva di portare alla luce i diversi modi della minaccia di disintegrazione (una nozione che ha fra le sue radici la lezione di Pierre Janet), e interrogare così la nozione stessa di persona, le cui diverse espressioni realizzano quella che definisce una “pedagogia della presenza”: “In realtà il problema del magismo non è di «conoscere» il mondo o di «modificarlo», ma piuttosto di garantire un mondo a cui un esserci si rende presente. Nella magia il mondo non è ancora deciso, e la presenza è ancora impegnata in quest’opera di decisione di sé e del mondo.” Per de Martino è dunque anche la nozione di persona nel mondo magico a dover essere esplorata per comprendere correttamente l’esperienza del magismo, dello sciamano o della donna in preda all’ecoprassia. Chi avrebbe analizzato altre architetture della persona (Leiris, Métraux, ecc.), avrebbe incontrato in de Martino un pioniere.
Sarà anche a partire da queste posizioni che si avviava, inesorabile malgrado ambivalenze e tentennamenti, il distacco dal maestro, Benedetto Croce, per il quale storicizzare le categorie di analisi era inaccettabile e pericoloso.
Oggi potrebbero allora essere i medici e gli psichiatri a cercare nell’antropologo quell’alleanza che de Martino indicava come necessaria per comprendere gli enigmi dell’esistenza.
Nel mondo magico la nozione centrale rimane, senza dubbio, quella di “crisi della presenza”, sulla quale de Martino sarebbe tornato nei successivi lavori e in un denso articolo del 1956, scandito ancora una volta dal dialogo con i suoi filosofi (Croce, Hegel), oltre che con la psichiatria e la psicoanalisi (Freud, Janet, Goldstein, Rank, Reik, Storch). Il rischio del distacco dal mondo e da ciò che consente di oltrepassare la minaccia del non esserci grazie agli istituti culturali e al “riscatto” magico-religioso (altro tema decisivo, quest’ultimo, dell’itinerario demartiniano) avrebbe trovato nelle pagine sull’angoscia territoriale fra gli aborigeni australiani una delle immagini più memorabili. L’angoscia territoriale oggi assume forme inedite, e la riconosciamo nel dolore che ci attanaglia di fronte a una foresta che brucia o alle inondazioni che, cancellando di colpo vite e territori, ricordano la violenza fatta ai luoghi (Glenn Albrecht ha coniato alcuni anni fa il termine di solastalgia).
Il mondo magico chiede di essere letto oggi, infine, anche per un altro motivo. L’incontro con i nuovi profili della crisi e i diversi idiomi della malattia (quelli incontrati nella popolazione straniera, ad esempio) impongono a chiunque operi nello spazio della cura una maggiore consapevolezza antropologica e un’attenzione sistematica verso altri registri dell’esperienza. Oggi potrebbero allora essere i medici e gli psichiatri a cercare nell’antropologo quell’alleanza che il “pensiero inquieto” (Massenzio) di de Martino indicava come necessaria per comprendere questi enigmi dell’esistenza.
Roberto Beneduce
Antropologo, psichiatra
Dipartimento di Cultura, Politica e Società, Università di Torino
Centro Frantz Fanon, Torino
Bibliografia
Alla ricerca dei legami che intrecciano filosofia, antropologia e medicina
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