Il medico sarà ancora un medium?
“Essere-tra” il paziente e una diagnosi restituita dalle nuove tecnologie informatiche ma da interpretare sulla base dei valori del paziente, per comunicare e consigliare. Le riflessioni di Matteo Cresti

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“Essere-tra” il paziente e una diagnosi restituita dalle nuove tecnologie informatiche ma da interpretare sulla base dei valori del paziente, per comunicare e consigliare. Le riflessioni di Matteo Cresti
Il filosofo dell’informazione Luciano Floridi attribuisce alla tecnologia come tratto fondamentale il suo “essere-tra” [1]. La tecnologia si pone tra il mondo naturale e l’utente. Una forbice per cogliere un fiore si pone tra me, le mie mani, il mio desiderio di avere una rosa profumata sul mio tavolo e la natura, la pianta che mi sta dinanzi. Questa è ciò che Floridi chiama tecnologia di primo ordine. Ne esistono però altri di ordini tecnologici, a suo avviso. La tecnologia può trovarsi “tra” non solo me e la natura, ma anche tra me e altra tecnologia: questa è la tecnologia di secondo ordine, come nel caso di un cacciavite che spinge in un pezzo di legno una vite. Il cacciavite si interpone tra me e altra tecnologia. Ma ancora esiste una tecnologia di terz’ordine, che si pone tra la tecnologia e altra tecnologia, come una chiavetta usb che si pone tra due computer o tra il computer e una rete internet.
Le relazioni ai tempi dello zettabyte e dei big data |Luciano Floridi è una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea, insegna Filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford e Sociologia della cultura e della comunicazione all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Nel libro La quarta rivoluzione industriale. Come l’infosfera sta trasformando il mondo riflette su come gli sviluppi nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione stiano modificando le relazioni che stabiliamo gli uni con gli altri: siamo ormai connessi gli uni con gli altri senza soluzione di continuità e parte integrante di un’”infosfera” globale. Per Floridi le Ict modificano la natura stessa della realtà ampliando i confini dell’umano e aprendolo al post-umano. “Siamo nel pieno di una quarta rivoluzione, dopo quelle di Copernico, Darwin e Freud”.
La caratteristica di “essere-tra” non è però solo tipica della tecnologia. Ma di tutto ciò che è inserito in un processo e dunque di ciò che svolge un compito o un lavoro. Potremmo descrivere la professione del medico nel medesimo modo, come qualcuno o qualcuna che si trova “tra”, si trova tra il paziente e un certo dato diagnostico che il paziente non è in grado di interpretare autonomamente; si trova tra il paziente e un altro medico a cui bisogna fornire alcune informazioni precise in linguaggio tecnico, si trova tra medici in un’équipe di cura o di ricerca.
L’essere del medico “tra” il paziente e la medicina è alla base delle teorie sul rapporto tra paziente e personale sanitario. Saper comunicare adeguatamente infatti significa svolgere il proprio compito di medium tra un sapere e dei dati che sono interpretabili con difficoltà dal paziente.
Come ben rilevato da Giampaolo Collecchia in un recente articolo qui pubblicato questo rapporto può essere mutato dall’avvento delle nuove tecnologie informatiche [2]. L’intelligenza artificiale applicata all’ambito sanitario stravolge il paradigma tradizionale, e lo fa in due sensi. Il primo è aumentando la potenza prognostica: un algoritmo è capace di processare più informazioni in un tempo più rapido e con un minore margine di errore [3]. Il secondo è ponendosi come nuovo medium con cui il paziente può direttamente interfacciarsi.
A quale medico non è capitato il o la paziente che si presentano in ambulatorio esclamando: “Dottore, ho letto su internet che…” Questa è solo la punta dell’iceberg di un cambiamento ben più grande che sta avvenendo all’interno della sanità e che coinvolge la figura del medico. Il medico non è, e non sarà, l’unico deputato a sapere interpretare e comunicare i dati medici. Già da qualche anno i pazienti possono misurarsi la pressione sanguigna a casa loro. Oggi possono avere con sé un monitoraggio continuo di vari parametri, che va dal battito cardiaco, alla pressione, alla glicemia. Il tutto racchiuso all’interno del loro smartphone. Il device però non si limiterà solo a rendergli disponibile il dato sanitario che li riguarda, ma sarà anche in grado di interpretarlo, di fare una diagnosi accurata.
Il medico non è, e non sarà, l’unico deputato a sapere interpretare e comunicare i dati medici.
La conoscenza medica che prima era appannaggio di pochi e poche professioniste, tramite queste tecnologie viene democraticizzata e divine fruibile direttamente senza alcun passaggio intermedio, senza bisogno di un medium. Non a caso Eric Topol, cardiologo e direttore dello Scripps research translational institute, parla di una democratizzazione della medicina [4]. I dati sanitari sono dati sul nostro corpo e non dobbiamo più passare attraverso la mediazione di una persona per poterli leggere e sapere cosa indicano. Mio è il corpo, miei sono i dati, mia la decisione.
Questo cambiamento pone ovviamente dei problemi. Il primo è proprio la validazione scientifica di questi algoritmi. La sperimentazione è spesso carente e presenta criticità. Inoltre l’utilizzo dei big data (cioè di una grande quantità di dati su cui l’algoritmo può essere addestrato o imparare autonomamente) è esso stesso problematico [5]. Questi dati possono essere viziati da pregiudizi (i cosiddetti bias), possono non essere standardizzati, parziali, possono essere vecchi. L’algoritmo può non essere stato testato con gruppi di controllo, può raccogliere i dati in modo errato perché il paziente non è stato addestrato ad utilizzare il device in modo corretto.
Tuttavia un altro punto spesso trascurato merita di essere richiamato all’attenzione. Mentre questi problemi sono problemi contingenti, cioè possono essere in qualche modo risolvibili (i device possono essere adeguatamente sperimentati, possono utilizzare dati privi di pregiudizi o i pazienti possono essere addestrati all’utilizzo di questi strumenti) ci sono problemi che invece sono intrinseci a queste nuove tecnologie. Ed i problemi sono connessi con il ruolo del medico. Quale sarà il futuro della professione sanitaria?
Facciamo un esempio, che per ora è fantascienza ma che presto potrebbe divenire realtà. Un paziente si precipita nell’ambulatorio del medico di famiglia ed esclama: “Dottore, il mio telefonino mi ha detto che ho un melanoma e mi consiglia un intervento chirurgico del tutto automatizzato da fare nel tale ospedale con un nuovo apparecchio che è stato appena acquistato”. Il nostro medico rimane un po’ interdetto. Sa che esistono app scaricabili sul cellulare che attraverso una foto possono predire la presenza di un melanoma, sa che la robotica in chirurgia è molto avanzata, sa che probabilmente quella diagnosi è corretta (ha una probabilità di esserlo significativamente più alta di una diagnosi tutta umana) e il paziente ha già deciso che percorso terapeutico intraprendere. Cosa gli resta? È immaginabile che gli risponda “Scusi, ma perché lei è venuto qui? Cosa devo fare, io?”
Ora questo è uno scenario futuristico. È pur sempre probabile che l’essere umano sia necessario, che come si dice in gergo informatico “resti nel loop”, cioè sia sempre coinvolto nel processo, torni cioè a “essere-tra” la tecnologia e gli altri umani. Tuttavia il suo ruolo sarà notevolmente diminuito o comunque profondamente mutato.
E allora? Allora resta qualcosa che per ora la macchina non può fare adeguatamente: comunicare e consigliare. La storiella appena raccontata non mostra un punto essenziale: quello del paziente che si fa la foto al neo sul braccio e dell’avviso che gli compare sul telefono: “melanoma al 98%”. I suoi sentimenti e le sue emozioni sono ignorati. La comunicazione è stata asettica, fredda, priva di qualsiasi “cura”. E viene lasciato completamente solo a decidere cosa fare della propria vita. Ecco che qui può di nuovo intervenire l’umano. Può prendersi in carico il paziente, essere lui o lei a comunicare la diagnosi fatta da una macchina e ad accompagnarlo nella scelta del percorso terapeutico più adeguato ai valori della persona presa in carico. Forse il medico non farà più diagnosi o non impugnerà più il bisturi, però potrà fare qualcosa di molto più importante: comunicare e accompagnare il paziente nella scelta.
Forse il medico non farà più diagnosi o non impugnerà più il bisturi, però potrà fare qualcosa di molto più importante: comunicare e accompagnare il paziente nella scelta.
Il grande bioeticista Robert Veatch ci ricordava che ogni scelta medica, anche prescrivere una semplice statina, è una scelta carica di valori [6]. Scegliere tra una dieta e un medicinale può essere fatto basandosi sui fatti, ma deve anche essere fatto tenendo in considerazione costi e benefici, e dunque bilanciando valori, preferenze e interessi. Il medico ha sempre tenuto questo aspetto in secondo piano: le priorità erano fare le diagnosi e trovare una cura. Oggi (anzi domani) il medico può essere liberato da questo fardello e aiutare il paziente a fare chiarezza tra i propri valori e le proprie priorità. Sarà un medico diverso, ma probabilmente sarà il medico di cui avremo bisogno.
La nuova medicina secondo Veatch | Robert Veatch è uno dei padri fondatori della bioetica medica. Nel suo libro “Patient, Healt Thyself. How the ‘New Medicine’ puts the patient in charge”, qui citato da Matteo Cresti, descrive la transizione dal paternalismo medico alla medicina moderna odierna come una transizione a metà strada dal “physician knows best” all’empowerment del paziente. In questo libro, Veatch esplora i prossimi passi necessari per una completa responsabilizzazione e autonomia del paziente informato. Mentre la medicina moderna riconosce il primato del paziente e il suo ruolo attivo nel processo decisionale condiviso, nella “new medicine” c’è una consapevolezza della necessità di scelte basate su quelli che sono i valori del paziente che richiedono la piena collaborazione medica tra paziente e professionista. Tutto questo comporta anche l’uso di un nuovo vocabolario. Lo stesso consenso informato – che Veatch definisce un “transitional concept” – dovrebbe essere abbandonato. Mentre i medici possono fornire competenze mediche su questioni tecniche di diagnosi, prognosi e opzioni di trattamento, la nuova medicina richiederà “un paziente molto più attivo incaricato di scegliere quali opzioni sono migliori per le proprie decisioni mediche”. Secondo Veatch l’obiettivo è promuovere l’autonomia del paziente senza però abbandonarlo ad essa. E il grado con cui un paziente condivide l’autorità decisionale con il proprio medico è una decisione che spetta di diritto al paziente.
Fonte: Ross LF. JAMA 2009; 301: 1388-9.
Matteo Cresti
Ricercatore in filosofia morale
Dipartimento di filosofia e scienze dell’educazione
Università degli studi di Torino
Bibliografia
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