Il medico dinanzi all’ultimo compito evolutivo del paziente
Esplorare la frontiera della morte con empatia, la nota di Ines Testoni

Ops! Per usare il Centro di Lettura devi prima effettuare il log in!
Password dimenticata?Non hai un account? Registrati
Hai già un account? Log in
Esplorare la frontiera della morte con empatia, la nota di Ines Testoni
Grazie alle politiche che promuovono la pace ma, innanzitutto, alle conquiste della medicina e delle scienze dell’uomo, la qualità e la durata della vita in Occidente hanno raggiunto livelli che erano impensabili in epoche precedenti. Tale risultato è dovuto anche all’acquisizione da parte della popolazione di stili comportamentali sempre più volti alla tutela della salute e del benessere bio-psicosociale, a livello tanto individuale quanto collettivo. Tuttavia questo può essere l’esito auspicabile di millenni di riflessione sull’idea che l’esercizio della violenza – tanto come sacrificio di sé quanto come abuso dell’altro – non è la ragione per la quale abbiamo chiamato i nostri figli a venire al mondo.
Di fatto, però, a questo splendido traguardo si associano alcuni effetti indesiderabili. Tra questi emerge per importanza un aspetto cruciale: l’esclusione del morire e della morte – sia come argomento degno di attenzione sia come spettacolo della condizione reale con la quale dobbiamo prima o poi fare i conti necessariamente – dallo scenario reale della vita quotidiana.
L’esternalizzazione nelle strutture sanitarie dei nostri ammalati e di chi muore genera un distanziamento tanto percettivo quanto relazionale ed affettivo.
L’esternalizzazione nelle strutture sanitarie dei nostri ammalati e di chi muore genera un distanziamento tanto percettivo quanto relazionale ed affettivo dalla condizione di chi è in stato di fragilità. Quanto più il sistema sanitario funziona al meglio, offrendo questo tipo di interventi, tanto più il benessere dei nuclei familiari che devono fronteggiare la malattia grave è tutelato. Ma a siffatto desiderabile e virtuoso processo si accompagna la tendenza generalizzata a rafforzare i meccanismi di rimozione di tutto ciò che causa sentimenti tristi e difficili da elaborare, come lo è inevitabilmente la riflessione sulla finitudine, sul dolore e sul senso della vita in rapporto alla caducità, del tutto funzionale al mantenimento di una società costantemente impegnata nell’ottimizzazione del benessere.
L’esito più drammatico consiste nell’indifferenza rispetto alla condizione di dolore e sofferenza di chi ci sta accanto.
Questo distanziamento produce per un verso individui altamente performativi aumentandone le abilità di risposta alle istanze sociali per l’altro mantiene i medesimi in una sostanziale condizione di inconsapevole infantilismo rispetto a questioni esistenziali cruciali. L’esito più drammatico consiste nell’indifferenza rispetto alla condizione di dolore e sofferenza di chi ci sta accanto, come pure nell’esposizione di tutti gli indifferenti alla futura nemesi del trovarsi nella stessa situazione quando essi si dovranno confrontare con il limite. Peraltro, per quanto viviamo in una società sempre più caratterizzata dalla rimozione sistematica di questo tipo di riflessioni e del contatto reale con il morente, di fatto i media inondano le nostre case con immagini e narrazioni di atrocità e di fatti sanguinari che affliggono persone e popoli. Ma tale spettacolarizzazione è molto poco informativa quanto piuttosto apotropaica, funzionale all’attualizzazione del drammatico atteggiamento del naufragio con spettatore, brillantemente descritto da Lucrezio [1]. E tale modalità di avvicinamento ai temi del morire da ultimo contribuiscono a cancellare le parole che permettono di affrontare argomenti riguardanti la finitudine dalla comunicazione autentica.
Di tutto questo discute The Lancet Commission on the value of death: bringing death back into life che dal 2018 discute come invertire questa rotta che causa notevoli difficoltà ai sistemi sanitari di tutti i paesi in quanto le persone e lo stesso personale sanitario si trovano impreparati quando devono affrontare le fasi più drammatiche dell’esistenza propria e altrui. Possiamo iscrivere tra i segnali che mettono in evidenza questa necessità la violenza dei pazienti nei confronti del personale sanitario, ovvero, paradossalmente, di chi si è preso cura di loro. Una popolazione immatura che pretende dalla società che vengano garantite sempre soluzioni ai problemi di salute come esse vengono illusoriamente dipinte dall’immaginario collettivo non può che presentarsi come minacciosa quando diventa inevitabile fare i conti con l’impossibilità di trovare i rimedi sognati.
Una delle risposte che la cultura medica ha messo a disposizione per far fronte a questo problema è il modello delle cure palliative che, al contrario di tutti gli approcci volti alla cura intesa come battaglia contro la malattia per tutelare la vita il più possibile, accoglie la morte intendendola come un fatto naturale che prevede un tempo di preparazione, dato dalla fase terminale della malattia. In quell’arco di tempo, è necessario valorizzare al massimo la qualità della vita che rimane rispondendo nel modo migliore alle esigenze psicologico-relazionali del malato e della sua famiglia, grazie all’intervento sul dolore totale del paziente (fisico, psicologico, sociale e spirituale). Di fatto molti tratti che caratterizzano questo tipo di relazione, messo a sistema in Italia dalla legge 38/2010, potrebbero essere assunti molto prima, ovvero dopo la diagnosi potenzialmente infausta, come peraltro il modello del simultaneous care prevede [2], applicando parallelamente alle cure attive anche l’intervento palliativo, fin dalle primissime fasi della patologia, ovvero quando si danno ancora possibilità di guarigione. Tale approccio è basato sulla pianificazione condivisa delle cure, introdotta dalla legge 219/2017. Alla base vi è la tutela della dignità, a partire dal patient health engagement model, il quale consiste nel coinvolgimento motivazionale di pazienti e familiari nella relazione di cura, rafforzando la loro self-efficacy, ovvero la capacità di ciascuno di porsi degli obiettivi e raggiungerli, attraverso quattro fasi: blackout – che richiede di supportare la crisi dovuta alla percezione di fragilità; arousal – consistente nell’orientare i primi passi verso la gestione della patologia e delle cure; adhesion – grazie alla quale si rende possibile l’adesione al piano di cura; eudaimonic project – ovvero il fondamento dell’intero processo volto a promuovere l’accettazione positiva del cambiamento [3]. Il modello dell’engagement prevede infatti che il paziente e i suoi congiunti debbano non solo essere informati in modo semplice e preciso rispetto alla malattia gestendo lo stress che inevitabilmente ne deriva, ma anche che siano portati a conoscenza del funzionamento della terapia, accogliendone le finalità e quindi ridefinendo il proprio progetto esistenziale.
Questo è quanto The Lancet Commission on the value of death auspica a livello internazionale, allineandosi così a quanto indicato in diverse fasi dalla Organizzazione mondiale della sanitàrispetto all’implementazione mondiale delle cure palliative secondo il modello della sincronicità con le cure attive, che peraltro il legislatore italiano ha interamente accolto.
Riflettere e mettersi in gioco intorno al senso del morire permette infatti di conquistare un linguaggio appropriato per relazionarsi con tutti coloro che stanno male.
Per rendere possibile tutto questo, è importante che tanto i medici quanto tutto il personale sanitario acquisiscano le abilità necessarie per approcciare il paziente che potrebbe dover prendere l’abbrivio di quella fase tanto difficile quanto importante consistente nello scrivere l’ultimo capitolo della propria vita. Riflettere e mettersi in gioco intorno al senso del morire permette infatti di conquistare un linguaggio appropriato per relazionarsi con tutti coloro che stanno male, avendo cognizione che anche quando si tratta di un problema di salute non ancora letale di fatto i sintomi ricordano al paziente il suo essere mortale, scatenando terrore e comportamenti irrazionali. L’accompagnamento verso quella direzione richiede abilità relazionali importanti, che i corsi di laurea in medicina e in infermieristica non garantiscono ancora. È quindi necessario che non solo i medici, indipendentemente dalla loro specialità, ma tutti coloro che entrano in contatto con chi è ammalato imparino a ragionare in termini esistenziali e non solo performativi recuperando la capacità di dialogare per saper intercettare la condizione di terrore e angoscia in cui si trova il paziente, a cominciare dal momento in cui si comunicano le cattive notizie. L’acquisizione e il mantenimento di abilità psicologiche particolari funzionali al sostegno del paziente e per la gestione delle conseguenze del rapporto reiterato con chi muore è ritenuta infatti essenziale per la realizzazione della simultaneous care.
Una delle maggiori difficoltà che i medici sono chiamati ad affrontare nella relazione con il paziente riguarda il dovere di dire la verità. Data l’attuale rimozione generalizzata della morte e dei linguaggi che permettono di gestire la presenza della morte come questo convitato di pietra è quindi utile realizzare percorsi di death education [4], finalizzati sia all’acquisizione di competenze specifiche relative alla gestione della relazione con il paziente destinato a morire sia all’elaborazione dei propri transfert, dello stress derivante dal lutto vicario- ovvero dalla sofferenza causata dalla morte dei pazienti che sono stati curati- come pure dai timori e dalle resistenze che caratterizzano il lutto anticipatorio che si instaura quando viene in evidenza che la malattia causerà la morte di coloro ai quali viene dedicata la cura. I percorsi di death education volti a preparare i medici a gestire queste condizioni esistenziali partono dalle competenze per acquisire la capacità di comunicare introdurre nel discorso la morte in modo adeguato. Esistono numerosi modelli che guidano il medico in questa delicata fase della relazione con il paziente, tutti coerenti con le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità “Communicating bad news”. Il più famoso è il protocollo SPIKES [5], che prevede i seguenti momenti: setting up (S) – preparare lo spazio per il colloquio; perception (P) – entrare in contatto empatico con il paziente per capire che cosa egli sappia; invitation (I) – sondare quanto egli sia disponibile a sapere; knowledge (K) – avviare il percorso di informazione; emotion (E) – cogliere empaticamente le esigenze dell’interlocutore; strategy (S) – pianificare la cura condividendo le scelte. Ulteriori protocolli, leggermente diversi ma in linea con questa traccia, sono l’ABCDE e il BREAKS [6,7].
Gli ulteriori passaggi che questi percorsi garantiscono vanno incontro all’acquisizione delle competenze richieste dalla Conferenza Stato-Regioni del 10 luglio 2014, la quale mette in evidenza l’importanza delle capacità di comunicazione verbale e non verbale per riuscire a condurre colloqui e conversazioni che abbiano a che fare con il morire, così da saper affrontare e gestire paure, aggressività, rifiuto e stress. Si tratta di un linguaggio specifico che nasce parte dall’essere una persona che conosce in profondità il senso intimo del dover fronteggiare l’angoscia di morte e il terrore della perdita. L’acquisizione di tale competenza implica molteplici capacità. A partire dal saper rispondere a domande difficili, gestendo i passaggi critici legati alle fasi del declino e alla conseguente perdita di autonomia; ad entrare nella vita del malato e nel suo contesto impostando una relazione positiva e accompagnare i familiari nella elaborazione del lutto anticipatorio e nel lutto completo; ad individuare i bisogni esistenziali e spirituali del paziente e del familiare e offrire il supporto necessario e infine a saper riconoscere la costellazione valoriale del paziente e della famiglia e rispettarla nei processi decisionali.
Non solo si può gestire molto bene l’argomento morte, ma che è esattamente ciò che di cui in realtà vorremmo parlare senza poterlo fare perché mancano i contesti in cui valorizzare tale bisogno.
Le strategie più utili nei percorsi di death education appartengono già in parte al discorso medico. Non può essere infatti dimenticato l’importante contributo di Rita Charon e il metodo della medicina narrativa. Si tratta di un approccio che restituisce al linguaggio della presa in carico anche la narrazione in prima persona per l’emersione delle risonanze interiori che il rapporto con la persona malata comporta. Tale metodo può essere però ulteriormente integrato con tecniche molto efficaci che appartengono al territorio delle creative arts therapies per il supporto alla resilienza. Le creative arts therapies sono dispositivi che – attraverso modalità espressive artistiche – facilitano la comunicazione e l’emersione della dimensione emotivo-affettiva per restituirla alla consapevolezza di sé offrendo nuove strategie di coping dinanzi all’estremo. In particolare, l’utilizzo delle tecniche psico e socio-drammatiche, insieme all’uso della fotografia come strumenti con cui muoversi nei giochi di ruolo formativi. Misurando gli effetti con metodologie miste è sempre emerso che non solo si può gestire molto bene l’argomento morte, ma che è esattamente ciò che di cui in realtà vorremmo parlare senza poterlo fare perché mancano i contesti in cui valorizzare tale bisogno.
Ines Testoni
Professoressa di Psicologia sociale
Direttrice del Master EndLife in Death Studies & The End of Life
Università degli studi di Padova
Bibliografia
Death Education in età pediatrica? Se sì, come e perché – Ines Testoni
L'ospedale, Il medico e il paziente davanti a decisioni complesse. Di Sandro Spinsanti
Quando il Dottor Laennec inventò lo stetoscopio.
Di Alberto Chiantaretto
Le riflessioni conclusive di Sandro Spinsanti, per un’integrazione armoniosa dell’etica nella cura