Google ci vuole in salute e felici
Fino a che punto un privato dai mezzi smisurati come Google potrà sempre più occuparsi della salute globale?

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Fino a che punto un privato dai mezzi smisurati come Google potrà sempre più occuparsi della salute globale?
Foto di Thomas Hawk / CC BY
Il direttore della divisione di Digitalhealth della Food and drug administration (Fda) – l’ente regolatorio statunitense – ha lasciato l’incarico per assumere la responsabilità delle attività riguardanti la salute digitale e della strategia regolatoria di Google [1]. Bakul Patel ha diretto per 13 anni le attività normative e scientifiche relative ai dispositivi sanitari digitali in seno alla Fda. Durante il suo mandato, l’agenzia regolatoria statunitense ha lanciato un centro di eccellenza per la supervisione dei prodotti sanitari digitali, come le app per smartphone, i dispositivi indossabili e le terapie basate su software: tecnologie sempre più diffuse e capillari. Ha inoltre contribuito a sviluppare il quadro di riferimento della Fda per la revisione dei prodotti dell’intelligenza artificiale e un piano d’azione per far progredire la vigilanza sui software medici basati sull’intelligenza artificiale e sull’apprendimento automatico. Del tutto coerentemente con la sua breve biografia su Twitter, dove Patel si definisce “appassionato della tecnologia che aiuta l’assistenza sanitaria a progredire con innovazioni sicure e politiche smart”. In un lungo post su LinkedIn, Patel dichiara che in questi anni trascorsi alla Fda la sua “autentica stella polare è stata rendere l’assistenza sanitaria digitale accessibile ed equa per tutti”.
Una prima considerazione riguarda l’evidenza della decisione di Google che ritiene opportuno dotarsi di una propria strategia regolatoria, ma subito dopo il pensiero va al nuovo, clamoroso caso di revolving doors. Parliamo del fenomeno per cui un dipendente pubblico che ha esercitato poteri decisionali o negoziali per conto di pubbliche amministrazioni passa armi e bagagli a un’azienda privata. Nel 2019 suscitò scalpore il caso di uno dei più famosi oncologi del mondo, José Baselga, che all’improvviso passò dalla direzione del Dipartimento di oncologia del Memorial Sloan-Kettering di New York ad AstraZeneca. Il che indusse il famoso ospedale a limitare statutariamente ai propri dipendenti la partecipazione a consigli di amministrazione di società, così come l’accettazione di forme di compenso in azioni o partecipazioni. Riforme necessarie a garantire che potenziali conflitti d’interesse dei propri dipendenti non compromettessero le cure dei pazienti e l’integrità dell’istituzione ospedaliera.
Le porte girevoli | In Italia il fenomeno delle “porte girevoli” sarebbe in teoria impedito dalla disciplina in materia di prevenzione della corruzione, ex legge n. 190/2012, che ha inserito nell’art. 53, comma 16 ter del d.lgs. n. 165/2011 un vincolo per tutti i dipendenti (futuri ex dipendenti) che, negli ultimi tre anni di servizio (il cosiddetto periodo di raffreddamento), hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni, di non poter svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. In ogni caso, il fatto che un dipendente pubblico passi a lavorare per un soggetto privato non è benvisto dal legislatore italiano.
Sta di fatto che oggi Patel è chiamato a rendere effettivo il motto di Google Health: “Aiutare miliardi di persone a guadagnare una salute migliore”. Una prospettiva che sembra sottintendere il lavoro di contrasto alle disuguaglianze. Equità nell’accesso sembra dunque davvero una parola d’ordine universale, anche in un sistema – come quello statunitense – in cui non esiste un sistema sanitario nazionale sostenuto dalla fiscalità generale, e nel quale quindi far giovare delle migliori cure la maggioranza dei cittadini appare a tutti gli effetti una scommessa assai rischiosa. Paradossalmente, accettando la nuova sfida Patel alza l’asticella, perché il palcoscenico della sua azione non sono più gli Stati Uniti ma il mondo. Del che dimostra di essere consapevole, nella convinzione che il potere della tecnologia, se unito a un approccio integrato alla salute digitale e alla regolamentazione, sia in grado di trasformare la vita di tutti: “Voglio continuare a costruire un mondo in cui usiamo la tecnologia per coinvolgere le persone, i caregiver e le comunità a livello globale nell’erogazione delle cure, il che ci consentirà di raggiungere popolazioni a lungo trascurate, emarginate e non servite”. Ciò sarà possibile se si utilizzeranno le informazioni e la tecnologia digitale per identificare e prevedere l’insorgenza di malattie e pandemie prima che i sintomi si manifestino, migliorando e proteggendo la vita delle persone e diminuendo il ricorso all’ospedalizzazione, su scala globale.
L’amore dei player digitali per la salute | L’attrazione dei grandi protagonisti della Rete per la salute e la medicina non è una storia di oggi. Già agli inizi del 2000, Yahoo!Italia aprì nel proprio portale un canale dedicato alla Salute. Ma, contravvenendo alla logica dell’assemblaggio spontaneo dei contenuti che contraddistingueva quello che allora era uno dei maggiori motori di ricerca del web, affidò la cura e la supervisione di questo servizio di informazione a una casa editrice medico-scientifica “tradizionale”. Si dirà che a quel tempo gli algoritmi non erano sofisticati al punto da distinguere le cure miracolose dalle terapie efficaci: i risultati delle ricerche degli utenti restituiti dai search engine si limitavano a fotografare i “gusti” del pubblico, senza interpretazioni. Ma a differenza che in altri ambiti, quando al centro dell’interesse di una persona c’è un problema di salute non tutti i contenuti hanno lo stesso peso e Yahoo! iniziò a preoccuparsi che il pubblico ricavasse troppe false informazioni dalla rete, anticipando una tendenza che solo a distanza di anni si trasformerà in un obiettivo anche per altri suoi concorrenti.
Patel, e con lui Google Health, intendono dunque far progredire insieme l’assistenza sanitaria digitale e la tecnologia. Tornerà dunque utilissima l’esperienza accumulata fin qui dalla società di Mountain View, specie la massa di informazioni autorevoli sul covid-19 raccolte durante la pandemia, così come quelle sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale e sul machine learning, in modo da costruire e fornire soluzioni agli operatori sanitari e alle comunità per affrontare le difficili sfide sanitarie che ci attendono.
La stessa Google ha inaugurato in questi giorni la sua prima sede autoprogettata, il campus di Bay View a forma di corazza di drago, all’avanguardia non solo per quanto riguarda l’ideazione degli uffici, ma per la sua architettura sostenibile. I progettisti hanno prestato particolare attenzione agli elementi che influenzano il sensorio, come i materiali utilizzati, la luce diurna, la qualità dell’aria, il comfort termico e l’acustica. Ogni scrivania dell’edificio gode di una vista esterna sul verde e di luce naturale per il benessere dei dipendenti, mentre un sistema speciale di ventilazione utilizza il 100 per cento di aria esterna rispetto al consueto 20-30 per cento. Per la costruzione sono stati scelti i materiali che presentavano la minore quantità di tossine, dalle piastrelle, alla moquette alle vernici, fino alle tubature e ai mobili. In termini di sostenibilità, la facciata del campus di Bay View si avvale di un rivestimento solare unico nel suo genere, e di impianti eolici per operare senza emissioni di carbonio per il 90 per cento del tempo.
Vuoi visitare il nuovo campus di Google senza muoverti dalla sedia?
Ma se appare legittimo e naturale che il management dell’azienda americana si occupi degli aspetti legati all’impatto ambientale e alla sostenibilità delle proprie strutture, non altrettanto scontato appare il suo impegno nei confronti della salute globale. Sullo sfondo, resta un problema generale: fin dove ci si può spingere per promuovere la salute dei cittadini? In tutto il mondo, si dà per scontato che la più grande felicità derivi dalla buona salute e il benessere fisico. Gli Stati Uniti hanno addirittura inserito il diritto alla felicità, già nel 1776, nella dichiarazione d’indipendenza, mentre con maggiore prudenza i nostri padri costituenti hanno sancito, nell’articolo 3 della Costituzione italiana, che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Per noi, a livello di politiche pubbliche, si pone in ogni caso un problema di governance e di scelte di governo, per far sì che vengano rimossi o ridimensionati gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza tra i cittadini, in primis per quel che attiene la salute, bene primario. Ma il problema è ancora più acuto se l’attore del processo non è pubblico. In che misura e fino a che punto, e con quali guarentigie, un privato – sia pure dai mezzi smisurati come Google – può e potrà sempre più occuparsi della salute dei cittadini del mondo?
Luciano De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
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