Gli studi di equivalenza e di non inferiorità
Determinare la superiorità o equivalenza di un nuovo farmaco non è cosa semplice. Per una analisi critica degli studi conviene preservare uno spirito critico.
Di Renato Luigi Rossi
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Determinare la superiorità o equivalenza di un nuovo farmaco non è cosa semplice. Per una analisi critica degli studi conviene preservare uno spirito critico.
Di Renato Luigi Rossi
Quando si disegna uno studio, se si vuol determinare se il trattamento è superiore al controllo si effettua una “studio di superiorità”. Altre volte, però, si vuol determinare se un farmaco è equivalente a quello con cui lo si vuol confrontare. Nel fare questo si definisce una differenza massima accettabile in più o in meno che sia clinicamente irrilevante e che permetta di affermare che i due trattamenti sono sovrapponibili. Si determina così un intervallo detto “intervallo di equivalenza”.
Per esempio si può stabilire che il farmaco A è equivalente al farmaco B a patto che l’outcome di A non sia superiore o inferiore a una determinata soglia (per esempio del 10%) all’outcome di B. Quindi se con il farmaco B si trova che il rischio assoluto dell’outcome considerato è del 10%, il farmaco A sarà considerato equivalente se il suo AR sarà compreso, con il suo intervallo di confidenza al 95%, tra 9% e 11% (cioè il 10% in più o in meno). L’intervallo di equivalenza è definito in modo arbitrario dagli autori ma deve essere tale da non comportare differenze clinicamente importanti: sarebbe difficile accettare un intervallo di equivalenza di ±30%. Ovviamente l’outcome considerato può essere determinato con qualsiasi misura di efficacia (RR, HR, AR, NNT).
Si supponga per esempio di determinare un intervallo di equivalenza di ±7% e di valutare il rischio relativo del farmaco da sperimentare. Si dirà che è equivalente al farmaco di confronto se il suo IC95% è compreso tra 0,93 e 1,07 (entro l’intervallo di equivalenza). Nel caso l’IC95% cada fuori da questo range non si potrà affermare l’equivalenza. Per esempio se il nuovo farmaco ha una stima puntuale dell’RR di 0,99 ma il suo IC95% è compreso tra 0,89 e 1,06 non si può affermare l’equivalenza perché l’estremo sinistro dell’intervallo di confidenza non cade dentro l’intervallo di equivalenza. Allo stesso modo se la stima puntuale di RR del nuovo farmaco è 1,03 ma il suo IC 95% è 0,96-1,12, non si potrà affermare l’equivalenza perché l’estremo destro dell’intervallo di confidenza cade al di fuori dell’intervallo di equivalenza. A maggior ragione si negherà l’equivalenza se tutto l’intervallo di confidenza al 95% cade al di fuori dell’intervallo di equivalenza. Nella figura sono esemplificate graficamente le varie ipotesi: nel caso A è dimostrata l’equivalenza perché l’IC95% cade tutto entro l’intervallo di equivalenza, nei casi B, C e D l’equivalenza non è dimostrata perché l’IC95% cade in parte o tutto al di fuori dell’intervallo di equivalenza.
Spesso è molto difficile dimostrare la superiorità di un nuovo farmaco rispetto al competitor nel ridurre eventi importanti.
Gli studi di non inferiorità sono un tipo particolare di studi di equivalenza dove si sceglie un “intervallo di non inferiorità”: per esempio si può affermare la non inferiorità di un nuovo farmaco se l’outcome considerato non sarà peggiore di un valore pre-determinato (poniamo 5%) rispetto all’outcome del farmaco di confronto. Gli studi di equivalenza e di non inferiorità presentano vari aspetti critici. Anzitutto possono essere giustificati solo in determinate circostanze. Per esempio si può accettare un’equivalenza o una non inferiorità se il farmaco testato è più economico e/o consente una maggiore compliance da parte del paziente. L’intervallo di equivalenza scelto deve essere tale da non comportare differenze clinicamente rilevanti rispetto al controllo e dovrebbe sempre essere motivato. Inoltre deve essere dichiarato fin dall’inizio che lo studio è di equivalenza o di non inferiorità per evitare il fenomeno degli studi mascherati: lo studio nasce all’inizio come studio di superiorità ma, in itinere, ci si accorge che il farmaco testato non è superiore al controllo e quindi lo si trasforma in studio di equivalenza o non inferiorità. Spesso, infatti, è molto difficile dimostrare la superiorità di un nuovo farmaco rispetto al competitor nel ridurre eventi importanti.
La qualità metodologica degli studi di equivalenza può essere discutibile. Secondo una revisione, pubblicata sul JAMA, questi studi presentano vari deficit: solo in circa il 20% dei casi è stato giustificato il margine degli intervalli di equivalenza o di non inferiorità, talora i risultati non sono stati esplicitati in modo chiaro oppure le conclusioni sono fuorvianti.
Si tratta di aspetti cruciali per la corretta interpretazione del trial, non sempre di facile identificazione. Per un medico non particolarmente esperto nell’analisi critica degli studi conviene sempre leggere gli editoriali di commento che nelle riviste più importanti, di solito, accompagnano i trial perché in essi possono venire mossi vari rilievi critici e sottolineate le limitazioni dei risultati. Tuttavia è sempre opportuno conservare un po’ di sano spirito critico perché anche le riviste più prestigiose possono commettere dei passi falsi. Nel 2020 il Lancet ritirò uno studio appena pubblicato che suggeriva un’associazione tra uso di idrossiclorochina nella covid-19 e aumento della mortalità. Quasi contemporaneamente anche il New England Journal of Medicine ritirava uno studio che analizzava la relazione tra covid-19 e uso di farmaci antipertensivi. Si trattava in entrambi i casi di studi osservazionali, però le due vicende sottolineano che anche i revisori delle riviste più quotate qualche volta possono commettere errori di valutazione.
È sempre opportuno conservare un po’ di sano spirito critico perché anche le riviste più prestigiose possono commettere dei passi falsi. Anche i revisori delle riviste più quotate qualche volta possono commettere errori di valutazione.
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