Gli endpoint secondari
Quando viene disegnato è prassi comune prevedere anche degli endpoint secondari. Un aspetto importante e non trascurabile. Di Renato Luigi Rossi.
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Quando viene disegnato è prassi comune prevedere anche degli endpoint secondari. Un aspetto importante e non trascurabile. Di Renato Luigi Rossi.
Quando viene disegnato un trial si specificano gli endpoint principali da valutare (detti “endpoint primari”) e su questi viene determinata la potenza statistica dello studio. Si può dire, in maniera semplificata, che se si decide che l’endpoint primario dello studio è la mortalità totale il campione arruolato deve avere una certa numerosità e deve durare un determinato periodo di tempo in modo da poter determinare se l’intervento impatta su questo esito. Va ricordato e sottolineato che tutti i calcoli statistici preliminari effettuati quando si prepara il trial si basano sull’endpoint primario che si è deciso di valutare.
Conoscere qual è l’endpoint primario è, quindi, determinante per interpretare lo studio perché rappresenta la base stessa del trial, la domanda principale a cui gli autori si propongono di dare una risposta. Ne deriva una regola fondamentale: ogni trial va interpretato principalmente per il risultato ottenuto per l’endpoint primario.
Tuttavia è prassi comune prevedere anche degli endpoint secondari. Si badi a non confondere gli endpoint secondari con gli endpoint surrogati. Un endpoint secondario può benissimo essere un esito clinico rilevante (per esempio le ospedalizzazioni, gli infarti non fatali, le nefropatie terminali, ecc.), ma non è l’obiettivo principale dello studio. Gli endpoint secondari, infatti, possono rispondere a domande rilevanti dal punto di vista clinico. Per esempio in uno studio su un farmaco usato in soggetti a elevato rischio cardiovascolare e che ha come endpoint primario gli infarti fatali e non fatali è interessante conoscere se si ottiene anche una riduzione dello scompenso cardiaco o dell’ictus.
Gli endpoint secondari sono un aspetto importante e non trascurabile dello studio soprattutto se vanno nello stesso senso dell’endpoint primario. Se invece vanno in senso opposto trarre conclusioni basandosi solo su di essi può essere fuorviante. Per esempio nello studio Empa-Reg [1], l’empagliflozin in diabetici tipo 2 ridusse l’endpoint primario (morte cardiovascolare, infarto e ictus) e contemporaneamente anche endpoint secondari (mortalità totale, morte cardiovascolare e ricoveri per scompenso cardiaco). In questo caso i risultati ottenuti sugli endpoint secondari costituiscono una conferma di quanto evidenziato sull’endpoint primario.
Si supponga, invece, di disegnare uno studio per paragonare tra loro due antidiabetici orali. Gli autori specificano che l’endpoint primario è rappresentato dall’infarto miocardico (fatale e non fatale) valutato nei due bracci del trial dopo quattro anni. Gli autori prevedono anche degli endpoint secondari: ricoveri per scompenso cardiaco, interventi di rivascolarizzazione coronarica, ictus fatale e non fatale. Al termine dello studio la frequenza dell’endpoint primario non differisce tra i due farmaci, tuttavia in uno dei due bracci si registra una minore frequenza di endpoint secondari. Interpretare questo dato come una superiorità di un farmaco rispetto all’altro non è metodologicamente corretto: poiché la potenza statistica del trial è stata calcolata sull’endpoint primario si dovrebbe concludere che non si è evidenziata una differenza tra i due farmaci testati; la differenza registrata per gli endpoint secondari potrebbe anche essere reale, ma andrebbe dimostrata da un altro trial clinico randomizzato disegnato appositamente per confermare tale ipotesi.
Una riduzione degli endpoint secondari quando l’endpoint primario non è ridotto, anche se “statisticamente significativa”, può essere dovuta al caso. Infatti il potere statistico dello studio “viene consumato” dall’endpoint primario. Accettare per valida una significatività statistica di endpoint secondari significa accettare un margine di errore che potrebbe essere elevato.
I risultati sugli endpoint secondari forniscono informazioni ulteriori se sono concordanti con l’endpoint primario, in caso contrario dovrebbero essere considerati delle ipotesi da confermare o confutare in studi successivi.
Un esempio reale è lo storico trial Allhat in cui vennero confrontati tra loro tre farmaci antipertensivi: clortalidone, amlodipina e lisinopril [2]. L’endpoint primario era composto da coronaropatia fatale e infarto miocardico non fatale. Endpoint secondari erano la mortalità totale, l’ictus, vari esiti di cardiopatia ischemica e di malattie cardiovascolari (tra cui ictus, angina, scompenso cardiaco e arteriopatia periferica). Furono arruolati più di 33.000 soggetti ipertesi. Dopo un follow-up medio di quasi cinque anni si evidenziò che non vi era differenza tra i tre farmaci per quanto riguardava l’endpoint primario. Anche la mortalità totale non differiva tra i tre gruppi. Si notò però una riduzione dello scompenso cardiaco a favore di clortalidone rispetto ad amlodipina e una riduzione di vari esiti (tra cui ictus e scompenso cardiaco) sempre a favore di clortalidone rispetto a lisinopril.
Gli autori conclusero che i tiazidici sono superiori nel prevenire uno o più esiti cardiovascolari e dovrebbero essere la terapia di prima scelta. La conclusione più in linea con i risultati dello studio avrebbe dovuto essere, invece, che non era stata dimostrata una differenza tra i tre farmaci per l’endpoint primario e che alcuni benefici dimostrati dal clortalidone su endpoint secondari avrebbero dovuto essere confermati da studi futuri. Cautela ancora maggiore si deve usare quando gli endpoint secondari non erano previsti dal disegno originale dello studio, ma sono stati determinati in seguito, dopo la pubblicazione dei risultati, tramite delle analisi a posteriori (di cui si parlerà in un prossimo capitolo). In questi casi, qualsiasi risultato si ottenga, è sempre opportuno esercitare il beneficio del dubbio e attendere conferme o smentite da studi successivi.
Gli autori di un trial clinico randomizzato dovrebbero sempre trarre le conclusioni basandosi sui risultati ottenuti sull’endpoint primario, evitando di enfatizzare quelli ottenuti sugli endpoint secondari se questi sono di scordanti rispetto all’esito primario su cui erano state calcolate la dimensione campionaria e la durata del trial. Altrimenti si corre il rischio di “rinchiudere la zia pazza nel solaio” [3].
In conclusione, i risultati sugli endpoint secondari forniscono informazioni ulteriori se sono concordanti con l’endpoint primario, in caso contrario dovrebbero essere considerati delle ipotesi da confermare o confutare in studi successivi.
Renato Luigi Rossi
Medico di famiglia
Bibliografia
Questo testo è tratto dal libro “Come leggere uno studio clinico” di Renato Luigi Rossi (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021). Per gentile concessione dell’editore.
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