Il valore della privacy al tempo di ChatGPT
Il punto di vista di Giampaolo Collecchia

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Il punto di vista di Giampaolo Collecchia
Foto di David Ip / CC BY
Il 31 marzo scorso il Garante per la protezione dei dati personali aveva disposto, con effetto immediato, la limitazione provvisoria del trattamento dei dati degli utenti italiani nei confronti di OpenAI, la società statunitense fondata da Elon Musk che ha sviluppato e gestisce la piattaforma ChatGPT, il più noto tra i software di intelligenza artificiale conversazionale, in grado di simulare ed elaborare le conversazioni umane. Nel provvedimento il Garante rilevava la mancanza di una informativa agli utenti e a tutti gli interessati i cui dati vengono raccolti da OpenAI e l’assenza di una base giuridica che giustificasse la raccolta e la conservazione massiccia dei dati personali allo scopo di “addestrare” gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma [1]. In seguito la società che gestisce ChatGPT ha accolto le richieste dell’Autorità e la piattaforma è tornata accessibile anche dall’Italia.
L’enorme diffusione della piattaforma di ChatGPT che, lanciato il 22 novembre 2022 in soli due mesi ha raggiunto 100 milioni di utenti con i quali “conversare” e instaurare una conoscenza estesa su informazioni personali sensibili quali pensieri, interessi, domande, timori, ha confermato la centralità della protezione dei dati personali e il suo fortissimo legame con lo sviluppo e l’affermazione delle nuove tecnologie [2]. La decisione del Garante è stata valutata con favore da chi ne ha apprezzato soprattutto l’azione di tutela nei confronti delle sempre maggiori sottrazioni della privacy. Da altri è stata considerata una scelta oscurantista che rischia di far arretrare il nostro Paese nella graduatoria di quelli tecnologicamente non avanzati [3]. In questa sede vogliamo trarre lo spunto da questa vicenda per riflettere sull’importanza attuale della privacy nella nostra società.
Il diritto alla privacy inizia ad affermarsi a fine Ottocento, si sviluppa in maniera significativa nel Novecento, per poi “esplodere” all’inizio del XXI secolo, sotto il profilo sia del controllo sia della diffusione e proliferazione delle informazioni che le persone forniscono di sé stesse, volontariamente o involontariamente.
Il concetto nasce con l’idea illuministica di individuo autonomo, capace di servirsi della propria intelligenza, senza bisogno di “guide” esterne. Da tradizionale appannaggio della classe borghese, la riservatezza è in seguito diventata strumento di tutela delle classi più deboli dalle prevaricazioni dei potenti. In Italia ad esempio è nata con lo Statuto dei lavoratori, come strumento di protezione dalle ingerenze dei datori di lavoro [4]. Il controllo sui propri dati e la salvaguardia della sfera privata hanno peraltro consentito di andare oltre alla tutela dei diritti individuali e di assurgere a strumento di progresso sociale. Per esempio, nel caso dell’aids, la garanzia di anonimato dei pazienti e la conseguente protezione dal rischio di stigmatizzazione sociale ha permesso l’emersione del fenomeno con i conseguenti benefici per la comunità; oppure, quando a seguito dell’approvazione del cosiddetto “pacchetto sicurezza” da parte della Camera, la FNOMCeO si era opposta all’introduzione dell’obbligo dei medici di denunciare gli immigrati “clandestini” che si rivolgono alle strutture sanitarie pubbliche. In queste e in altre situazioni si è effettivamente realizzato il binomio dignità personale/interesse collettivo, sotteso, nell’articolo 32 della Costituzione, al diritto alla salute [5].
Un po’ di storia | L’inizio della storia del diritto alla privacy sarebbe nell’articolo “The Right to privacy”, apparso il 15 dicembre 1890 sulla prestigiosa Harvard Law Review, tuttora la più famosa rivista giuridica degli Stati Uniti, ad opera di due giovani avvocati bostoniani, Samuel Warren e Louis Brandeis, i quali analizzarono in maniera molto precisa e articolata il rapporto tra il diritto di informare ed essere informati e la riservatezza. Occasione data dalla circolazione non autorizzata di ritratti di persone, grazie ad un duplice sviluppo tecnico, la fotografia e la diffusione di giornali a stampa [6].
I dati, proiezione digitale delle nostre persone, sono input fondamentali per produrre avanzamenti in ambito medico e per migliorare le politiche sanitarie. Il concetto di dato personale e anonimo è peraltro ormai sparito in una sorta di far web di schedature e profilazioni ossessive, fuori controllo, nelle quali la violazione della privacy sembra sistematica. I dati, sempre più accessibili e trasparenti, sono infatti prede allettanti per la creazione di valore nel commercio digitale, per mezzo di indagini di mercato che trasformano le persone in codici, entità disumanizzate. I cittadini sono divisi in sorveglianti (pochissimi) e sorvegliati (i più), ricevono servizi gratuiti in cambio della possibilità di monitorare il loro comportamento, spesso senza consenso esplicito, illusi con la promessa di maggiore controllo laddove nei fatti ne vengono progressivamente privati[7]. La rete, da possibile risorsa democratica, si è trasformata in strumento di sorveglianza globale da parte delle mega-piattaforme private, versione digitale del panopticon di Jeremy Bentham, il dispositivo di sorveglianza carceraria che, a fine Settecento, profetizzava la moderna società del controllo sociale[8]. Nel Panopticon peraltro il punto di sorveglianza era centrale, visibile e generatore di timore, ora la sorveglianza invade qualsiasi punto della realtà.
Nessuno deve vivere come problema essere diventato trasparente (“di vetro”) nei confronti del potere tecnologico, al contrario oscuro e non trasparente, in grado non solo di spogliare(letteralmente) le persone dei vestiti ma soprattutto del proprio sé, della propria intimità e della vita di relazione, fino a controllare e mercificare tutti i dati della vita, compresi quelli sanitari.
Essere controllati è diventato qualcosa di normale e naturale, il potere controlla lasciando le persone fare esattamente ciò che vogliono, mantenendo un’illusione di libertà [9]. Come afferma il sociologo L. Demichelis: “Le persone si sono messe in vetrina, hanno accettato di essere sorvegliati in massa. […] Il sistema ha sfruttato, potenziandola n volte a fini di profitto, la tentazione umana di stare con gli altri e di sapere di loro e il narcisismo derivante dalla socialità innata e dalla tendenza all’esposizione di sé tipico dell’uomo. Ciò che sembrava un valore intangibile, forma della nostra soggettività e mezzo di costruzione della nostra individuazione (la privacy) è evaporata/svaporata” [10]. Nessuno deve vivere come problema essere diventato trasparente (“di vetro”) nei confronti del potere tecnologico, al contrario oscuro e non trasparente, in grado non solo di spogliare(letteralmente) le persone dei vestiti ma soprattutto del proprio sé, della propria intimità e della vita di relazione, fino a controllare e mercificare tutti i dati della vita, compresi quelli sanitari. Noi stessi infatti postiamo sui principali social network immagini di ospedale, referti diagnostici, informazioni sull’andamento delle malattie, vissuti di lutto, momenti cruciali della propria e della altrui esistenza. I dati personali, la condizione di salute/malattia, la vita intera sono diventati forza-lavoro e merce, un pluslavoro per garantire plusvalore al sistema economico, una risorsa da sfruttare, una merce che noi stessi produciamo diventando lavoratori-produttori di dati personali, in una sorta di schiavitù volontaria. Inoltre, in virtù della sempre maggiore diffusione del cosiddetto “internet delle cose”, per cui oggetti, dispositivi, sistemi diventano “smart”, cioè dotati di software che consentono loro di identificarsi elettronicamente, connettersi e comunicare direttamente tra loro, internet è sempre più trasformata da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata nel mondo fisico. Come afferma Laura DeNardis:“Lo schermo non è più l’arbitro di ciò che è online o di ciò che è offline. Nell’era in cui la maggior parte dell’accesso era mediato da uno schermo (computer, telefono, tablet) era chiaro quando qualcuno ‘era’ su Internet. L’allontanamento dagli schermi verso oggetti ambientali dissolve questa distinzione tra online e offline” [11].
La protezione della riservatezza, anche in ambito sanitario, richiede la concezione di nuovi costrutti maggiormente allineati agli attuali contesti ontologici prodotti dalle sempre più affascinanti/inquietanti intelligenze computazionali.
La decisione del Garante nei confronti di chatGPT ha riacceso il dibattito sul valore della privacy nella nostra società e sul suo stretto legame con lo sviluppo delle sempre più intrusive tecnologie digitali. La difesa del diritto al controllo dei propri dati dovrebbe essere la tutela della libertà dell’individuo e di una società che, consapevole di sé stessa e delle proprie capacità, dovrebbe poter dissentire rispetto al potere tecnologico, o almeno evitare di essere sempre più identificata secondo le forme e le regole del sistema [5]. La soluzione peraltro non sta nella semplice riappropriazione dei propri dati mediante norme rigide. Secondo Shoshana Zuboff, sociologa della Harvard business school, queste non toccano il punto nodale della questione. Anzi, la spinta a introdurre regolamenti sempre più inflessibili, paradossalmente, “non fa che istituzionalizzare e legittimare ancora di più la raccolta dei dati. È come negoziare il numero massimo di ore lavorative quotidiane di un bambino di sette anni, piuttosto che contestare la legittimità del lavoro minorile” [7].
La protezione della riservatezza, anche in ambito sanitario, richiede la concezione di nuovi costrutti, maggiormente allineati agli attuali contesti ontologici prodotti dalle sempre più affascinanti/inquietanti intelligenze computazionali, peraltro indispensabili, a causa delle loro immense potenzialità, per fornire risposte in ambiti ad elevata complessità e incertezza, come quelli della salute/malattia [12]. La risposta deve essere culturale, mediante il recupero e la promozione dei diritti delle persone, compreso quello di rinunciare, consapevolmente, alla fruizione del diritto alla privacy, per chi voglia partecipare al flusso dell’attualità tecnologica ed essere costantemente online anziché onlife [13].
Giampaolo Collecchia
Medico internista
Ufficio di Presidenza
Comitato per l’etica clinica Azienda Usl Toscana Nord Ovest
NB: il testo appena letto non è stato generato da una intelligenza artificiale
Bibliografia
ChatGPT nello studio del medico
Un potenziale valido strumento per la pratica clinica? Intervista ad Alberto Tozzi
ChatGPT, il medico e il paziente informato
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