Negli ultimi decenni, casi celebri come quelli di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby o, più recentemente, Dj Fabo, hanno fatto sì che l’eutanasia in Italia, come in molte altre parti del mondo, diventasse oggetto di vivo dibattito e al centro di accese controversie, non solo in ambito medico, ma morale, legislativo, etico, religioso, filosofico e politico. Circa un anno fa, a dimostrazione dell’urgenza da parte della popolazione di una nuova legislazione in merito, e grazie all’impegno dell’Associazione Luca Coscioni, sono state raccolte e depositate in Cassazione oltre 1,2 milioni di firme, con tavoli di raccolta in più di mille comuni, per chiedere un referendum sull’eutanasia legale. La Corte costituzionale, tuttavia, non ha ritenuto il quesito ammissibile.
Per coloro che non masticano la materia è difficile però orientarsi nella costellazione di parole che gravitano attorno a questo tema: qual è la differenza tra sospensione delle cure, sedazione profonda, suicidio assistito ed eutanasia? Di cosa parliamo quando parliamo di fine vita? È per questo motivo che si è scelto di dedicare a questo tema il secondo incontro della rassegna “Facciamo il punto: scelte scomode e diritti”, organizzato presso Il Circolo dei Lettori in collaborazione con l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Torino.
Come ha anticipato all’inizio della conferenza il moderatore Guido Giustetto, presidente dell’OMCeO di Torino, lungi da noi “l’ambizione” – ma verrebbe da dire la “presunzione” – di snocciolare in maniera esaustiva un tema così complesso. Gli ospiti, piuttosto, hanno cercato di dare un significato alle parole sopra riportate e di illustrare i punti di dibattito attorno al tema, tralasciando le dispute ideologiche che spesso prevalgono sull’argomento.
Ilenya Goss, pastora valdese e membro della Commissione di bioetica delle Chiese battiste metodiste valdesi, è d’accordo sul fatto che la questione del fine vita non è più da considerarsi un tabù. Se si pensa alla società italiana, è innegabile il crescente interesse sul tema, tanto che negli ultimi decenni il desiderio di approfondimento ha dato vita a lunghi dibattiti facendo addirittura sorgere scuole e master in death studies. Tuttavia, essendo un tema che include valutazioni mediche, etiche, biologiche, legislative, morali, filosofiche, religiose e politiche, vi è ancora un grande lavoro da fare per stabilire i gradi di autonomia e capire se siamo pronti in quanto società.
Al momento l’eutanasia, intesa come la somministrazione da parte dei medici di un farmaco letale al paziente che ne fa richiesta e che soddisfa determinati requisiti, è illegale in Italia. Il suicidio assistito, invece, in cui è la persona che ne fa richiesta, sempre nelle sue piene capacità cognitive, che si autosomministra il farmaco letale per porre fine alle proprie sofferenze, è possibile in determinate circostanze. E ciò grazie alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale e alla disobbedienza civile di Marco Cappato per l’aiuto fornito a DJ Fabo.
Come spiegato da Pier Paolo Donadio, già direttore del Dipartimento di anestesia, rianimazione ed emergenza della Città della Salute e della Scienza di Torino, è necessario anzitutto spiegare la differenza che intercorre tra casi di malattie terminali e casi di malattie croniche invalidanti non terminali. Se per le prime la sedazione palliativa profonda e continua, che altro non è – spiega – “un’anestesia protratta definitivamente”, rientra tra le pratiche accettate; per le seconde è ancora oggetto di dibattito, poiché rientrerebbe all’interno di ciò che potrebbe essere definito come un “suicidio assistito lento”.
Suicidio assistito e sedazione profonda e continua hanno in comune la volontà espressa consapevolmente dalla persona che ne fa richiesta e l’esito finale. La differenza sostanziale è da ricercare nelle modalità di esecuzione e nel coinvolgimento di terzi. E soprattutto: se con la somministrazione di un farmaco letale, e quindi nel caso del suicidio assistito, la morte è immediata; nel secondo caso il percorso che conduce alla morte può arrivare a durare anche diversi giorni. Ciò che va superata, secondo lui, è la distinzione tra “suicidio assistito”, quando il paziente è in grado di somministrarsi il farmaco letale, e “l’omicidio del consenziente”.
A questo proposito, Vladimiro Zagrebelski, magistrato e giurista, a cui è stato affidato il cappello introduttivo riguardo alla legislazione oggi in vigore in Italia, considera il quadro descritto dalla sentenza della Corte costituzionale per giustificare la “non punibilità dell’aiuto al suicidio” limitante. Non solo per le condizioni necessarie a cui fa riferimento, come dolori insopportabili e tecnologie che garantiscono l’alimentazione e l’idratazione artificiale, ma soprattutto perché trae le proprie conclusioni da quella che lui definisce una “pista sbagliata”.
La Corte costituzionale argomenta sulla base della legge 219/2017 e quindi spiegando che è da ritenersi irrazionale consentire un rifiuto delle cure, quando questo porta alla morte, e impedire invece l’aiuto al suicidio. La normativa 219/2017, infatti, prevede il divieto di accanimento terapeutico e garantisce al paziente il “diritto di rifiutare qualsiasi accertamento, parte o intero trattamento indicato dal medico per la sua patologia, nonché il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato”.
Con la sentenza del 2019, tuttavia, la Corte costituzionale non menziona il diritto all’autodeterminazione della persona, che è da considerarsi parte della dignità della persona, e quindi diritto inviolabile garantito dall’art.1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cui l’Italia è vincolata. L’elemento fondamentale della dignità della persona viene invece considerato nelle sentenze immediatamente successive delle corti costituzionali tedesche e austriache, poiché lo stato non può sindacare sulle ragioni di questa scelta, ma semplicemente garantire procedure tali per far sì che la decisione non sia inquinata da pressioni esterne. È questo, secondo Zagrebelski, il cavillo attorno a cui lavorare in caso di una nuova legislazione: porre l’autodeterminazione al centro del dibattito.
Lo scorso marzo, la Camera aveva approvato un testo per regolamentare quanto previsto dalla Corte costituzionale. Dopo la caduta del governo Draghi, l’esame del testo al Senato è stato però interrotto. Secondo l’Istat, questo stallo legislativo, ha conseguenze chiare: ogni anno, in Italia, oltre mille malati terminali, non potendo avvalersi della eutanasia legale, trovano nel suicidio “l’uscita di sicurezza” dalle loro atroci sofferenze fisiche e morali.
Secondo Maurizio Mori, filosofo e presidente della Consulta di bioetica onlus, di sicuro il progresso tecnologico ha fatto sì che, laddove prima esistevano solamente la vita e la morte, oggi esista una nuova realtà, una terra di mezzo compresa tra vita e morte in cui i nostri orizzonti e le nostre regole sono costrette a saltare. Nel fine vita, secondo lui, talvolta si creano quelle che definisce “condizioni infernali”, in cui la sofferenza è peggiore della morte. E se è valido dare adito, durante la vita, al considerare la “morte come il peggiore dei mali”, e a conservare sempre la speranza laddove ci sia vita, nel fine vita no, perché qui è la morte a diventare la speranza ultima.