Il dolore non è che l’altra faccia ombrosa del trascorrere del tempo. Così appare nella raccolta di poesie di Valerio Magrelli, Exfanzia, sul divenire vecchi.
Da sempre la poesia sorveglia e accompagna il dolore. Anche quello fisico, violento, quello dalla faccia sanguigna, dalle labbra dure di metallo, come scriveva la poetessa Alda Merini. Ma il più delle volte i versi lo sfiorano, quando il dolore non è che l’altra faccia ombrosa del trascorrere del tempo. Così appare nella più recente raccolta di poesie di Valerio Magrelli, Exfanzia[1].
Tra i versi in copertina, si affaccia una dura constatazione: “se stiamo bene, abbiamo sempre l’aria da imbecilli”. La sofferenza ci rende invece più umani e pensosi, paradossalmente meno fragili. E il basso continuo, la nota dolente (è il caso di dirlo) del nostro vivere, è appunto l’invecchiare, e invecchiando, il soffrire. La nuova raccolta esprime questo punto di vista di un divenire vecchi che solo per scherzo può essere confuso per una “questione di idraulica”: la valvola mitralica che perde, l’urina che non viene trattenuta, le lacrime che bagnano le guance alla minima emozione.
Ma non siamo solo un pantano dal quale, se premuto, sgorgano liquidi. Piuttosto, il tempo trascorso ci impasta, facendo sì che l’exfanzia non sia il semplice contrario dell’infanzia, ma la sua compensazione, lo yang del suo yin. Infanzia e vecchiaia spesso convivono, perfino nel sentimento di sé stessi. Quante volte pensiamo: sono trascorsi cinquant’anni, ma mi sembra ieri, sono vive quelle sensazioni, quegli odori e quei sapori, vedo quella luce e sento suonare quella canzone, qui e ora. L’ex non ribalta l’«in» ma lo conserva, e tutto si tiene insieme, facendoci assumere da anziani un aspetto più complesso, grazie ad un lungo lavorio di trasformazione. Per esempio, guardandoci allo specchio a sessant’anni, non troviamo più tanto noi stessi: piuttosto, vediamo papà e mamma disputarsi il nostro volto, facendo capolino tra le linee del viso. È anche il tempo dei riti ripetuti: delle analisi che non bastano mai, delle ricette sempre rinnovate e della consuetudine stretta con la farmacista, dell’ostia quotidiana, pastiglia di un Dio farmacologico che non promette salvezza, ma la dà.
La malattia come estensione della percezione | Nel proprio lavoro, Valerio Magrelli è più volte tornato a riflettere (e a far riflettere) sul corpo malato. Su questo aspetto, si sofferma anche Igor Pelgreffi in un’intervista al poeta pubblicata su Doppiozero il 15 febbraio 2022, intervista alla quale rimandiamo per approfondire [2]. Ad una risposta del critico, Magrelli risponde: “Per me c’è sempre stata un’idea del male come incremento conoscitivo. Non so fino a che punto questa sia una visione volontaristica: in qualche modo, cercare di estrarre qualcosa di buono dal cattivo; però, è un dato di fatto… Addirittura, la prima malattia di cui parlo, che è la miopia, la trovi ancora in Ora serrata retinae: il miope ha una visione stereoscopica, perché può vedere il mondo sia confuso sia normale, normato, con gli occhiali. Cosa che una persona che vede bene, invece, non possiede. Quindi il malato è sottoposto dolorosamente a uno sdoppiamento che, tuttavia, è anche un’estensione delle sue possibilità percettive. Suo malgrado, è il caso di dire”.
È possibile uscire vivi dalla vecchiaia? Magrelli si guarda dal rispondere, ma questa almeno potrebbe non essere soltanto un massacro, come sosteneva lo scrittore statunitense Philip Roth [3]. Piuttosto, la stagione della vita in cui si avverte più acutamente quel prezzo – la malattia – “che l’anima paga per l’occupare il corpo, come un affittuario paga una pigione per l’appartamento che abita”, con le parole di un guru indiano famoso citato da Magrelli in esergo a una delle poesie.
Forse con l’età scompare qualcosa di analogo alla cartilagine, un tessuto psichico che fa da cuscinetto tra la creatura e la sua vita. I due punti si toccano, e fa male. Si arriva troppo vicino alla corrente, e brucia.
Bruciano, i nuovi versi di Magrelli. E insieme invitano a sorridere all’infinita crudeltà del vivere nel suo quotidiano sfiorire. Il che conferma una eccezione alla regola, come recita la lirica dallo stesso titolo: «La verità è come il sangue: | ci permette di vivere, | ma non dovrebbe mai venire alla luce».