Esistono conflitti d’interesse culturali o politici?
Sull’agire secondo scienza e coscienza, secondo i propri principi e desideri: Luca De Fiore

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Sull’agire secondo scienza e coscienza, secondo i propri principi e desideri: Luca De Fiore
Foto di Polak / CC BY
Alla fine è impossibile sapere. Impossibile afferrare il mondo. Puoi solo descriverlo.
Cormack McCarthy, “Il passeggero”
È una domanda a cui non è semplice rispondere e forse è questo il motivo perché di questo argomento si è scritto meno rispetto ai tanti documenti, studi e monografie che hanno trattato più in generale il tema dei conflitti d’interesse economici e finanziari.
Nel 2016, su Plos Biology, Lisa Bero e Quinn Grundy hanno provato a fare un elenco [1]: credenze personali, religiose o politiche; esperienze personali; posizioni di rilievo o ruoli politici del ricercatore o dell’organizzazione a cui è affiliato; impegno intellettuale o teorico nell’ambito di scuole di pensiero; tipo di formazione; istruzione professionale o accademica; professione o disciplina; competizione o rivalità accademica; avanzamento di carriera o promozione; ambizione o desiderio di notorietà; posizione dominante del ricercatore nell’ambito di un’area di ricerca; esperienza personale con la questione esplorata nella ricerca; rapporto personale con una persona affetta dalla malattia o dalla condizione oggetto di studio; ruolo come ricercatore in uno studio incluso in una revisione sistematica.
L’opportunità di un ottenere un guadagno economico maggiore rispetto al dovuto compenso professionale è alla base di gran parte dei conflitti di interesse.
Alcune di queste condizioni non sono estranee all’ambito economico: pensiamo per esempio al progresso nella carriera professionale o alla competizione accademica. D’altra parte, sappiamo che l’opportunità di un ottenere un guadagno economico maggiore rispetto al dovuto compenso professionale è alla base di gran parte dei conflitti di interesse nell’assistenza al malato così come nella ricerca in generale e in quella clinica in particolare [2]. Di fronte a quella che è ormai un’evidenza riconosciuta in modo quasi unanime (una panoramica completa e sostanzialmente aggiornata si trova sul fascicolo del 2 maggio 2017 del JAMA con una viewpoint che sintetizza i motivi per cui occorre vigilare sui conflitti d’interesse [3]) sono stati messi a punto sistemi diversi per tutelare i cittadini e i pazienti, nonché per proteggere l’integrità della base di conoscenze utili alle e ai professionisti sanitari. In primo luogo le disposizioni contenute nei codici deontologici degli Ordini dei medici [4]: in particolare l’articolo 30 dichiara che il medico deve evitare “qualsiasi condizione di conflitto d’interessi nella quale il comportamento professionale risulti subordinato a indebiti vantaggi economici.” Lo stesso articolo del codice obbliga il medico a dichiarare l’eventuale condizione di conflitto, rimandando evidentemente ai sistemi di diverso tipo e di differente efficacia che hanno cercato negli ultimi decenni di rispondere con la trasparenza all’opacità delle condizioni che determinano i conflitti stessi.
L’articolo 30 del codice di deontologia però precisa due volte che il conflitto d’interessi può riguardare “aspetti economici e di altra natura”. Con l’espressione “di altra natura” è probabile si intendano tutte quelle condizioni elencate da Bero e Grundy, che peraltro negavano si potesse parlare in quelle circostanze di interessi in conflitto con l’obiettivo primario del lavoro del medico: “Concentrarsi su interessi come le convinzioni personali, l’esperienza o gli impegni intellettuali – scrivevano – può distogliere l’attenzione dai conflitti di interesse finanziari, che hanno un potenziale di influenza diffuso. Il risultato è un’erosione della base di prove e della fiducia nella scienza, rendendola vulnerabile alle rivendicazioni di gruppi antagonisti, come stiamo vedendo con questioni diverse come la vaccinazione infantile e il cambiamento climatico”. Il punto di vista perplesso dei due autori della Facoltà di farmacia dell’Università di Sidney, in Australia non è condiviso da tutti: “è ora di iniziare a prendere più seriamente gli interessi concorrenti non finanziari” scrivevano nel 2008 i direttori di PLoS Medicine [5]. È dunque una questione controversa che merita una riflessione attenta.
Leggendo l’elenco dei pericoli paventati da Bero e Grundy (che sembrano aver quasi voluto esagerare per dare al lettore la sensazione dell’impossibilità di governare concretamente un insieme così vario di fattispecie) si può davvero pensare che sia inevitabile che la forma mentis di un ricercatore influisca sulla propria attività di ricerca. Eppure, si tratta di qualcosa che mette a disagio chi è convinto della neutralità della scienza e della ricerca. “Tuttavia – spiegano Bero e Grundy – i valori sociali, l’interpretazione e l’impegno culturale sono componenti essenziali della ricerca in ogni sua fase. Quando le esperienze passate, l’identità personale o le competenze vengono trattate come conflitti di interesse, chi ha un interesse nel processo di ricerca viene penalizzato. Allo stesso tempo, coloro che si dichiarano neutrali – pur avendo anch’essi un interesse particolare nel processo – finiscono col beneficiare di una posizione privilegiata sebbene anche i loro, di interessi, possano influenzare la ricerca”. Chi nega che si possa parlare di conflitti d’interesse in presenza di convinzioni politiche o culturali sostiene anche che aumentando le circostanze in cui si può parlare di conflitti d’interesse si finisce col minimizzare l’importanza e l’impatto sulla ricerca e sulla clinica dei secondi fini di natura economica.
I valori sociali, l’interpretazione e l’impegno culturale sono componenti essenziali della ricerca in ogni sua fase.
Dopo la riflessione di Bero e Grundy, però, altri autori hanno lavorato su questo argomento e alcuni – come per esempio Sandro Galea, epidemiologo della Boston university – non possono certamente essere considerati “negazionisti” del problema dei conflitti d’interesse. Sull’American Journal of Public Health, nel 2018, Galea ha considerato tre tipi di conflitto – interessi di carriera, conflitti basati sulla propria rete di contatti e conflitti ideologici – cercando di mettere meglio a fuoco le loro caratteristiche distintive, anticipando però di non voler dare risposte a interrogativi comunque molto complessi [6].
Gli interessi di avanzamento professionale – spiegava Galea – sono insiti nella vita professionale di ogni ricercatore e sono una parte riconosciuta del sistema nel quale si muovono gli attori della ricerca e dell’assistenza. Sistema all’interno del quale agiscono enti di assistenza, riviste scientifiche note e meno note, agenzie di intermediazione di ogni genere: “chiunque lavori all’interno del sistema della ricerca sanitaria impara che avere buone idee può essere necessario, ma non è sufficiente per ottenere pubblicazioni e finanziamenti. Questi fatti della vita creano un potenziale conflitto tra gli attuali sistemi dominanti di remunerazione della ricerca e la definizione di migliore scienza possibile. Il ben documentato bias di pubblicazione (che privilegia la condivisione di risultati positivi, nda) esemplifica queste distorsioni. Dal momento che il conflitto di interessi di carriera è una risposta razionale alla struttura premiante del sistema, incentiva la produzione scientifica influenzata dalle scelte degli sponsor e dalle riviste che dominano il mercato”.
Un secondo tipo di conflitto non economico, prosegue Galea, parte della convinzione che talvolta il network in cui agisce un ricercatore o un clinico possa trasformarsi in una rete chiusa solidale che si autoalimenta grazie al lavoro di chi ne fa parte. Per esempio, “gli epidemiologi nutrizionali possono fare carriera pubblicando articoli che promuovono gli interessi dell’epidemiologia nutrizionale. Sopravvivono e avanzano nella loro carriera pubblicando lavori che rafforzano ciò che si muove nel mainstream della loro disciplina” e sono meno propensi a pubblicare lavori che non restano nel solco di ciò che è comunemente approvato. A titolo di esempio, Galea cita un proprio studio sui ricercatori che si pongono (pregiudizialmente o meno) da una parte o dall’altra della controversia sul ruolo dell’assunzione di sale nella salute della popolazione: ebbene c’è il 50 per cento di probabilità in più che un autore citi articoli che concordano con il suo punto di vista rispetto ad articoli che sono in disaccordo [7].
L’ultimo tipo di conflitto non economico citato da Galea è quello dichiaratamente ideologico. “Tutti noi portiamo nel nostro lavoro pregiudizi e convinzioni, e la scienza della salute delle popolazioni affronta inevitabilmente questioni su cui i ricercatori hanno valori e prospettive fortemente radicati”. Galea ricorre a un esempio molto pertinente: consideriamo l’articolo uscito sul BMJ che dimostrava che i Paesi con sistemi politici democratici hanno maggiori probabilità di avere indicatori di salute positivi rispetto alle nazioni con governi totalitari [8]: la rivista avrebbe accettato l’articolo se gli autori fossero giunti a conclusioni opposte? (tipo che le dittature fanno bene alla salute…). “La risposta, purtroppo, è probabilmente no” dice Galea.
La lettura dei contributi citati ci dà la misura di come il tema degli interessi non economici rappresenti un’importante ma sottovalutata sfida per la ricerca e per l’assistenza sanitaria. Allo stesso tempo, però, anche la consultazione di altra letteratura prodotta negli ultimi cinque anni suggerisce di essere precisi nel definire cosa intendiamo con l’espressione “conflitti d’interesse non finanziari”. Infatti, un conto è il desiderio di avanzamento professionale (legittimo: se non a spese della sicurezza del malato), un altro è invece l’appartenenza a una consorteria accademica. Ugualmente, qualcuno potrebbe considerare conflitto d’interesse ideologico o culturale l’adesione politica e culturale ai principi di equità e universalismo del servizio sanitario nazionale pubblico, cosa ben diversa dal far parte di una sotto-specialità di area cardiovascolare che per difendere sé stessa decida arbitrariamente di prevedere in una linea guida la prescrizione di una procedura interventistica di efficacia o sicurezza non dimostrata.
La questione è complicata e può essere utile un altro esempio. Torniamo indietro alla fine del 2017 quando le linee-guida sulla terapia dell’ipertensione dell’American heart association/American college of cardiology non vengono approvate dall’American academy of family pratice (Aafp) [9]. Dalle diverse società scientifiche (altre nove oltre le due cardiovascolari erano coinvolte nella stesura delle raccomandazioni) partirono accuse incrociate di voler incentivare la sovradiagnosi o il sottotrattamento dei pazienti, poiché la riconsiderazione delle soglie diagnostiche avrebbe “arruolato” un 18 per cento in più dei cittadini statunitensi nella popolazione degli ipertesi da trattare [6]. Però, a rendere il quadro ancora più complesso, dobbiamo dire che l’Aafp puntò il dito contro il nome del presidente del comitato di stesura delle linee-guida che coincideva col nome del chair dello Steering committee dello studio Sprint, sperimentazione molto discussa per vizi metodologici che a seconda di una parte consistente della comunità scientifica giungeva a conclusioni fuorvianti.
Considerare come ugualmente rischiosi i rapporti economici della medicina accademica con l’industria e il richiamarsi di un clinico o di un ricercatore a valori etici o culturali è abbastanza temerario.
La preoccupazione di Bero e Grundy è probabilmente fondata, ma una riflessione onesta può portare a ritenere che il desiderio di favorire colleghi appartenenti alla propria Scuola o cercare di ottenere visibilità e notorietà personale sono azioni che configurano un conflitto d’interessi. In uno degli articoli usciti sul New England Journal of Medicine di una serie che nel 2015 suscitò vibranti polemiche, Lisa Rosenbaum sosteneva che gli studiosi che avevano negli anni precedenti puntato il dito contro le relazioni tra medici e industrie fossero condizionati da un conflitto di interessi di natura ideologica: in altre parole, erano ostili alle aziende farmaceutiche [10]. Per questo motivo le loro tesi erano sostanzialmente da rigettare.
Considerare come ugualmente rischiosi i rapporti economici della medicina accademica con l’industria e il richiamarsi di un clinico o di un ricercatore a valori etici o culturali è tutto sommato abbastanza temerario. Vuoi nella gestione condivisa di un problema di salute di un paziente, vuoi nella programmazione di una strategia di politica sanitaria, un professionista deve agire secondo scienza e coscienza: se la prima – la scienza – può essere nel complesso rappresentata dal richiamarsi alla medicina delle prove – cos’è la seconda – la coscienza – se non l’insieme dei valori, dei principi ma anche dei legittimi desideri che informano il nostro agire?
Luca De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
Bibliografia
Quello che serve è un approccio politico di integrazione: l'articolo di Elena Sciurpa
L'editoriale di Guido Giustetto, presidente dell'OMCeO Torino
Piccoli grandi interventi per salvare la salute delle città e di chi le abita: Elena Granata