“Chi preferiresti?” È la domanda con cui si apre la prima puntata della prima stagione di Dr. House, “un medico che ti stringe la mano mentre stai morendo, o uno che ti ignora mentre stai guarendo?”. Al netto della retorica da fiction televisiva, e al netto del fatto che sappiamo bene che è possibile fare le due cose insieme – mostrare vicinanza ai pazienti continuando a svolgere efficacemente e con professionalità il proprio lavoro-, la domanda è interessante perché solleva una questione di sempre maggiore attualità. Se nella serie di David Shore, la comunicazione è inesistente perché Dr. House è un misantropo convinto dell’innata mendacia dei propri pazienti, che finiscono per essere considerati solamente enigmi di sintomi da risolvere; oggi nel mondo reale medico e paziente non riescono a comunicare perché spesso non ce n’è il tempo.
È per questo motivo che si è deciso di affrontare questo tema durante l’ultimo incontro del ciclo di dibattiti organizzati presso il Circolo dei Lettori da il punto, rivista online dell’Ordine dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri di Torino. Nonostante infatti la comunicazione sia alla base del rapporto medico sostanzialmente da sempre, il tema è oggi investito da una contemporaneità particolare. “Una particolarità”, ci tiene a sottolineare il moderatore Guido Giustetto, presidente dell’OMCeO di Torino, “che scaturisce da un paradosso: più parliamo di comunicazione tra medico e paziente, e meno tempo c’è per farlo”.
Secondo Giustetto, la Legge 219/2017 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento ha avuto il merito di valorizzare il rapporto e il dialogo tra medico e paziente, facendo sì che il tempo di comunicazione costituisse tempo di cura. Dall’altra parte, però, impegni amministrativi, carenze di fondi e carenze di personale hanno agito contemporaneamente come forza contraria, assottigliando il tempo effettivo delle visite. Proprio l’anno in cui fu promulgata la legge 219, la Regione Lazio approvò una delibera per “implementare la produttività e l’efficienza nell’erogazione delle visite specialistiche”, prevedendo come visite neurologiche, ginecologiche, oncologiche e neurologiche non dovessero durare più di venti minuti. Esempio a cui, pochi anni dopo, ha fatto seguito anche la Regione Piemonte, in cui i medici sono giustamente insorti denunciando come il recupero delle liste d’attesa non può danneggiare la cura dei pazienti.
Come si fa quindi a esigere un diritto? E se non si può, come si può migliorare la comunicazione tra medico e paziente al netto delle condizioni reali che ci sono concesse?
Secondo il primo ospite Alberto Scanni, presidente emerito del Collegio italiano primari oncologia medica (Cipomo) e presidente onorario dell’Associazione Progetto Oncologia Uman.A, da lui fondata, se la medicina moderna ha giovato dall’innovazione tecnologica, è diventata dall’altra parte carente dal punto di vista dell’ascolto e della parola. “Di sicuro”, ha spiegato Scanni, “il sistema non aiuta: è imposto al medico un minutaggio della visita e tutta una serie di attività di carattere burocratico”. Tuttavia, secondo lui, spesso è il medico a non metterci ciò che lui definisce quid di oblatività, e cioè quella disposizione d’animo e di generosità scevra da interessi egoistici.
Nel settore oncologico, dove la comunicazione di brutte notizie è più frequente che in altri, l’empatia diventa necessaria proprio perché talvolta è l’unica cosa rimasta per alleviare le sofferenze del malato. “In quest’ambito, dire una parola in più o dire una parola in meno fa la differenza. Il malato vuole capire che c’è una persona a cui può affidarsi, che lo guardi negli occhi, che gli stia vicino, che gli dica una parola utile per il suo percorso e che gli comunichi un messaggio: io ci sono”.
Quando si parla di rapporto tra medico e paziente, oltre alle parole di conforto, una buona comunicazione e la capacità di ascolto sono necessarie a monte, e cioè per la descrizione dei sintomi, della cartella clinica e quindi per la formulazione di una diagnosi. Aveva fatto molto discutere qualche anno fa lo studio pubblicato dal Journal of Internal Medicine, secondo cui in media i pazienti riescono a parlare appena 11 secondi prima che i dottori li interrompano. Ciò di cui si parlò molto meno, invece, fu un sondaggio parallelo condotto da Medscape secondo cui l’87 per cento dei dottori presi in esame è convinto di svolger un ottimo lavoro nell’ascoltare i propri pazienti.
La seconda ospite Silvana Quadrino, psicologa e counsellor, afferma come questa ritrosia da parte dei medici nell’ammettere il problema è senz’altro un ostacolo che complica ulteriormente la situazione. Presso l’Istituto Change di Torino, Quadrino si occupa proprio di questo: fare formazione alla comunicazione per medici e professionisti sanitari. Secondo lei, infatti, è una formazione adeguata ad essere assente. Gli studenti di medicina hanno diritto a una formazione in questo senso proprio perché, oltre al carico burocratico, è anche il paziente che è cambiato: è diventato più curioso, più interlocutorio, fino al punto da mettere in difficoltà il medico. “Anche durante la simulazione di un colloquio, che è una delle attività che facciamo presso Change”, ha proseguito Quadrino, “i medici che si considerano bravi, e che cercano spontaneamente di fare il meglio per i propri pazienti, parlano molto, scegliendo le parole con cura e con attenzione. Ma la voce del paziente non c’è. È un ponte che non si appoggia su nessun pilastro. Invece la comunicazione è un dialogo, una questione di equilibri e di curiosità, perché l’ascolto si mantiene se c’è generosità, e perché solo così il medico è genuinamente interessato ad ascoltare ciò che il paziente ha da dire”.
Al regista teatrale Gabriele Vacis, invece, che è intervenuto in via telematica per via di una febbre che lo ha costretto a casa, Giustetto ha chiesto di esprimersi sulla sua concezione di arte come strumento di terapia, e se la medicina possa essere considerata, per certi versi, un’arte. Secondo Vacis, che ha descritto alcune delle pratiche che svolge presso l’Istituto delle pratiche teatrali per la cura della persona, il rapporto tra medicina e arte è antichissimo. Basti pensare al teatro di Epidauro, che era sostanzialmente un reparto del più grande ospedale dell’antichità, e sorgeva infatti all’interno del centro di guarigione più celebrato del mondo classico dedicato al dio guaritore Asclepio.
Presso l’Istituto di pratiche teatrali per la cura della persona di Torino, da lui fondato, Vacis si occupa di coordinare gruppi di lavoro attraverso tutta una serie di esercizi fisici che servono a riprendere coscienza del proprio corpo, e attraverso dei video colloqui, per riconnettere le persone alla facoltà dell’ascolto. “Ciò che riprendiamo dal teatro”, ha spiegato Vacis, “è proprio questo: nei miei spettacoli da qualche anno le luci sul pubblico sono sempre accese perché gli attori hanno bisogno di ascoltare gli spettatori che li ascoltano. E queste sono pratiche che si possono insegnare”.
Coerentemente con il tema del dibattito, in seguito agli interventi dei relatori, anche dal pubblico sono arrivati diversi spunti, facendo emergere problematiche e potenziali soluzioni. In molti hanno sollevato la necessità di introdurre dei corsi di comunicazione all’interno delle facoltà di medicina. Secondo altri, i test d’ingresso, così come sono pensati, si basano su una serie di quiz che poco hanno a che vedere poi con la professione in sé, soprattutto riguardo alla capacità di relazionarsi con gli altri. Altri ancora hanno manifestato la percezione che Ministero, Ordini dei medici e Università siano completamente avulsi dall’andamento degli ospedali, e debbano invece mostrare maggiore alacrità nell’affrontare tali problematiche. Di sicuro, le parole e i concetti più menzionati sono stati quelli dell’ascolto, dell’empatia e della generosità. “Altro che venti minuti”, ha concluso un medico in pensione seduto tra il pubblico, “oggi bisogna fare in fretta e produrre, produrre, produrre. O usciamo dalla concezione che la medicina non è un’azienda che deve produrre, o noi sempre di più non guarderemo in faccia i pazienti, ma i computer, i monitor, le macchine”.
A cura di Matteo Cresti
L’insieme di comportamenti, attitudini e caratteristiche che riguardano aspetti biologici, psicologici, sociali e culturali della...