Diagnosi e sovradiagnosi, come comunicare al pubblico?
Spiegare i rischi della sovradiagnosi alla cittadinanza richiede una comunicazione chiara ed equilibrata, l’intervista a Raffaele Giusti.

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Spiegare i rischi della sovradiagnosi alla cittadinanza richiede una comunicazione chiara ed equilibrata, l’intervista a Raffaele Giusti.
La diagnosi precoce in oncologia non sempre è utile al fine della cura e della sopravvivenza. Uno degli “effetti collaterali” inevitabili degli screening, anche se appropriati e ben organizzati, è la sovradiagnosi di tumore. Spiegare tutto ciò alla popolazione non è facile e i motivi sono molteplici, ne abbiamo parlato con Raffaele Giusti dell’Oncologia medica dell’Azienda ospedaliero universitaria Sant’Andrea.
Nell’immaginario comune la parola cancro rievoca una definizione tanto semplice quanto anacronistica di malattia neoplastica con decorso naturale e fatale, risalente ad un’epoca in cui il cancro veniva diagnosticato quando il paziente presentava già i segni e i sintomi della malattia. Per alcune forme tumorali potrebbe risultare una definizione ancora valida, ma molto è cambiato da quando siamo diventati in grado anticipare il tempo della diagnosi grazie agli screening e quindi di rilevare il cancro in anticipo, prima ancora che si manifesti fisicamente. È evidente che oggi la parola cancro comprende uno spettro di anomalie cellulari con un decorso naturale variabile: alcune crescono molto rapidamente, altre molto più lentamente, altre smettono di crescere completamente, alcune addirittura regrediscono senza il ricorso ad interventi.
Tuttavia, ancora oggi, a un clinico che legge le parole quali cancro, tumore, neoplasia, neoformazione e tumefazione rimane più spesso impresso il concetto di gravità e di fatalità piuttosto che una definizione più dinamica di malattia legata al suo essere evolutivo e potenzialmente gestibile. Questo può portare all’utilizzo di trattamenti non proporzionati sia nella valutazione diagnostica strumentale e umorale sia nell’utilizzo di chirurgia, radioterapia e chemioterapia. Tutto ciò ha fatto sì che nella letteratura scientifica si sia cominciato a parlare da un lato di sovradiagnosi e da un lato di sovratrattamento.
È necessario tenere sempre in considerazione l’interazione tra tre variabili importanti: le dimensioni della malattia al momento del rilevamento, il suo tasso di crescita e i rischi di mortalità concorrenti del paziente, ovvero le comorbidità.
Assolutamente sì. Patient first, come si dice. Il termine sovradiagnosi è utilizzato quando viene diagnosticata una condizione che altrimenti non causerebbe sintomi o esiti fatali. Quando si parla di cancro i casi di sovradiagnosi possono rientrare in due scenari distinti: il primo quando il cancro non progredirebbe o, addirittura, regredirebbe naturalmente. Il secondo quando il cancro progredisce così lentamente che il paziente muore per altre cause prima che la malattia oncologica lo renda sintomatico. Da questa premessa bisognerebbe partire per rispondere alla domanda. È necessario tenere sempre in considerazione l’interazione tra tre variabili importanti: le dimensioni della malattia al momento del rilevamento, il suo tasso di crescita e i rischi di mortalità concorrenti del paziente, ovvero le comorbidità. Prendendo in considerazione questi tre fattori è possibile affermare, ad esempio, che anche la diagnosi precoce di un cancro in rapida crescita può rappresentare una sovradiagnosi se rilevata in un paziente con una attesa di vita molto limitata.
Per capire la sovradiagnosi, bisogna prima capire il concetto di eterogeneità della progressione della malattia tumorale.
Nello stesso modo in cui comunicheremmo che annaffiare una pianta più del dovuto può farla appassire definitivamente. Per capire la sovradiagnosi, bisogna prima capire il concetto di eterogeneità della progressione della malattia tumorale, che può essere rappresentata idealmente in un grafico usando le frecce per rappresentare i diversi tassi di progressione del cancro relativamente alle possibilità che abbiamo di curarlo (figura 1). La freccia etichettata fast rappresenta una malattia a rapida crescita, definita come quella che porta rapidamente a sintomi e a morte. La freccia etichettata slow rappresenta un cancro a crescita lenta, che porta sintomi e morte ma solo dopo molti anni. La freccia etichettata very slow rappresenta un cancro che non causerà mai problemi poiché il paziente morirà per qualche altra causa prima che il cancro sia abbastanza sviluppato da produrre sintomi.
La spiegazione che spesso utilizzo è che ci si può trovare in condizioni di crescita veloce e sia quindi necessario un trattamento ed essere nello stesso momento in una condizione clinica da poter ricevere quel trattamento o, ugualmente, ci si può trovare in condizioni di una crescita molto lenta, essere in buone condizioni generali e non avere necessità di alcun trattamento.
Figura 1
Ma allora ci domanderemmo dove sia il problema se tutto è così chiaro: l’enigma della sovradiagnosi è che i medici non possono quasi mai sapere chi è il reale “sovradiagnosticato” nel momento in cui viene fatta una diagnosi di cancro. Teoricamente, la sovradiagnosi può essere identificata in un individuo solo e soltanto se quell’individuo, nel tempo non verrà mai curato e morirà per altra causa. Tuttavia, poiché noi medici potremmo non conoscere esattamente l’evolversi di queste due variabili per ogni singola patologia tumorale, non sappiamo quali pazienti siano stati sovradiagnosticati al momento della diagnosi, e pertanto la tendenza è quella di trattarli, tutti. Certamente la sovradiagnosi contribuisce al problema dell’aumento dei costi sanitari, ma non solo: una diagnosi eccessiva rappresenta una grande criticità poiché alcuni pazienti possono addirittura essere danneggiati da cure non necessarie.
Tradurre tutto ciò al cittadino è molto difficile, lo si può fare quando si è a conoscenza della storia naturale di una determinata malattia, delle reali possibilità di cura e delle condizioni cliniche del paziente, con molta difficoltà e sempre all’interno di un percorso condiviso con il nostro paziente.
Senza informazioni chiare ed equilibrate sui rischi e sui benefici di questa arma a doppio taglio, un approccio allo screening “more, more and more” che alimenti i timori del pubblico è fuorviante e dannoso e non tiene in considerazione i progressi compiuti nel trattare il cancro.
Mi viene in mente una frase che ho letto qualche tempo fa che diceva più o meno così: “Most religions would be lucky if their followers believed in their teachings as deeply as the public believes in cancer screening”. Vorrei far riferimento ai risultati di uno studio pubblicato su JAMA che sono lo specchio di alcune situazioni che ritroviamo nella pratica clinica:
Credere nella validità degli screening ha una radice psicologica. Le persone tendono a temere il cancro più di qualsiasi altra malattia, in parte anche a causa della convinzione comune che la diagnosi di cancro sia una condanna a morte inevitabile. Contro la paura di una minaccia su cui le persone sentono di avere poco controllo, lo screening dà potere, offre un modo per reagire.
Non c’è dubbio che alcuni screening del cancro salvano vite umane. Ma il pubblico non sta ascoltando l’intera storia sullo screening. Mentre molti individui sottoposti a screening hanno maggiori probabilità di essere aiutati che danneggiati, milioni di altri che scelgono di sottoporsi a screening per il cancro hanno in realtà maggiori probabilità di essere danneggiati che aiutati. Senza informazioni chiare ed equilibrate sui rischi e sui benefici di questa arma a doppio taglio, un approccio allo screening “more, more and more” che alimenti i timori del pubblico è fuorviante e dannoso e non tiene in considerazione i progressi compiuti nel trattare il cancro.
Bibliografia
Raffaele Giusti è oncologo medico presso l’Azienda ospedaliero universitaria Sant’Andrea di Roma. Gran parte della sua attività di ricerca scientifica è dedicata alla promozione e alla personalizzazione delle terapie di supporto in oncologia e al miglioramento della qualità della vita dei pazienti.
Dalla definizione del problema alla ricerca di soluzioni per il bene dei pazienti. Di Camilla Alderighi e Raffaele Rasoini
La nota di Giampaolo Collecchia
Sui rischi e benefici degli screening: il punto di vista di Carlo Senore
Le parole di Vittorio Fontana, medico geriatra, in attesa di risposte che non arrivano mai
La solitudine del medico nell’ospedale di notte: il racconto di Michela Chiarlo
La posizione dell'Associazione Alessandro Liberati