Death Education in età pediatrica? Se sì, come e perché
Con il coinvolgimento di genitori, insegnanti e professionisti formati: la nota di Ines Testoni

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Con il coinvolgimento di genitori, insegnanti e professionisti formati: la nota di Ines Testoni
In tutto l’Occidente è molto difficile per la maggior parte delle persone, compresi coloro che lavorano in ambito sanitario, affrontare il tema della morte, perché questo argomento è causa di disagio e distress emotivo [1]. Confrontandomi con medici che operano nell’ambito dell’oncoematologia pediatrica ho avuto modo di rilevare quanto sia sentita nei loro reparti la necessità di trovare degli spazi che permettano di poter elaborare la forte ansia che lo spettro della morte genera. Si tratta infatti di un vissuto che rimane sostanzialmente abbandonato alla dimensione solipsistica dei giovani pazienti, in quanto è preclusa loro ogni possibilità di elaborarlo attraverso il dialogo con gli adulti [2].
Poter contare su una preparazione preventiva su questi argomenti aiuta anche a seguire con maggiore competenza e responsabilità il piano di cura.
Secondo Lucia, medico palliativista, i primi ad essere incapaci di prendere in considerazione questo tipo di tematiche sono i genitori, ovvero coloro che dovrebbero garantire il supporto più sicuro ai propri figli, perché a loro volta vengono sopraffatti dal dolore e dalla disperazione quando vengono edotti della prognosi infausta. È così che bambini e adolescenti, quando cominciano a vedere i loro genitori in preda allo sconforto, per quanto stremati per la malattia e la cura, cercano di aiutarli a soffrire meno o si sentono ancora più disorientati per quanto accade loro. Poter contare su una preparazione preventiva su questi argomenti aiuta anche a seguire con maggiore competenza e responsabilità il piano di cura [3].
Roberto, giovane pediatra molto sensibile che ha già dovuto elaborare il lutto vicario causato dalla morte di alcuni piccoli pazienti e dal rapporto con i loro genitori, sottolinea la stessa cosa, evidenziando che i bambini costretti ad affrontare terapie molto dolorose e invasive giungono senza strumenti rispetto alla possibilità di rappresentarsi la malattia e ciò che potrebbe loro accadere [4]. Fino a quel momento hanno vissuto insieme ai loro genitori in una sfera di totale inconsapevolezza, rispetto all’eventualità che ci si possa ammalare gravemente e si debbano affrontare cure impegnative e operare delle scelte rispetto a quando esse debbano essere interrotte [5]. Nessuno conosce le cure palliative, per esempio, e la loro finalità, per cui per i medici è sempre molto difficile spiegare che cosa significa dover fare i conti con un approccio che valorizza la vita fino alla fine, senza voler né ritardare la morte né anticiparla. La letteratura dà ragione anche ad Antonia, medico di medicina generale, secondo la quale il non considerare mai realisticamente e concretamente questi argomenti a casa, quando le persone non sono ammalate, è alla base di molti comportamenti disfunzionali nella relazione con le strutture sanitarie e poiché non esiste più il medico di famiglia, poiché il numero di pazienti in carico è sempre più esorbitante, è impossibile per questa figura assumere il ruolo dell’educatore o dello psicologo che spiega e supporta tali informazioni.
Il non considerare mai realisticamente e concretamente questi argomenti a casa, quando le persone non sono ammalate, è alla base di molti comportamenti disfunzionali nella relazione con le strutture sanitarie.
In effetti la necessità di intervenire nelle scuole fin dall’infanzia – coinvolgendo genitori e insegnanti affinché riflettano sul fatto che la salute è un bene prezioso che va salvaguardato e che anche quando ci si impegna in tal senso può comunque accadere che ci si ammali e si debba morire – è ormai considerato ineludibile da molto tempo, a partire dai primi studi realizzati negli Stati Uniti negli anni Settanta del secolo scorso e dalle iniziative realizzate in Italia ormai da una ventina d’anni [6]. Tanto i bambini quanto gli adolescenti si chiedono esplicitamente che cosa significhi morire, ma di fatto non trovano adulti preparati ad accogliere le loro richieste di spiegazione. Per questo motivo cercano informazioni dove capita, in modo disordinato e giungono a maturare rappresentazioni sostanzialmente irrealistiche che possono essere all’origine di tanti comportamenti disfunzionali che mettono a repentaglio il bene più prezioso. Genitori e insegnanti non sanno gestire l’argomento perché a loro volta mai nessuno, durante la loro infanzia, li ha ascoltati. Siamo ormai giunti alla quinta generazione di famiglie in cui l’esperienza diretta con la morte è stata esternalizzata e il dialogo intorno a tale tema è stato censurato [7].
Tanto i bambini quanto gli adolescenti si chiedono esplicitamente che cosa significhi morire, ma di fatto non trovano adulti preparati ad accogliere le loro richieste di spiegazione.
La death education (DeEd) nelle scuole con allievi che appartengono all’età pediatrica deve prevedere il coinvolgimento e la formazione degli adulti: genitori e insegnanti. Non si può prescindere da questo, perché entrare nel merito di tali argomenti implica che poi essi vengano portati a casa e discussi in classe. Se genitori e insegnanti mostrano con evidenza la loro impreparazione con risposte di ansia e sconforto fino al pianto – come spesso accade –, tutto ciò che viene costruito dal curriculum di DeEd viene smantellato in un battibaleno, perché gli allievi considereranno la questione in realtà troppo dolorosa e quindi non gestibile.
Gli obiettivi fondamentali di tali percorsi sono, al contrario, quelli di raggiungere una consapevolezza rispetto a che cosa significa morire, in che senso la morte sia un processo irreversibile dal punto di vista biologico ma non spirituale, quali sentimenti si accompagnino alla morte di qualcuno che ci è caro e come sia possibile supportare impegnandosi a non lasciare solo chi rimane.
Tali curricula sono differenziati rispetto all’eventualità che all’interno della classe ci sia oppure no qualcuno che soffre per la perdita di una persona cara o di un animale domestico. Nel primo caso l’intervento è centrato sulle cognizioni fondamentali che garantiscono di capire e sentire che è possibile affrontare senza terrore e ansia la consapevolezza di essere mortali. Nel secondo caso è necessario centrare l’intervento sul supporto del piccolo dolente e sulle rappresentazioni consolatorie che gli permettono di non cadere nella disperazione. In ambito ospedaliero è necessario lavorare in quest’ultima direzione, sempre prevedendo il coinvolgimento degli insegnanti che operano in tale contesto e dei genitori.
Tutti questi interventi non possono essere improvvisati, perché il pensiero di essere mortali è molto angosciante, devono quindi essere gestiti da professionisti preparati, in grado di garantire l’aiuto competente necessario quando dovessero presentarsi problemi e difficoltà impreviste. Secondo Roberto, una figura del genere dovrebbe poter operare in tutti i reparti di oncoematologia pediatrica e potrebbero essere gli psicologi a ricoprire un tale ruolo, magari assumendo le famiglie che certamente dovranno gestire un percorso di cure palliative pediatriche e prendere quindi decisioni che abbiano a che fare con l’interruzione delle cure attive, per evitare che il conseguente accanimento terapeutico produca un aggravio di sofferenza per il figlio e un inutile spreco di risorse.
I genitori vanno decentrati dal proprio dolore facendo comprendere loro il valore del benessere del figlio attraverso la ridefinizione del senso della speranza.
Quei genitori vanno decentrati dal proprio dolore facendo comprendere loro il valore del benessere del figlio attraverso la ridefinizione del senso della speranza. Un minore aiutato nella gestione del pensiero della morte sarà anche più capace di comprendere la fragilità dei propri genitori, i quali a loro volta supportati nel terribile compito di dover accompagnare la persona che forse amano di più verso l’ultimo addio – continua Roberto – saranno meno disarmati in questo percorso. In effetti le cure palliative pediatriche hanno bisogno di poter contare su una popolazione infantile e adulta più matura e per raggiungere questo obiettivo dei curricula di DeEd erogati in modo sistematico e tenuti da professionisti competenti possono permettere di raggiungere questo obbiettivo non più procrastinabile.
Ines Testoni
Professoressa di Psicologia sociale
Direttrice del Master EndLife in Death Studies & The End of Life
Università degli studi di Padova
Bibliografia
Il medico dinanzi all’ultimo compito evolutivo del paziente – Ines Testoni
Il punto di vista di Maurizio Mori, filosofo
Cosa dicono le riviste scientifiche. Cosa chiedono i medici e i ricercatori
La distruzione di ospedali da “danno collaterale” a obiettivo intenzionale: la nota di Angelo Stefanini